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Fatti per giocare

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L’accelerazione tecnologica nella quale siamo immersi sta modificando radicalmente il nostro modo di (co)costruire conoscenze, di cercare informazioni, di apprendere, di partecipare e di agire nel mondo e contestualmente sta cambiando il funzionamento delle nostre menti. Oggi, i ragazzi seduti sui banchi di scuola fanno parte di quella generazione che Prensky, in un suo articolo del 2001, ha definito la generazione dei nativi digitali. I nativi digitali sono quelle persone in cui la costante interazione con le tecnologie digitali ha favorito l’emergere di differenze negli stili di elaborazione delle informazioni preferendo un carattere grafico rispetto a quello testuale, l’attività rispetto alla passività nella fruizione della conoscenza e un’elaborazione parallela rispetto a quella lineare. Questa generazione sta sviluppando anche specifiche modalità di apprendimento caratterizzate da un sistematico ricorso al metodo, di Thorndikiana memoria, per “tentativi ed errori”. Per loro, l’errore è qualcosa di naturale, fa parte del processo di apprendimento stesso: non appena ci si accorge dell’errore è sufficiente un click del mouse per eliminarlo. Sono i ragazzi del “tutto e subito”, abituati a ricevere le risposte cercate subito dopo aver posto la domanda, spesso diventano intolleranti all’attesa. Per questi ragazzi l’apprendimento non è mai stato un percorso graduale e distribuito nel tempo, ma sono pronti a imparare quando serve e lo fanno velocemente, in modo dinamico, interattivo, coinvolgente e persino divertente grazie all’immersione negli ambienti virtuali che internet e i videogiochi offrono. Quindi, i nativi digitali sono abituati a muoversi - stando seduti – in ambienti ricchi di stimoli in cui le componenti linguistiche tendono a scomparire a vantaggio di quelle iconiche, percettive e motorie. Questi studenti che apprendono giocando sono spesso criticati dagli appartenenti alle vecchie generazioni, accusati di non sapere cosa voglia dire faticare per arrivare a un obiettivo. Ma chi l’ha detto per che un apprendimento approfondito si debba necessariamente passare attraverso le sudate carte? 

Come ci ricordano Anolli e Mantovani, per la nostra specie (e non solo per la nostra) il gioco è un’attività fondamentale, universale e continua che attraversa tutta la nostra esistenza, è una necessità per la sopravvivenza. Sin dall’infanzia il gioco ci consente di appropriarci di una vasta gamma di strumenti e di modelli mentali ed è uno dei percorsi privilegiati per lo sviluppo extrauterino del cervello. Come sosteneva già Piaget nel 1945, attraverso il gioco, il bambino si impadronisce di una serie di competenze che gli consentiranno da adulto di interagire efficacemente con l’ambiente fisico e sociale. Per lo psicologo svizzero Claperède un bambino che non sa giocare è in “fieri” un adulto incapace di pensare e di ragionare, ma anche di agire responsabilmente. Nel gioco, infatti avviene un apprendimento a 360° che comporta l’attivazione di un piano motorio, emotivo, intellettuale, relazionale e sociale. L’attività ludica compare nel bambino con il progredire dello sviluppo senso-motorio: già a tre mesi un neonato che, per caso, avrà fatto dondolare un ciondolo appeso alla sua culla, sarà portato a ripetere il gesto accompagnandolo con esplicite manifestazioni di gioia. Tra i 18 e i 24 mesi invece, compare nel bambino il gioco simbolico, il “facciamo finta che…”. Il gioco simbolico inizia quando, azioni di routine e oggetti reali sono distaccati dalle loro funzioni classiche e dai loro ruoli per essere usati in maniera atipica, giocosa (Berk 1991).
Per poter fare questo, i bambini devono essere in grado di mantenere ben due strutture di significato: una struttura reale (referenziale) e una struttura simbolica (ludica). Il gioco di finzione è una delle primissime manifestazioni di quella che è stata definita da Anolli e Mantovani (2011) la mente simulativa: il bambino assume un certo oggetto “come se” fosse qualcosa d’altro. Questo nuovo paradigma della mente simulativa consente di capire come funzionano i complessi processi di conoscenza e di spiegare i fondamenti dell’attività mentale.

