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Il ruolo dei Science Media Centre nel giornalismo scientifico

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Immagine di Andy Hawkes, Science Media Centre.

Durante la pandemia, i risultati degli studi scientifici, spesso finanziati dal governo, sono stati trascinati in un sistema di comunicazione progettato per pubblicizzare le idee del governo. Più volte gli esperti di comunicazione del governo, frustrati dai messaggi contrastanti degli scienziati di alto livello che parlavano apertamente delle incertezze e delle lacune nelle nostre conoscenze su diverse questioni, dall’uso delle mascherine al contributo delle scuole nella diffusione del contagio, mi chiedevano come arginare questo fenomeno. Stavano chiedendo alla persona sbagliata. Capivo la loro frustrazione, ma ho risposto che sorvolare sull'incertezza e sulle opinioni contrastanti avrebbe rischiato di minare la fiducia del pubblico nella scienza in un momento critico. Non esisteva “la scienza” su Covid.

A scrivere è Fiona Fox, direttrice dello Science Media Centre britannico, sull’ultimo numero di The Observer, l’edizione domenicale del quotidiano The Guardian.

Lo Science Media Centre è un ufficio stampa scientifico indipendente finanziato da un insieme di donatori che comprendono università e centri di ricerca, organizzazioni non governative, gruppi di pazienti, gruppi editoriali e ospitato nella sede della Wellcome Collection a Londra. Lo statuto del centro prevede che nessun donatore contribuisca con più del 5% del budget annuale di circa 850 000 euro, fatta eccezione per il Wellcome Trust, un ente di beneficenza, e lo UK Research and Innovation, l’agenzia pubblica della ricerca. Il Centro svolge un ruolo di mediazione tra scienziati e istituzioni scientifiche, università e centri di ricerca da una parte e il mondo dei media dall’altra. È stato istituito venti anni fa su proposta della commissione scienza e tecnologia della House of Lords in seguito a una serie di esperienze negative della stampa inglese su temi come l’uso degli OGM in agricoltura, il falso legame tra vaccini e autismo e l’encefalopatia spongiforme bovina (divenuta nota come “morbo della mucca pazza”).

Il principale obiettivo dei fondatori e della stessa Fox, che venne nominata direttrice allora, era quello di incoraggiare gli scienziati, spaventati dall’impatto delle loro dichiarazioni sull’opinione pubblica, a far sentire la propria voce. Il motto del centro è “The media will do science better when scientists do the media better”.

«Questo vuol dire che l’unico modo di migliorare la copertura giornalistica della scienza è far sì che gli scienziati si gettino nella mischia e interagiscano con i media. Proprio questo è il motivo per cui il nostro Centro è stato fondato», ha spiegato Hannah Taylor-Lewis, addetta stampa dello Science Media Centre, intervenendo durante un incontro sul tema organizzato dall’Ambasciata britannica a Roma lo scorso giovedì 31 marzo.

Come la stessa Fox racconta in una intervista a Nature nel 2013, le redazioni dei giornali inglesi inizialmente non accolsero bene il centro, ma i corrispondenti scientifici e medici delle diverse testate giornalistiche sì e cominciarono a partecipare alle conferenze stampa, i cosiddetti media briefing, organizzate dallo Science Media Centre, durante i quali un gruppo di esperti è a disposizione dei giornalisti per rispondere alle loro domande. Il patrimonio principale del Centro è tutt’oggi la sua agenda di contatti.

Del database dello Science Media Centre fanno parte oltre 2200 scienziati, 1300 responsabili di uffici stampa di università, centri di ricerca, società scientifiche, riviste scientifiche e ospedali e 580 giornalisti (soprattutto corrispondenti di scienza, ambiente e salute).

«Per entrare a far parte del nostro database, gli scienziati devono essere almeno post-doc, essere attivi nella loro area di ricerca e lavorare per un'organizzazione scientificamente credibile» ci spiega Tom Sheldon, manager del Centro.

Quando gli chiediamo come lavorano per garantire la rappresentatività del loro gruppo di contatti, dal punto di vista demografico e culturale, ci risponde che «la diversità è importante, ma non quanto il fatto che che il pubblico abbia accesso al parere degli esperti migliori in modo da non essere disinformato.» Questo deve avvenire in tempo reale «e le citazioni che riceviamo dipendono da chi è disponibile in quel momento - è impossibile garantire un equilibrio di genere ogni volta. Per questo il nostro database tende a riflettere le disparità che già esistono nella ricerca. In particolare, in campi come l'intelligenza artificiale dove non ci sono molte donne in posizioni di rilievo, è difficile da evitare.»

Negli ultimi anni però il centro ha portato avanti un programma di media training per le donne proprio per incoraggiarle e sostenerle: «in questo modo abbiamo reclutato molte esperte e questo sta riequilibrando la situazione».

