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Contro le alluvioni ricostruiamo la natura

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Questo articolo non presenta dati e quasi nemmeno citazioni perché diventerebbe alquanto pesante da scrivere e da leggere e la logica è forse più chiara così. Comunque, le evidenze esistono: il CIRF nel suo Manuale ne ha raccolte molte, e diversi progetti europei stanno approfondendo i diversi fronti con profusione di informazioni. Molte sono reperibili dal sito www.cirf.org e soprattutto da quello del suo omologo europeo the European Centre for River Restoration www.ecrr.org.

Troppo cemento

La tragedia appena avvenuta in Liguria purtroppo non sarà l'ultima. Se però fino a ieri, insieme alle piogge “eccezionali”, la responsabilità si attribuiva unicamente alle opere di difesa attese da anni e mai realizzate e alla mancata “pulizia degli alvei”, oggi si sta diffondendo sempre più una consapevolezza più amara: la situazione attuale è determinata in larga parte dal fatto che sui fiumi e nei loro bacini si è edificato in modo dissennato e si è intervenuti e si sta intervenendo troppo e male: troppo cemento!

Naturalmente, su tutto ciò intervengono i processi naturali delle dinamiche geomorfologiche: le montagne prima o poi vengono erose e crollano, le valli sedimentate, i fiumi esondano e divagano, hanno bisogno estremo di cambiare. Come aveva ineguagliabilmente descritto Leonardo con la sua visione chiara e potente delle dinamiche geomorfologiche (testimoniate, tra l’altro, dai suoi meravigliosi dipinti di ambiti fluviali visibili nel Museo della Scienza e Tecnica di Milano): “l’acqua disfa li monti e riempie le valli e vorrebbe la Terra in perfetta sfericità, s’ella potesse”.

Non esiste intervento umano che possa davvero bloccare la natura; e se ci fosse, oltre che spropositatamente costoso e non duraturo, sarebbe pure indesiderabile per molte altre conseguenze. Basta guardare al nostro fiume Po: nel corso dei secoli è stato progressivamente costretto da un crescente numero di arginature che oggi lo costringono senza soluzione di continuità fino al mare; risultato: a parità di evento, i livelli di piena sono progressivamente cresciuti, costringendo a rialzare gli argini e sostanzialmente aumentando il rischio di evento alluvionale drammatico. Nella zona finale, inoltre, il letto è pensile, cioè più alto del piano campagna, perché i sedimenti trasportati dal fiume non trovano più il naturale sfogo nelle periodiche vaste esondazioni nella sua pianura alluvionale. Questa mancanza di apporto solido, che in natura contrasta il processo di compattamento dei suoli relativamente giovani, contribuisce a esacerbare il fenomeno di subsidenza (determinato peraltro in larga misura dalla sovraestrazione di gas e annessa acqua dal sottosuolo nel secolo scorso).

Anche al di fuori della pianura il concetto non cambia: opere che modificano la dinamica fluviale comportano uno scotto molto pesante; canalizzare i flussi liquidi e solidi concentra l’energia in una vera bomba idrica, come si è visto in questi giorni drammatici.

Queste affermazioni non intendono veicolare il messaggio “…era meglio prima, dobbiamo tornare al bucolico paesaggio agreste…”; bensì il seguente: …”ci siamo creati un problema enorme” e pure “non sappiamo nemmeno se, fatti tutti i conti, ne valeva davvero la pena; e ancor meno se ne varrà la pena per i nostri figli e nipoti”.

Cambiamento climatico…anche

A questa lotta cieca contro la natura si aggiunge probabilmente anche il cambiamento climatico: il futuro sarà peggio. E’ sotto gli occhi di tutti che gli eventi drammatici legati al clima si susseguono sempre più incalzanti; poco importa se l’incremento di frequenza sia dovuto prioritariamente al cambiamento climatico o alla cresciuta e crescente urbanizzazione (a parità di cause naturali, il rischio e quindi il danno aumentano perché aumenta la posta in gioco, cioè i beni esposti); o ancora alla cresciuta comunicazione su quel che succede altrove.
In ogni caso, quel futuro… è già oggi.

