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Troppe battaglie sulla vita dei bambini

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Sempre più i diritti dei minori sembrano essere usati come un'arma impropria. O, al contrario, se ne dimentica l'esistenza. Dalla maternità surrogata alla vergogna dei bambini in carcere, fino alla deportazione dei bambini ucraini a opera delle forze russe, Eva Benelli e Maurizio Bonati riflettono su come i diritti dei più giovani siano sacrificati nello scontro politico.

Crediti immagine: Margaret Weir/Unsplash

Stiracchiati, stropicciati, polarizzati, nelle ultime settimane i diritti che andrebbero riconosciuti ai bambini, a tutti i minori, vengono usati sempre più spesso come un’arma impropria da brandire nell’ambito di scontri tra visioni distanti del mondo. La difesa dei diritti o, al contrario, il facile dimenticare che questi diritti esistono, in nome di una supposta istanza superiore, segnano, ci sembra, eventi diversi e su scale differenti, ma accomunati dalla stessa mancanza di rispetto. Eppure sono quasi 300 anni che, quanto meno il pensiero occidentale, riconosce anche ai minori autonomia e dignità. «A partire da Kant, l'etica liberale prescrive di trattare i minori come fini, cioè come soggetti portatori di autonoma dignità e mai come mezzi», ricordava per esempio il politologo Maurizio Ferrera dalle pagine del Corriere della sera lo scorso 22 marzo. E se la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza è stata ratificata dall’Italia solo nel 1991, si tratta pur sempre di quasi 35 anni. Tempo sufficiente per aspettarsi che il dibattito che vede contrapposti, per esempio, i sostenitori di diverse idee di famiglia non facesse un uso strumentale di questi diritti.

Quel reato universale che non c’è

La battaglia infuria ormai da tempo: schierandosi contro la maternità surrogata il governo attuale ha probabilmente capito che è materia di scontro molto più soddisfacente e produttiva che quella sull’aborto. Le incertezze sono tante, le posizioni articolate, la possibilità di dividere l’opposizione e la facilità di raccogliere tanti dietro l’affermazione “no all’utero in affitto” sono ampie.

Sulla inverosimiglianza giuridica dell’intenzione di fare dell’utero in affitto un “reato universale”, ma anche sull’uso improprio della semantica su temi così complessi avevamo già scritto quando al governo non c’era ancora Giorgia Meloni. Oggi le posizioni e il dibattito si sono inaspriti, anche in conseguenza di una scelta, a parer nostro scellerata, che è stata quella di legare la battaglia contro la maternità surrogata alla bocciatura del Regolamento UE sulla filiazione. La proposta di certificato europeo aveva lo scopo di armonizzare le norme di diritto internazionale per quanto riguarda i figli, riconoscendo a tutti i medesimi diritti. Bocciarlo da parte della Commissione politiche dell’Unione europea del Senato, ha voluto dire una battuta d’arresto per tutti in Europa perché l’approvazione di quel Regolamento richiede l’unanimità. Farlo con la motivazione che avrebbe aperto la porta alla maternità surrogata (anzi all’utero in affitto, come dichiara di volerla sempre chiamare la ministra Roccella) è doppiamente censurabile, intanto perché non è vero (si legga la proposta di Regolamento), ma soprattutto perché, anche se fosse vero, è giusto riversare sui bambini le conseguenze di questa battaglia? O non si dovrebbe trovare il modo di tutelare sia quelli che devono nascere, sia quelli che già sono al mondo? Non sarebbe più rispettoso di tutti, se davvero si intende combattere il sussistere di un mercato dei bambini e delle mamme (odioso, e chi dice di no) normare in maniera rigorosa la sua versione solidale, così come si è fatto per la donazione degli organi e, guarda un po’, attraverso la stessa legge 40 anche la fecondazione eterologa? Sembra davvero un’ostinazione, che sarebbe ridicola se non fosse drammatica, voler sostenere a tutti i costi l’idea italiana di un reato che di fatto non è universale, semplicemente perché non tutta la comunità internazionale lo percepisce così.