La simulazione è in qualche modo una “sintesi della realtà”: essa cerca di conoscere e di capire la realtà sintetizzandola, cioè mettendola insieme a partire dalle sue componenti e riproducendola in una rappresentazione mentale. La mente simulativa agisce in modo situato, cioè legato alle esperienze, contingente, locale e radicato nell’organismo; è in grado di fornire rappresentazioni mentali degli eventi e dei fenomeni integrando tutte le informazioni provenienti dalle diverse modalità sensoriali, emotive, affettive, dai comportamenti e dalle azioni ecc. Per cui, grazie alla presenza di una competenza simulativa, nel gioco simbolico il bambino riesce a riprodurre eventi autobiografici, ad assumere ruoli diversi (dal pompiere al dottore), a inventare situazioni fino a creare nuovi mondi possibili come nel caso dell’amico invisibile. Addirittura, se l’adulto con cui il bambino sta condividendo il gioco simbolico tenta di introdurre aspetti della realtà nella finzione, il bambino protesta vivacemente. Tali proteste implicano che egli possa già, a quell’età, distinguere nettamente il mondo reale da quello simulato e che sia consapevole del fatto che la mancanza del rispetto delle norme che regolano il gioco simbolico significhino la fine del gioco stesso. Oltretutto, giocando, il fanciullo ha modo di appropriarsi della cultura di appartenenza, per il filosofo Johan Huizinga (1938) più che sapiens, l’Homo è ludens: non esiste nessun’altra specie animale che dedica tanto tempo quanto noi all’attività ludica.

Giocando si creano mondi fittizi in cui le azioni giocose simulano quelle reali e attraverso questa attività simulativa si è in grado di apprendere. Mente ludica e mente simulativa vanno a braccetto e la loro interazione consente agli esseri umani l’enorme sviluppo delle loro conoscenze e applicazioni, delle manifestazioni più articolate della loro vita affettiva e relazionale nonché delle loro espressioni artistiche e creative a vari livelli (Anolli e Mantovani, 2011). Sfruttando il binomio “mente simulativa + mente ludica” unito all’utilizzo delle recenti e più avanzate tecnologie digitali  stanno emergendo nuovi strumenti di apprendimento e formazione come i Serious Games

I Serious Games sono stati sviluppati circa un decennio fa in ambito anglosassone. Anolli e Mantovani li definiscono come delle “attività digitali interattive che, attraverso la simulazione virtuale, consentono ai partecipanti di fare esperienze precise, accurate e persino complesse in grado di promuovere attraverso la forma del gioco percorsi attivi, partecipati e coinvolgenti di apprendimento nei vari domini dell’esistenza umana”. Ai tempi di internet, di wikipedia, dei blog, dei social network e, di conseguenza ai tempi dei nativi digitali, un sapere puramente nozionistico fondato su modelli di apprendimento statici, fissi, ripetitivi e contenutistici non è più adattivo. Per le loro caratteristiche, questi giochi si offrono ai nativi digitali, e non solo, come una valida e stimolante alternativa all’insegnamento tradizionale che, essendo basato sul classico metodo della lezione frontale e del rapporto unidirezionale docente-discente mal si adatta alla nuova generazione di studenti. Al centro dell’attenzione viene messo l’allievo che di volta in volta deve superare le sfide che gli vengono proposte e ritenere le informazioni necessarie a progredire nel gioco. A farla da padrone sono la simulazione di modelli della realtà e la dimensione ludica, che, sebbene sia seria, riesce a essere emotivamente coinvolgente e ricca dal punto di vista contenutistico e delle competenze che intendono sviluppare. 

I Serious Games, cercano di rispondere alle esigenze dell’attuale società della conoscenza, nella quale il ventaglio di competenze richieste per farne parte è estremamente eterogeneo e complesso in cui sempre maggiore importanza viene attribuita allo sviluppo di quelle che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito “abilità per la vita”. Tra le competenze che si propongono di far sviluppare, giocando, ci sono le abilità di problem solving, pensiero creativo, competenza comunicativa, empatia,  gestione del conflitto, efficacia personale e collettiva, a cui si possono aggiungere competenze quali l’abilità nel ricercare informazioni e conoscenze, la capacità di lavorare in gruppo e il saper partecipare efficacemente alla vita delle comunità di cui si fa parte. I Serious Games, così come più in generale la grande maggioranze delle nuove tecnologie, costituiscono un’importante opportunità sociale in grado di promuovere, divertendosi, la partecipazione e l’assunzione di responsabilità, ingredienti fondamentali dell’educazione di un cittadino che vuole essere attivo nella società della conoscenza e intervenire realmente e consapevolmente nelle decisioni che lo riguardano. Rispondendo alle effettive esigenze dei nuovi nativi digitali i Serious Games, infatti, possono rappresentare un valido strumento per insegnanti e formatori che non vogliono limitarsi a trasmettere contenuti ma che  vogliono promuovere le abilità necessarie a interpretarli e utilizzarli. La finalità ultima deve essere quella della formazione di un cittadino che può sentirsi libero nell’espressione delle proprie idee e nella partecipazione al cambiamento. 

di Lisa Giupponi

Bibliografia 

Prensky M. (2001). Digital Natives, Digital Immigrants. In On the Horizon vo. 9, n. 5.

Anolli L., Mantovani F. (2011). Come funziona la nostra mente. Apprendimento Simulazione e Serious Games. Bologna: il Mulino  

Piaget J. (1945). La formazione del simbolo nel bambino. (trad. 1975). Firenze: Giunti  

Berk L.E. (1991). Child Development. Boston: Allyn & Bacon Huizinga J. (1938). Homo ludens. (trad. 2002) Torino: Einaudi

 

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