Mettere in sicurezza: l’origine dell’errore

L’essenza di questa affermazione è che il paradigma della sistemazione idraulica moderna, cioè il “mettere in sicurezza”, è una pericolosa chimera; anzi, una vera bugia. Infatti, si sottintende, senza dirlo ai poveri mortali, una condizione essenziale: “...sicurezza, rispetto a un evento di riferimento”, ma… e se ne avviene uno più grave, cosa succede? Il vero disastro. E questi “eventi più gravi” ci sono sempre stati e, pare, ci saranno sempre più frequentemente. In sostanza, questa politica, seppur quando applicata in buona fede, di fatto non fa altro che amplificare il danno reale a causa del perverso, semplicissimo, processo qui descritto: le opere “mettono in sicurezza” rispetto all’evento di data intensità (e tempo di ritorno T*)[1] per il quale sono progettate; in virtù di questa rassicurazione si edifica ulteriormente aumentando a dismisura il valore esposto agli eventi; un giorno o l’altro, magari ben prima del famoso T*, avviene un evento più grave di quello di progetto, l’opera non basta e fallisce; il rischio si tramuta in danno reale. Inutile forse ricordare che in realtà il processo avviene spesso al rovescio: un imprenditore vuole fare un investimento molto remunerativo, o un amministratore vuole rispondere all’esigenza di crescita del proprio territorio (spesso è amico del primo soggetto e la cosa acquisisce altre tinte); la zona candidata è proprio quella oggi ancora libera e di minor valore (proprio perché più pericolosa) e che, per colmo di attrattiva, è pianeggiante e di facile accesso: l’ultimo lembo di piana fluviale; il rischio mappato è elevato, ma basta realizzare opere e magicamente la zona è “messa in sicurezza”; si costruisce e si vende con lucrosi benefici immediati (dei pochi); molti comprano e ci si insediano; un giorno o l’altro… (e il futuro prima o poi arriva) qualcuno ci muore o almeno molti soffrono danni ingenti e disperazione. Non è finita: si invoca nuovamente la messa in sicurezza, nuove opere arriveranno (in ritardo) e tutto sarà dimenticato. Almeno fino alla prossima puntata.

Un esempio in arrivo: in Veneto, in seguito ai disastri del 2006-2007 sono state emanate disposizioni che introducono un concetto innovativo, di taglio apparentemente ambiental-compatibile, denominato invarianza idraulica che, in sostanza, esprime l’idea del tutto condivisibile di mantenere per ogni pezzo di territorio, dopo qualsiasi eventuale trasformazione (leggi urbanizzazione), la risposta idrologica attuale, cioè non incrementare il picco di piena causa impermeabilizzazione. A tal fine, sempre nel caso di trasformazione, la legge impone di realizzare collateralmente opportuni interventi, come in particolare (oltre a molti altri del tutto condivisibili) serbatoi artificiali sotterranei capaci di ricevere durante la piena un volume significativo tale da smorzarne il picco e rilasciare poi (via pompaggio) successivamente il volume invasato. L’idea è tecnicamente corretta: la trasformazione è “trasparente” (nel senso di invisibile) per il resto del territorio che sperimenterà gli stessi picchi di prima di oggi, senza subire impatti, nonostante l’urbanizzazione sia cresciuta un po’ dappertutto. Ma c’è un dettaglio: la verifica e il progetto degli interventi va fatto per un evento di riferimento con tempo di ritorno 50 anni!
Après moi, le déluge.

Manutenzione mancata…sempre di più

C'è di più: le opere possono fallire non solo perché, poverette, avvengono eventi più gravi di quello di progetto (con maggior tempo di ritorno, in accordo o alla faccia della statistica), ma anche per reale collasso (si pensi a un argine).
Si lamenta sempre, in questi casi, che la causa è la mancanza di manutenzione. Spesso è proprio vero. A volte per una ragione molto semplice: come si può fare manutenzione di corsi d’acqua tombinati (cioè ricoperti da un piazzale di cemento o piano stradale, o inscatolati in un angusto box culvert sotto metri di suolo)?
Ma, più in generale, il motivo chiave è banalmente la mancanza di soldi per mantenerle. Tragico è il fatto che ce ne saranno sempre meno - anche indipendentemente dalla crisi economica - per il semplice fatto che le opere si accumulano quale pesante conto della spesa di ogni mese su di noi e i nostri figli e nipoti: infatti, una volta realizzate, vanno mantenute per sempre, sia le nuove che le vecchie. Per sempre.

