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Geoingegneri e apprendisti stregoni

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Uno dei metodi proposti per la mitigazione del riscaldamento globale va sotto il nome di geoingegneria che consiste nella variazione artificiale dell’ambiente terrestre per bilanciare gli effetti introdotti involontariamente dall’uomo (gas di serra).

In una delle prime scene del film dei fratelli Coen, Prima ti sposo e poi ti rovino, Geoffrey Rush rientra a casa e trova fuori del giardino un furgoncino di Ollie’ll fix it (in questo caso le piscine) e notando un atteggiamento a dir poco sospetto della moglie le chiede più o meno, “… ma ce l’abbiamo una piscina”. La geoingegneria rientra alla perfezione in questa immagine svolgendo un ruolo completamente diverso da quello che reclamizza, su un problema di cui non si conoscono i termini e assumendo quel tono accademico che pretende di salvare il mondo.

La geoingegneria nasce come sottoprodotto di qualcosa che avevano (giustamente) inventato gli scrittori di fantascienza come terraforming. Alcuni la attribuiscono a un racconto del 1930, Last and First Men dello scrittore inglese Olaf Staplelton, seguito da Jack Williamson nel 1942 con Collision Orbit e da Robert Heinlein nel 1950 con Farmer in the sky. La scienza (diciamo così) arriva con un certo ritardo perché Freeman Dyson pubblica la sua proposta di una sfera artificiale nel 1959, mentre Carl Sagan nel 1961 propone di cambiare l’ambiente di Venere e quello di Marte nel 1963. La differenza fra il terraforming e la geoingegneria è da ricercarsi nelle dimensioni dell’intervento, nel senso che il primo tende a cambiare l’aspetto di un pianeta mentre il secondo cambia una particolare caratteristica del pianeta: può andare dalla deviazione del corso di un fiume ad un massiccio intervento sull’atmosfera.

Le prime proposte di geoingegneria partono grosso modo all’inizio della guerra fredda con progetti di sbarrare lo stretto di Gibilterra o di deviare il corso di fiumi siberiani. È questo un argomento che è particolarmente caro ai militari, che lo derivano grosso modo da quello più ristretto del controllo del tempo meteorologico.

Gli interventi di geoingegneria vengono normalmente classificati tra quelle procedure che ricadono nelle strategie di mitigazione e che rappresentano uno dei grandi miti dell’IPCC: mitigazione significa misure che tendono ad attenuare gli effetti dei gas di serra e qualcuno quindi fa anche rientrare in essi, ad esempio, tutte quelle tecniche che tendono a riassorbire l’anidride carbonica in eccesso in atmosfera. O anche i meccanismi di scrubbing che invece tendono ad impedire che l’anidride carbonica finisca in atmosfera. Noi preferiamo fare una distinzione fra geoingegneria e mitigazione perché di quest’ultima c’è molto da dire. E da confrontare con quelle che invece sono le strategie di adattamento. La separazione comunque non è al solito facile perché ad esempio un massiccio intervento di fertilizzazione degli oceani è sicuramente geoingegneria, mentre una limitazione della immissione di anidride carbonica alla fonte può essere visto come una procedura di mitigazione. Paradossalmente, la geoingegneria è diventata così popolare negli ultimi decenni perché con il passare del tempo ci si è sempre più resi conto che ci sono poche speranze di ridurre o comunque limitare la concentrazione di anidride carbonica e degli altri gas di serra in atmosfera. L’alternativa rispetto alla riduzione drastica della produzione di energia e della produzione industriale è quella di trovare dei mezzi meccanici o comunque artificiali per limitare i cambiamenti climatici sulla terra.

Alla fine, però, dopo molti decenni di discussioni le proposte di interventi di geoingegneria si possono contare sulle punte delle dita perché fanno riferimento fondamentalmente a due filoni: da una parte quello della riduzione della quantità di radiazione solare che colpisce la Terra, dall’altra quello di fertilizzare gli oceani in modo da facilitare l’assorbimento di anidride carbonica. Il primo tipo di intervento può presentare delle variazioni perché ci sono molti modi per modulare la quantità di radiazione solare che arriva sulla Terra. Gli schemi proposti vanno da una deviazione della radiazione mediante specchi posti a grande distanza dal Sole (nei punti di Lagrange a 1.5 milioni di km dalla terra) fino alla variazione artificiale della copertura nuvolosa. Questo a sua volta può essere fatto immettendo particolari aerosol (o particelle di polvere) che facilitano la formazione di nubi. È una specie di catena di Sant’Antonio, in cui ogni step presenta delle incertezze che potrebbero facilmente cambiare il segno dell’intervento: da riscaldamento a raffreddamento e viceversa. La ragione è piuttosto semplice, perché la maggior parte dei sostenitori di geoingegneria sono gli stessi che partecipano al dibattito sul global warming, e di conseguenza la situazione è simile a quella di un medico che non ha capito di quale malattie soffre il paziente e tende quindi a prescrivere le cure che gli sono più familiari. Questo per ribadire il discorso fatto all’inizio: perché è per lo meno cinico fare dei conti sul “retro della busta”, spacciarli per scienza con tre o quattro amici e pretendere di salvare il mondo. Infatti quello che maggiormente sorprende è che in questa vicenda manca il minimo di humor: quanto più lo scienziato sa che le sue cose sono campate in aria e inutili, tanto più dovrebbe essere spiritoso. Così è il settore della ricerca di intelligenza extraterrestre (SETI), qui invece tutti si sentono salvatori dell’umanità. Nell’agosto del 2006 la rivista Climatic Change ha pubblicato una sezione dedicata alla geoingegneria che vedeva i contributi  degli stessi autori che pubblicano articoli sugli effetti del global warming. Nel novembre del 2008 la Royal Society ha pubblicato dei lavori presentati ad un meeting organizzato dall’Università di Cambridge e dal MIT nel 2004 che ripresenta in forma leggermente riverniciata delle vecchie idee.

Un’ultima notazione sui costi, che non sono un dato trascurabile. Si tenga conto che nessuno dei progetti illustrati è “cantierabile” anche se, come si dice in linguaggio accademico, è basato su “tecnologie esistenti”. Si è stimato che il progetto dei punti Lagrange potrebbe essere realizzato in 25 anni con un costo di qualche migliaio di miliardi di dollari. Non è consolante pensare che un tale costo sarebbe solo lo 0.5% del prodotto interno globale dell’epoca.

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