Ogni epidemia offre una lezione da imparare a quanti siano
coinvolti nella gestione della crisi sanitaria, specialmente in termini di
comunicazione del rischio. Ogni malattia infettiva, infatti, può diventare molto
più pericolosa se supportata da informazioni sbagliate o incomplete. Da un
lato, la disinformazione va veloce e va lontano, spesso attraversando i confini
geografici prima che le organizzazioni locali abbiano attivato la loro risposta
all’epidemia.
Dall’altro, la mancanza di informazioni attendibili, per esempio
sul numero di persone contagiate, potrebbe rallentare gli sforzi effettuati per
contenere la diffusione della malattia.
L’epidemia di Ebola che sta scuotendo l’Africa occidentale
in queste settimane ha evidenziato questi problemi.
Al 24 settembre scorso, l’epidemia aveva
già causato 6.242 casi di infezione con 2.909 morti. Finora, ha causato più
casi e più decessi di ogni precedente epidemia da virus Ebola. Povertà estrema,
un sistema sanitario che non funziona e paura sono le tre ragioni principali di
questa crisi
sanitaria internazionale.
Delle quattro nazioni colpite, tre – Guinea, Liberia e
Sierra Leone – sono tra le più povere al mondo, con gran parte della popolazione
priva di un salario. Per poter trovare lavoro, moltissime persone attraversano di
continuo le frontiere di questi paesi, note per essere permeabili e difficili
da controllare. Non sorprende, quindi, che la trasmissione del virus sia stata considerevole
nell’intersezione dei tre confini.
I sistemi sanitari dei paesi colpiti mancano delle risorse
necessarie a far fronte a una simile emergenza: le strutture locali
non riescono a ospitare tutti i pazienti e il numero di dottori
disponibili è particolarmente basso, con la maggior parte concentrata nelle
aree urbane. Tale situazione è stata ulteriormente aggravate dal fatto che il
virus abbia infettato 240 operatori sanitari, di cui oltre 120 sono morti,
incluso Sheik Umar Khan, il
medico eroe della Sierra Leone, che aveva in cura oltre 100 pazienti.
E poi c’è il fattore paura
Paura della quarantena, che potrebbe spingere le persone
infette a stare alla larga dal sistema di sorveglianza o potrebbe spingerle a
nascondere parenti malati; paura di essere contagiati dai propri pazienti, che
ha portato diversi operatori sanitari a rifiutarsi di andare al lavoro, impoverendo
ulteriormente le già scarse risorse disponibili; paura di non essere
in grado di procurarsi cibo, a causa dei blocchi e degli stretti controlli alle
frontiere; paura di essere stati colpiti da una maledizione, dato che in alcune
aree Ebola è considerato un prodotto di
stregoneria. La paura è alimentata sia dalla disinformazione sia dalla mancanza
di informazione.
Questa è la vera
ragione per cui la comunicazione del rischio potrebbe contribuire a salvare
vite.
Gli esperti del progetto TELL ME hanno raccolto e studiato le prove
disponibili sulla comunicazione del rischio e di crisi durante epidemie e
pandemie. La loro ricerca suggerisce che la comunicazione del rischio
richiede un approccio diversificato che tiene in considerazione lo sviluppo
tecnologico, culturale e sociale.
Su queste basi, è stato sviluppato un Framework Model diretto alle
organizzazioni locali, che traduce concetti e teorie in approcci pratici, adattabili
a situazioni specifiche di rischio e che costituiscono le fondamenta per una
guida alla comunicazione. Il modello individua sette componenti principali di
comunicazione del rischio e di relazioni tra di essi: sfera pubblica, segmentazione,
mass media, social media, opinion leader, ricerca e stakeholder.
Una comunicazione efficace in caso di epidemie dovrebbe
risultare dal dialogo di tutti questi elementi, con la sfera pubblica
decisamente al centro. Soprattutto, gli esperti del progetto TELL ME hanno
evidenziato l’importanza di “ascoltare il pubblico”, in modo che le paure della
gente comune non siano bollate come irrazionali.
Al contrario, dovrebbero
essere tenute in considerazione nel pianificare una strategia di comunicazione
epidemica, per alimentare la fiducia nelle autorità ed evitare che si diffonda
disinformazione.
Guadagnarsi la fiducia della popolazione in Africa Occidentale
non è tuttavia facile per le autorità. Decenni di guerra hanno alimentato la
sfiducia della popolazione verso governo e istituzioni, incluse quelle sanitarie.
Il che, aggiunto al già menzionato fattore paura, costituisce un problema serio
per una delle relazioni chiave nella comunicazione del rischio: quella tra la
popolazione e gli operatori sanitari. Dare voce alle preoccupazioni delle
persone è dunque cruciale per poter riallacciare un legame con le istituzioni,
un legame che potrebbe diventare un canale per combattere sia la
disinformazione sia la mancanza di informazioni attendibili.