Sistemi di allerta, previsione e protezione civile

Indubbiamente, la previsione è molto utile, soprattutto per le zone di pianura e gli eventi di formazione lenta, insomma fiumi, non torrenti, colate di detrito, frane. Per questi ultimi fenomeni, c’è poco da fare, siamo di fronte a fenomeni con tempi troppo rapidi rispetto ai tempi di reazione umana. Inoltre, chi gestisce la responsabilità di emanare un’allerta (con evacuazione e altre misure socialmente antipatiche) ha un compito davvero ingrato: se dà l’allarme e non succede nulla, perde credibilità e inoltre la prossima volta nessuno lo rispetta (Perino e il lupo), quindi perde efficacia; se non dà l’allarme e l’evento avviene, è un criminale. Solo nei rarissimi casi in cui imbrocca, diventa per breve tempo un eroe.

Quindi la previsione è indispensabile, ma non risolutiva. Come fondamentale è la protezione civile (peraltro eccellente in Italia), ma solo per risollevarsi a evento avvenuto. Prima di tutto, occorre invece prevenzione.

La risposta sta nell’agire sulle cause; ma parte delle cause... è proprio la risposta

A livello internazionale la comunità tecnico-scientifica si è ormai convinta che ci sono troppe opere di difesa nei fiumi, non troppo poche! [2] Anche per questo, l’Europa si è per questo dotata di Direttive (Dir.Acque2000/60/CE e Dir.Alluvioni/2007/60) per spingere gli Stati membri a mantenere e recuperare il “buon stato ecologico” dei fiumi e a ridare loro spazio.

Per ridurre il rischio, insomma, è insensato artificializzare ulteriormente i fiumi; occorre, al contrario, incrementare la loro naturalità, eliminando una volta per tutte l'errata convinzione che i due obiettivi siano tra loro in antitesi: assecondare le dinamiche fluviali significa migliorare le condizioni dell'ecosistema e al tempo stesso ridurre il rischio e le spese; ma ciò è davvero efficace se si agisce a livello di intero bacino idrografico.

Occorre sposare per questo una visione profondamente innovatrice e ben più audace di quella degli attuali Piani di bacino: non più "mettere in sicurezza" - falsa e pericolosa chimera - ma adattarsi piuttosto a convivere con il rischio, cercando ovviamente di ridurlo. Su questo, probabilmente tutti sono d’accordo, ma dato che il rischio è sostanzialmente il prodotto di pericolosità (gli eventi di piena) x danno potenziale (i beni esposti) x vulnerabilità (quanta parte del bene esposto si danneggia davvero in ogni dato evento), l’interpretazione comune è piuttosto agire sulla pericolosità realizzando appunto opere che modifichino la natura (es. un argine che impedisce l’esondazione). Invece, la logica della riqualificazione fluviale propone di ripristinare il più possibile il comportamento naturale, perché è quello capace di mantenere gli equilibri, e di agire invece a tutti i livelli per limitare e anzi ridurre il danno esposto e la nostra vulnerabilità. Questo si traduce in: restituire spazio al fiume abbattendo o almeno allontanando gli argini e impedendo in ogni modo l’ulteriore occupazione delle zone esondabili; trovare strumenti economico-amministrativo-giuridici perché le zone rurali prestino volontariamente il loro servizio di ammortizzatori degli eventi intensi: ciò, non solo per una soddisfazione etica, ma anche in quanto attività riconosciuta e remunerata; eventualmente anche delocalizzare edifici o addirittura interi quartieri e/o almeno ridisegnarli e adattarli in modo adeguato anche con interventi arditi e molto dispendiosi affinché possano convivere con fiumi sempre più arrabbiati; innanzitutto, naturalmente, evitare il consumo di suolo da parte di nuovi scellerati insediamenti.

Adattare gli edifici e le infrastrutture significa sfruttare i tetti perché assorbano le precipitazioni (e magari fungano da orti urbani), abilitare le piazze a diventare temporanei invasi idrici, trasformare gli scantinati in invasi di laminazione (proibendone con rigore l’uso antropico), cambiare l’uso dei piani terra perché invece che persone, sappiano ospitare giardini e onde di piena, quando necessario.

