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Il neutrino? Questione di principio (di conservazione)

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Fu Antoine-Laurent de Lavoisier, chimico e nobile francese della seconda metà del XVIII secolo aenunciare la prima versione della legge di conservazione della massa. Lavoisier dimostrò che prima, dopo e durante una reazione chimica, la massa totale dei reagenti, pur cambiando di stato, rimane invariata. Analogamente era stato assodato che anche la massa fisica si conserva. Fu poi il turno dell’energia meccanica e successivamente di quella termica. Quando, nel 1905, Einstein mostrò l’equivalenza tra massa ed energia con la sua famosa equazione E = mc2, le varie leggi di conservazione furono considerate nel più generale principio di conservazione dell’energia totale, principio che sinora, e a differenza di altri, è sopravvissuto a tutte le successive scoperte scientifiche, non essendone mai stata trovata violazione. Anzi, è stata proprio la convinzione della sua validità, profondamente radicata nella mente di ogni fisico, a portare all’audace predizione, nel 1930 (confermata sperimentalmente solo un quarto di secolo dopo), dell’esistenza di una nuova particella elementare: il neutrino.

La radioattività era stata scoperta pochi anni prima (1896) e gli studi e le scoperte riguardanti la struttura e il comportamento dei nuclei atomici si susseguivano a ritmo incalzante. Presto furono classificati due modi diversi – alfa e beta – in cui si poteva manifestare il decadimento radioattivo con la relativa trasformazione di alcuni nuclei instabili in altri nuclei. Nel decadimento alfa il nucleo perdeva due unità nel numero atomico e quattro nel numero di massa e la radiazione emessa era poco penetrante (si scoprirà qualche anno dopo che si trattava di un nucleo di elio: due protoni e due neutroni legati tra loro). Nel decadimento beta il nucleo manteneva lo stesso numero di massa ma cambiava di un’unità il proprio numero atomico; la radiazione emessa (si capirà poi che si trattava di un elettrone o di un positrone) era ben più penetrante della radiazione alfa. Il decadimento alfa non destava grossi problemi, nonostante non fosse chiaro come potesse avvenire (lo spiegherà Gamow più di vent’anni dopo, ricorrendo all’effetto tunnel della meccanica quantistica) e il suo bilancio energetico era a posto. La particella emergente aveva, infatti, una energia pari alla differenza tra l’energia del nucleo, prima e dopo il decadimento. Il decadimento beta, invece, lasciava perplessi. L’energia della particella uscente variava con continuità e non bastava mai (a volte per poco, a volte per molto) a eguagliare la differenza di energia dei nuclei, prima e dopo il decadimento. Mancava qualcosa all’appello e ciò costringeva i fisici a confrontarsi con l’apparente violazione di uno dei principi a loro più cari: il principio di conservazione dell’energia.
Con il passare degli anni il decadimento beta diventava sempre più imbarazzante. Peter Debye, che vincerà poi il premio Nobel per la chimica nel 1936, suggeriva di non pensarci assolutamente, come sosteneva si dovesse fare con le nuove tasse, e persino Niels Bohr cominciava a dubitare. Egli si andava convincendo che il principio di conservazione dovesse essere inteso in senso statistico, che quindi potesse essere violato nel singolo decadimento ma che rimanesse valido su scala maggiore. La determinazione di un limite superiore allo spettro continuo di energia del decadimento non favoriva però l’ipotesi di Bohr, che rasentava comunque il sacrilegio. Si stava chiudendo l’anno 1930, ed erano ormai passati circa vent’anni dalla scoperta del decadimento beta, quando Wolfgang Pauli propose una soluzione alternativa che lui stesso, in una lettera indirizzata ad alcuni colleghi, “Liebe Radioaktive Damen und Herren”, definì “un rimedio disperato”. Pauli postulò, nell’estremo tentativo di salvare il principio di conservazione dell’energia cui era particolarmente affezionato e che riteneva fondamentale, che nel processo, oltre a un elettrone venisse emessa anche una particella fantasma che portava con sé l’energia che mancava a far tornare i conti. Era una soluzione certamente ad hoc che, tuttavia, salvando un principio fondamentale, si salvava anche dal rasoio di Occam.
Le proprietà della particella fantasma, inizialmente chiamata neutrone da Pauli, erano: carica zero, massa molto piccola (un centesimo al massimo della massa del protone), spin 1⁄2 e una sezione d’urto d’interazione con la materia probabilmente 10 volte inferiore a quella dei raggi gamma nucleari. Quando nel 1932 Chadwick scoprì il neutrone, si pensò per un breve periodo che potesse essere la particella fantasma postulata da Pauli. Fu Fermi, l’anno seguente, a spiegare che così non era. Fermi battezzò la particella di Pauli “neutrino” e la incorporò con successo nella teoria delle interazioni deboli. Il neutrino si dimostrò una particella in pratica invisibile e infatti rimase tale per un quarto di secolo, fino a quando, nel 1956, fu rivelata in maniera convincente da Fred Reines e Clyde Cowan al reattore di Savannah River in South Carolina. Solo il bosone di Higgs ci ha fatto attendere di più! Teorizzato nel 1964, è stato osservato per la prima volta 48 anni dopo, nel 2012 (v. “le Stelle” n. 109, pp. 4-5).