La vergogna dei bambini in carcere

«Costringere bambini così piccoli a vivere i primi anni della loro vita in carcere è una follia, anche da un punto di vista scientifico», così Paolo Siani, medico e deputato nelle file del PD, autore della prima proposta di legge per permettere ai bambini figli di donne recluse, di uscire dal carcere e trascorrere l’infanzia insieme alle loro mamme in luoghi a questo deputati. «Sappiamo ormai con evidenze certe che i primi due anni di vita e i nove mesi di gravidanza sono decisivi per lo sviluppo cognitivo dei bambini», continua Siani. Sono i primi mille giorni e non c’è nulla di più tossico per il cervello di un piccolo di doverli trascorrere in carcere. Si rallentano i processi di sviluppo linguistico e motorio, la capacità di gestire le emozioni può essere compromessa, si sviluppano senso di inadeguatezza e inferiorità, la fiducia cala. Tutte queste evidenze scientifiche, insieme a un percorso già fatto nella precedente legislatura per arrivare a una proposta di legge condivisa per far uscire i bambini dal carcere, si sono consumati nel giro di poche ore in commissione Giustizia della Camera lo scorso 23 marzo, quando una serie di emendamenti ha stravolto a tal punto in senso peggiorativo la proposta di legge che pure era stata sottoscritta dalle stesse forze ora di governo, da costringere al ritiro. Anche in questa occasione, la stessa maggioranza che dichiara di avere a cuore le sorti dei bambini, per esempio quelli frutto della gestazione per altri, nell’intento di punire le “borseggiatrici” cioè persone adulte che compiono un reato, riversa sui più piccoli il costo di questa malintesa battaglia. Malintesa, perché la proposta di legge non impediva in alcun modo che le mamme colpevoli scontassero la propria pena, ma anche se fosse stato così, occorreva trovare il modo di evitare la ricaduta sui bambini, lasciandoli uscire dal carcere invece di violare l’articolo 3 di quella Convenzione per i diritti dell’infanzia e l’adolescenza di cui parlavamo.

I bambini prede di guerra

Ma non solo in Italia i diritti dei più giovani vengono sacrificati nello scontro politico. Su scala più ampia e drammatica nelle stesse settimane in cui si acuiva la discussione sulla gestazione per altri, diventava di dominio pubblico la deportazione dei bambini ucraini a opera delle forze russe. Lo scorso 17 marzo, infatti, la Corte penale internazionale ha attirato l’attenzione del mondo emettendo un ordine internazionale di arresto del presidente russo Vladimir Putin. La deportazione di bambini ucraini residenti in zone occupate dai russi e trasferiti in Russia, allontanandoli dai genitori o famigliari, per essere affidati a istituti (ri)educativi o a famiglie russe adottive si configura infatti come un crimine di guerra. Ed è su questa base che, in accordo con il proprio statuto, si è mossa la Corte penale internazionale. La Cpi è un istituto permanente con la finalità di porre fine all'impunità giudicando gli accusati di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l'umanità e crimini di aggressione. Governata da un trattato internazionale, lo Statuto di Roma, istituito nel 1998 ed entrato in vigore nel 2002 a seguito del raggiungimento delle 60 ratifiche minime previste, oggi vede la partecipazione di 123 stati, ma tra questi mancano, purtroppo: Stati Uniti, Russia, Cina e Ucraina. Il che ha portato diversi commentatori a considerare questo intervento un atto politico, piuttosto che giuridico, e non solo non applicabile ma anche controproducente rispetto alle possibilità di facilitare la fine del conflitto. Il giurista Gustavo Zagrebelsky, in un'intervista su il Fatto Quotidiano, lo ha definito “dissennato”.

La Cpi ha preso la sua decisione sulla base di numerosi documenti e confermando le conclusioni della commissione di inchiesta dell'ONU e del rapporto Russia’s Systematic Program for the Re-education and Adoption of Ukraine's Children, pubblicato il 14 febbraio dallo Yale Humanitarian Research Lab, che documenta le presunte gravi violazioni del diritto internazionale e i crimini di guerra da parte delle forze allineate con la Russia in Ucraina. Tutto come parte di un Osservatorio sui conflitti attivato dal Dipartimento di Stato americano per le operazioni di conflitto e stabilizzazione. Il rapporto ha identificato 43 strutture coinvolte nella detenzione di bambini ucraini. La maggior parte sono campi ricreativi in cui i bambini sono stati portati con il pretesto di trascorrere delle vacanze, mentre altri sono strutture utilizzate per ospitare bambini in affido o adozione in Russia. Durante la loro permanenza in queste strutture i bambini (dai 4 mesi ai 17 anni) sono stati esposti a programmi di rieducazione filo-russa e anche di addestramento militare. Non è possibile conoscere i numeri esatti perché entrambe le parti li forniscono con intenti tattici e sono difficili da validare da parte degli osservatori internazionali.