Ricostituire gli equilibri nel bacino idrografico implica ridurre gli enormi costi di gestione delle opere progressivamente danneggiate, divelte dai fiumi imbrigliati (sconvolgente verificare quanto si è speso davvero su un fiume per fare e rifare magari da centinaia di anni gli stessi interventi per salvare, magari, un pezzetto di terreno coltivato a mais).

Soldi sì, tantissimi, ma anche sviluppo

Abbiamo bisogno di idee per uscire dalla profondissima crisi economico-politica. Ecco, qui c'è un'immensa opera pubblica che veramente farà del bene al Paese: ricostruire natura, avviare un grande processo per l’adattamento o delocalizzazione degli insediamenti a rischio (idrogeologico, ma anche sismico e altro) e di strutture a forte degrado energetico-strutturale-ambientale e la loro ricostruzione in siti o in zone davvero compatibili, con criteri di edilizia e urbanistica sostenibile e di vera riqualificazione fluviale, cioè che comportino un miglioramento vero della qualità ecologica, come chiaramente richiesto dalla Direttiva Quadro sulle Acque (Dir. 2000/60/CE) e quella Alluvioni (Dir. 2007/60/CE). Si tratta di innovare nel modo di costruire; comprendere i benefici degli ecosistemi fluviali e acquatici e sfruttarli, anzi valorizzarli, ma in modo sostenibile e prima di tutto rispettoso.

Tutto ciò va assolutamente in linea con la creazione di competenze a tutti i livelli, dagli operatori agli esperti internazionali, dai progettisti e società di consulenza alle imprese costruttrici: una vera manna per l'occupazione e un nuovo servizio da esportare. Vale la pena di sottolineare una differenza interessante tra questa idea e quella della grande opera di manutenzione del territorio di cui si parla molto nel mondo ambientalista. Quest’ultima, senz’altro indispensabile, costituisce essenzialmente un costo per la società che, per mantenersi come sta, deve continuare a spendere in manutenzione; genera anche occupazione, aspetto socialmente positivo, ma economicamente resta un costo (di quelli che andrebbero cancellati e non sommati al PIL). Invece, ricostruire natura è proprio un investimento, seppur costosissimo, perché, grazie a Ricardo, se diventiamo molto bravi in tale arte possiamo esportarla altrove e… c’è un mondo intero che ne ha bisogno. Naturalmente, molta gente ci ha già pensato. Non per niente gli olandesi, che a priori sono oggettivamente i più handicappati dato che hanno il Paese con più infrastrutture (gigantesche) da mantenere per sempre se non vogliono sparire sott’acqua, sono oggi forse anche i più bravi in materia di gestione delle risorse idriche e del territorio ed esportano ormai da anni attraverso un’intelligente e lungimirante politica di cooperazione questa loro abilità. Hanno fatto della loro debolezza il loro punto di forza. E noi che, visto il territorio, di debolezze drammatiche, ma con caratteristiche ben diverse da quelle olandesi, ne abbiamo letteralmente da vendere, abbiamo un asso nella manica. Ma, per favore, non leggete “esportare la competenza delle società di ingegneria”; quella c’è già da decenni e più. Sto parlando di una competenza che ancora non esiste: ricostruire natura in modo intelligente, innovativo, coraggioso, fantasioso, bello.

Molti iniziano a essere convinti che questo è il meglio che possiamo fare per proteggere, ripristinare, valorizzare una delle nostre risorse più importanti: la bellezza e unicità del nostro paesaggio e della sua cultura. Gli amministratori pubblici, i rappresentanti politici a tutti i livelli, hanno la responsabilità di invertire la rotta; e ne possono anche trarre forza per i loro programmi politici: riqualificare davvero può avere una enorme visibilità sociale, oltre a comportare veri benefici economici (turismo, valorizzazione immobiliare, minori costi di depurazione, etc.) e fondamentali servizi ambientali: pace e bellezza, fonti di profondo benessere psichico e spirituale.