Di neutrini ora ne conosciamo tre coppie diverse (elettronici, muonici e tauonici, ognuno con la sua antiparticella); sappiamo che hanno massa minuscola (ma non nulla) e che si possono trasformare gli uni negli altri. Sappiamo anche che quando fanno una gara di velocità con la luce perdono sempre, anche se di poco. Sono particelle che hanno grande rilevanza sia per la fisica dell’incredibilmente piccolo sia per quella dell’incredibilmente grande: l’astrofisica. Basti pensare che i neutrini, con i fotoni, sono le particelle più abbondanti dell’universo: ce n’è quasi un miliardo per ogni protone. Il nostro Sole, da solo, ne produce 2x1038 ogni secondo, tanto che a Terra su ogni centimetro quadrato, ne arrivano circa 60 miliardi al secondo!
Li conosciamo da neanche cent’anni grazie alla fantasia coraggiosa di Pauli che, sempre nella sua lettera al gruppo di fisici della radioattività al congresso di Tübingen, scriveva di non osare pubblicare alcunché riguardo all’idea di questa nuova particella da lui proposta e chiedeva ai colleghi un parere sulla probabilità di trovarne evidenza sperimentale, consapevole di averla postulata ad hoc e consapevole che le sue proprietà la rendevano estremamente elusiva. Pauli fece appena in tempo a cogliere la soddisfazione della conferma sperimentale dell’esistenza dei neutrini. Morì infatti nel 1958, due anni dopo l’annuncio di Reines e Cowan.
Da tempo vi sono rivelatori di neutrini sparsi per il mondo. Sono inevitabilmente enormi, proprio per massimizzare la probabilità di registrare le
 loro rare interazioni con
 la materia (in un mezzo
 denso come l’acqua, il li
bero cammino medio di
 un neutrino solare con
 energia di 10 MeV è di
 molti anni-luce!). Inoltre, i
 rivelatori di neutrini sono
 di solito situati in miniere
 o in grotte (come il Super-
Kamiokande in Giappone
 o il Borexino sotto il Gran
 Sasso), nei mari profondi 
(Antares è nel Mediterraneo, al largo di Marsiglia a 
due chilometri e mezzo di
 profondità) o addirittura 
sepolti nei ghiacci (come
 IceCube in Antartide).
 Questo per schermare i
 rivelatori dalla radiazione 
cosmica che comportandosi come “rumore” nella 
ricerca dei segnali dovuti
 alle rare interazioni dei
 neutrini con la materia, ne
renderebbe proibitiva l’identificazione.
Gli studi dei neutrini di provenienza cosmica si sono concentrati soprattutto sui neutrini solari che evidenziarono subito quello che per anni è stato noto come il “problema dei neutrini solari” (la quantità di neutrini emessi dal Sole sembrava essere di molto inferiore – circa un terzo – a quella prevista a seguito delle reazioni nucleari che dovevano aver luogo all’interno del Sole). Il problema fu risolto quando ci si rese conto che i neutrini “oscillavano” cambiando natura durante il loro viaggio dal Sole alla Terra, così che i rivelatori, studiati per rivelare i neutrini di tipo elettronico, non vedevano la frazione che si era trasformata in un tipo diverso (v. “le Stelle” n. 87, pp. 6-8).
Nel 1987 è stata rivelata per la prima volta (dai rivelatori di Kamiokande II in Giappone e IMB negli Stati Uniti) una manciata di neutrini di provenienza extragalattica, prodotti dalla supernova SN 1987a esplosa nella vicina Grande Nube di Magellano. Ne furono “catturati” 19 dei circa 1028 che si stima abbiano in pochi secondi attraversato la Terra per l’occasione (altri 5 furono registrati nel Laboratorio del Monte Bianco ma 4,7 ore prima di Kamiokande e IMB – v.“leStelle”n.103,p.38 – e un segnale è stato visto anche nell’unico rivelatore criogenico allora in funzione: v. “le Stelle” n. 114, p. 46).
Più recentemente, l’esperimento Borexino al Gran Sasso ha rivelato i geo-neutrini, neutrini dovuti al decadimento radioattivo di alcuni elementi (Uranio, Torio e Potassio-40) contenuti nel mantello terrestre, fornendo quindi informazioni dirette sull’abbondanza di questi elementi (v. “le Stelle” n. 92, pp. 54-61 e “le Stelle” n. 119, pp. 58-61).

Sono proprio le caratteristiche che rendono i neutrini così difficili da rivelare (nessuna carica, piccola massa, bassissima probabilità di interagire con la materia) a rendere queste particelle delle sonde particolarmente utili per studiare ambienti altrimenti invisibili come appunto l’interno delle stelle ma anche del nostro pianeta. Il Sole è opaco ai fotoni prodotti al suo interno così come lo è l’interno della Terra. Ma poiché tutto è quasi completamente trasparente ai neutrini, essi ci permettono di “vedere” e studiare fenomeni che avvengono in luoghi altrimenti inaccessibili.

Tratto da : Le Stelle n°120, luglio 2013


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