Secondo l'ultimo rapporto di Human Rights Watch We Must Provide a Family, Not Rebuild Orphanages, pubblicato il 13 marzo, sono comunque migliaia i bambini ucraini separati dalle loro famiglie e trasferiti con la forza in Russia dalla data dell'invasione da parte di Mosca nel febbraio 2022.

Le autorità ucraine hanno contato 16.228 bambini, mentre la Russia afferma di aver accolto un totale di 733.000 bambini dall'Ucraina, adducendo come motivo la “solidarietà umanitaria”. Sono questi i numeri indicati nella proposta di risoluzione della UE che condanna la deportazione forzata di bambini ucraini da parte della Russia, approvata all’unanimità, giovedì 9 marzo, dalla Commissione per gli affari europei del Senato francese.

Già a maggio dello scorso anno, la situazione dei bambini ucraini era stata all’ordine del giorno di un briefing del Parlamento europeo con una dettagliata e ricca sintesi che riportava non solo quanto documentato circa le condizioni di vita dei bambini ucraini e le rispettive famiglie, ma anche i rischi per loro di essere vittime delle varie forme di traffici di esseri umani. A questo proposito, ci sono anche testimonianze di scambi di prigionieri in cui il governo ucraino ha restituito a Mosca dei prigionieri di guerra in cambio della restituzione di bambini sottratti ai genitori. Sin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la Russia ha rotto gli accordi internazionali che aveva sottoscritto, in particolare: la Quarta Convenzione di Ginevra che protegge da atti di violenza e dall’arbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato, così come la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

In realtà la storia sembra ripetersi (sempre come tragedia) perché già dopo l’occupazione russa della Crimea e di alcuni territori del Dombass nel 2014, i russi avviarono un programma di “educazione patriottica” per bambini e adolescenti dei territori occupati che prevedeva anche addestramento militare e la frequentazione di campi estivi in Russia. Nei primi anni di occupazione oltre 5.000 ragazzi ucraini sono passati da questi campi patriottici militarizzati e molti di questi sono divenuti poi militari russi. Sono documentati centinaia di casi di bambini dei territori occupati inviati in Russia, alcuni per essere adottati, nacque anche uno specifico programma: “i treni della speranza”. Ancora una volta, purtroppo, la credibilità dei numeri è debole. Alcuni bambini illegalmente trasferiti in Russia sono riusciti a fare ritorno alle loro case dopo che le famiglie originarie erano riuscite a portare all’attenzione pubblica internazionale questo crimine. Crimine anche per la legislazione russa che allora vietava l'adozione di bambini stranieri. Ma a maggio 2022 Putin ha firmato un decreto per rendere più facile per la Russia adottare e dare la cittadinanza ai bambini ucraini senza cure parentali, rendendo inoltre più difficile per l'Ucraina e per i parenti sopravvissuti riaverli.

La propaganda russa sui programmi di accoglienza e adozione dei piccoli ucraini trae spunto comunque dalle condizioni drammatiche in cui si trovavano e si trovano tanti bambini in Ucraina: prima dell'invasione dello scorso anno più di 105.000 minori erano ricoverati in istituti, il numero più alto in Europa dopo la Russia. Più di nove bambini su dieci erano ricoverati perché portatori di disabilità, o perché i genitori, seppur presenti, non erano in grado di provvedere a loro. Quando è scoppiata la guerra, la maggior parte di questi bambini è stata restituita alle proprie famiglie e non si è in grado di valutare a quale destino siano andati incontro.

Quello che sappiamo per certo è che anche in questo conflitto i bambini vengono considerati prede belliche al mercato (dis)umano della guerra, trattati ancora una volta come mezzi e non come quei soggetti portatori di autonoma dignità e di diritti che dovrebbero essere garantiti.

 

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