Il CIRF (Centro italiano per la riqualificazione fluviale www.cirf.org ) è un'associazione culturale tecnico-scientifica senza fini di lucro fondata nel luglio 1999 da un gruppo multi-disciplinare di tecnici per favorire la diffusione della cultura della riqualificazione fluviale e delle conoscenze a essa connesse e per promuovere il dibattito su una gestione più sostenibile dei corsi d'acqua. Il CIRF ha scritto in modo partecipato il "Manuale della riqualificazione fluviale in Italia" oltre a molte altre pubblicazioni tra le quali la Rivista Riqualificazione Fluviale, scaricabile gratis dal sito. Ha realizzato viaggi studio per toccare con mano queste problematiche e discutere dal vivo possibili soluzioni reali. Ha sviluppato diversi progetti pilota (studi). E' no-profit in senso letterale, non gode di alcun finanziamento pubblico e vive dei progetti che riesce a mettere in campo e dei soci (anche voi che leggete potete esserlo con una quota modesta); sta operando anche a livello internazionale sperando di aiutare i paesi in via di sviluppo a non ripercorrere i nostri stessi errori. Accomuna membri di tutti i tipi, e molti liberi pensatori , ma tutti amanti di un mondo più bello.



[1] Il “tempo di ritorno” è un parametro chiave nella difesa del suolo; è il numero di anni che, in media, statisticamente parlando, intercorre tra due eventi di data intensità (“statisticamente” implica che potrebbero anche avvenire uno dopo l’altro). A maggiori tempi di ritorno corrispondono eventi più gravi. In Italia si fa riferimento usualmente ai 200 anni , evento rispetto al quale mettere in sicurezza, o ai 500 anni per delimitare le zone interessate dall’evento denominato “catastrofico”; in Olanda si arriva a 10,000 anni per le imponenti arginature che proteggono dal mare (più alto del piano campagna , cioè dei terreni recuperati , o …sottratti, al mare con i famosi polders).
[2]
Molto interessante a questo proposito lo studio di Frans K., van Buuren M., van Rooij S.A.M. (2004). Flood-risk management strategies for uncertain future: living with Rhine river floods in the Netherlands. AMBIO, 33 (3): 141-147. In questo studio, gli autori effettuano un confronto multicriterio di alcune significative alternative di riassetto del territorio e dei fiumi in Olanda a scala nazionale per far fronte al crescente rischio idraulico. Si considerano: l’alternativa “standard” di innalzare ulteriormente gli argini già esistenti, quella di compartimentazione del territorio (cioè destinare alcune aree a essere inondate più frequentemente per salvaguardare altre dove si concentrerebbe il futuro sviluppo economico produttivo/insediativo) e quella di creazione di grandi “cinture verdi” attorno ai fiumi per ridare loro, in sostanza, grande spazio per la laminazione delle piene. I risultati a prima vista non sostengono la tesi da noi sostenuta, ma a un’analisi più attenta sì. Essi dicono, infatti, che la prima alternativa risulta la meno onerosa da un punto di vista strettamente economico (costi di realizzazione e mantenimento e valore attualizzato dei danni complessivi attesi, anche se questi ultimi risultano i più alti). Ma ciò –notano gli autori– non sorprende visto che, in questo caso, gli enormi investimenti già spesi in passato non vengono contabilizzati (lo sono solo i nuovi costi), mentre le altre due alternative sono penalizzate economicamente dal fatto di implicare un cambiamento di rotta drammatico: smantellamento di estesissime infrastrutture esistenti (argini, strade, ferrovie), delocalizzazione di insediamenti e associate compensazioni economiche agli attori sociali impattati. Insomma, se si fosse al “tempo zero” e si potesse decidere tra le diverse alternative (senza ancora aver davanti centinaia di chilometri di argini e infrastrutture già realizzate), senz’altro l’alternativa “classica” di difesa sarebbe da scartare. Si conclude poi che –quando si considerino gli altri vantaggi sociali e le grandi incertezze in gioco (che potrebbero in futuro convincerci ad abbandonare l’attuale strada di innalzamento progressivo delle arginature)– le alternative che puntano a “convivere con il rischio” (che presentano molta maggior flessibilità, minori danni attesi e grandi benefici ambientali associati) diventano le più attraenti.


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