Per riuscire a creare fiducia, sottolineano
gli esperti TELL ME, le organizzazioni dovrebbero essere presenti sui media
– soprattutto sui social – molto prima che esploda una crisi o
un’emergenza. Questo aiuterebbe a creare un senso di comunità e a sviluppare un
tipo di comunicazione interattiva, basata sullo scambio di informazioni e
opinioni tra individui, gruppi e istituzioni. Come menzionato in precedenza, “ascoltare
il pubblico” deve essere il principio fondamentale quando si ha a che fare con
la popolazione. Un principio che non può essere seguito se la comunicazione del
rischio è intesa come un sistema di messaggi dall’alto al basso, dalle istituzioni
alla gente. In un sistema di questo tipo non c’è spazio per le interazioni e,
di conseguenza, non c’è spazio per ascoltare e riconoscere le preoccupazioni
delle persone.
Le istituzioni sanitarie e governative delle nazioni Africane colpite non hanno costruito una presenza sui social media, ma questo non significa che sia troppo tardi per sviluppare una comunicazione bidirezionale con gli stakeholder coinvolti, includendo non solo la popolazione ma anche gli operatori sanitari. Fare appello a questi ultimi è cruciale, non solo perché rappresentano un canale di mediazione tra le agenzie sanitarie e il pubblico, ma anche perché l’elevata esposizione alla malattia li fa rientrare nei gruppi a rischio. Questo significa che la loro percezione del rischio potrebbe influenzare la loro analisi del rischio stesso. Tre membri del Consorzio TELL ME hanno condotto un’indagine online tra operatori sanitari e pubblico in Israele, scoprendo che una percezione del rischio relativamente bassa è associata con la tendenza a basare il proprio comportamento su conoscenze analitiche. Tuttavia, se la percezione del rischio è alta, non è stata individuata alcuna differenza tra gli operatori e il pubblico generale in Israele. Ciò significa che entrambi basano i loro comportamenti più su emozioni o esperienze personali che sulla conoscenza analitica. Questo è un altro elemento che deve essere considerato nella gestione di una crisi sanitaria. In un tale contesto, l’impatto dei social media, sia come canale di disinformazione sia come strumento per ostacolarla, dovrebbe essere analizzato accuratamente.
#EbolaFacts, quando i social aiutano le autorità sanitarie
La dinamiche che causano la diffusione di notizie false sono
state recentemente oggetto di studio, usando come modello le rivolte di
Birmingham nell’agosto 2011 e la relativa diffusione di disinformazione su Twitter.
Lo studio ha rivelato che le informazioni false, soprattutto se a contenuto
drammatico, si possono diffondere molto facilemente se non confutate
immediatamente. Tuttavia, non appena il numero di persone che aveva letto la
notizia su Twitter era aumentato, molti avevano cominciato a fare controlli
incrociati e a verificare con fonti ufficiali. Questo dimostra che le reazioni
spontanee degli utenti dei social media potrebbero contrastare la diffusione di
disinformazione, a patto che informazioni affidabili siano disponibili per una
verifica dei fatti.
Nel caso di Ebola, molte persone delle regioni colpite dal
virus hanno cominciato subito a usare i social media per scambiare informazioni
sulla malattia e sulla prevenzione. Hashtag come #EbolaFacts sono molto
seguiti e condivisi anche da celebrità locali. L’alto utilizzo di telefoni
cellulari nell'Africa Occidentale rinforza l’efficacia di queste campagne,
permettendo in questo modo di offrire informazioni valide su come evitare il
contagio.
Tuttavia, le aree più rurali della Guinea, della Liberia e dalla Sierra
Leone non sono online e ciò significa che le persone a più alto rischio di
infezione sono anche quelle più difficili da raggiungere.
Ci sono quindi diverse questioni importanti da tenere in considerazione: la sfiducia nei riguardi delle istituzioni dovuta a lunghi periodi di
conflitto; la superstizione sia sulle cure miracolose sia sulle origini
soprannaturali della malattia; meriti e pecche dei social media come strumento
contro la diffusione di informazioni scorrette o incomplete. Questi sono alcuni esempi di
aspetti sociali, culturali e tecnologici caratteristici della
situzione in Africa Occidentale, che interesseranno qualsiasi approccio alla
comunicazione del rischio in quell’area. Simili elementi andrebbero
identificati velocemente quando si ha a che fare con una crisi sanitaria.
Questa è la lezione che dovremmo trarre dall’epidemia di Ebola. Una lezione
da applicare adesso per combattere questa malattia con armi migliori, ma
anche per prepararsi al meglio per un’altra, perché la comunicazione del
rischio non può semplicemente consistere in una reazione a una crisi, ma dovrebbe aiutare a
fronteggiarla prima che si verifichi.
Abbiamo
imparato da esperienze precedenti che le epidemia di Ebola possono essere
contenute, persino senza vaccini o cure. Grazie alle caratteristiche del virus,
identificare le persone infette, isolarle e trattarle in strutture idonee può
interrompere la catena di trasmissione, fermando quindi la diffusione della
malattia.
E, ancora
una volta, essere in grado di farlo richiede una strategia di comunicazione efficiente.