Lo Science Media Centre redige due tipi di documenti, le rapid reaction e i round-up

Le rapid reaction raccolgono commenti di scienziati esperti sul tema riguardo notizie a contenuto scientifico che guadagnano l’attenzione dei media e vengono inviate quotidianamente ai giornalisti che possono usarle nei loro pezzi. «Il vantaggio di avere un ufficio stampa scientifico indipendente è che gli scienziati riescono a gestire le richieste dei media, che altrimenti si moltiplicherebbero e in alcuni momenti, come durante la pandemia, rimarrebbero ignorate per mancanza di tempo», ha commentato Taylor-Lewis. «Inoltre, il rapporto con gli uffici stampa di università e centri di ricerca costruito negli anni ci permette di avere una mappatura delle competenze e dunque di sapere qual è la persona giusta a cui porre le domande.» 

Lo Science Media Centre prepara anche i cosiddetti round-up che raccolgono i pareri degli esperti su nuovi risultati di ricerca contestualizzandoli. A differenza delle rapid reaction, per i round-up gli scienziati hanno alcuni giorni per formulare i loro pareri beneficiando del meccanismo dell’embargo che anticipa le uscite di rapporti e articoli scientifici proprio per permettere un giornalismo di maggiore qualità su temi specialistici. Un esempio è il round-up pubblicato ieri pomeriggio sull’ultimo rapporto dell’IPCC.

I media briefing organizzati dal centro possono avere anche una natura proattiva e non solo reattiva, permettendo così agli scienziati di dettare l’agenda dei media e non viceversa.

Lo Science Media Centre ha incrementato molto la sua attività durante la pandemia. Tra gennaio 2020 e febbraio 2022 ha organizzato oltre trecento media briefing, la maggior parte dei quali su Covid-19. Si tratta di una media di tre incontri a settimana, mentre nei tre anni precedenti alla pandemia la cadenza di questi incontri era in media settimanale.

Il Centro aiuta anche i giornalisti a trovare gli esperti giusti con cui parlare e li aiuta a contattarli. «Dall’inizio della pandemia a oggi, abbiamo gestito quasi cinquemila richieste da parte dei giornalisti», ha riportato Taylor-Lewis.

Nei suoi venti anni di attività, lo Science Media Centre è stato oggetto di critiche in particolare sul rischio che alimentasse il fenomeno del churnalism, ovvero la tendenza a trasformare il giornalismo in un’operazione di rimaneggiamento dei comunicati scritti dagli uffici stampa e dalle agenzie di pubbliche relazioni, anche in ambito scientifico. Nel Regno Unito, in cui gli interlocutori principali dello Science Media Centre sono giornalisti specializzati, questo rischio è marginale, almeno sulle grandi testate. Ma cosa accadrebbe se uno Science Media Centre venisse istituito in un paese come l’Italia, dove nelle redazioni delle grandi testate raramente ci sono giornalisti scientifici?

«Il problema del churnalism non riguarda solo il giornalismo scientifico, ma è chiaro che può avere un impatto maggior su settori del sistema dell’informazione deboli come quello che si occupa di scienza e tecnologia, soprattutto nel nostro paese», commenta Nico Pitrelli, direttore del Master in Comunicazione della Scienza alla SISSA di Trieste e autore del libro “Il giornalismo scientifico” pubblicato lo scorso anno da Carocci.

«Credo però che sia necessario distinguere tra media specializzati sulla scienza, media locali e regionali e testate generaliste nazionali legate a grandi gruppi editoriali», continua Pitrelli e aggiunge «per le redazioni piccole e in difficoltà, avere accesso ai materiali prodotti da uno Science Media Centre può essere forse l’unica possibilità da qui ai prossimi anni perché informazioni sulla scienza accurate e attendibili siano messe a disposizione delle comunità locali. La situazione è diversa per le testate nazionali, in cui anche se non ci sono praticamente più redattori specializzati esiste comunque una rete di giornalisti scientifici freelance che collabora con esse e che potrebbe beneficiare di uno Science Media Centre. Questo è ancora più vero per i media specializzati, per i quali un centro simile potrebbe rappresentare un forte valore aggiunto per pubblicare storie di scienza approfondite e originali.»

In effetti, l’esperienza degli Science Media Centre istituti in paesi in cui il giornalismo scientifico ha una tradizione meno solida di quello anglosassone è stata positiva. «Il modello funziona bene anche dove i giornalisti scientifici sono pochi, ma gioca un ruolo diverso» commenta Sheldon. «Spesso, i giornalisti generalisti non hanno accesso diretto agli scienziati, e hanno meno esperienza nel distinguere i veri esperti dai ciarlatani. Le dichiarazioni raccolte dagli Science Media Centre possono aiutarli a capire quali sono le posizioni sostenute dalle prove scientifiche o a evitare di cadere nel tranello del false balance, così dannoso per l'opinione pubblica.» 

Fondamentale è dunque che questi centri agiscano in modo equo e responsabile. «Su alcuni argomenti gli scienziati saranno fortemente d'accordo, su altri ci sono genuine differenze - finché sono tutti scienziati autorevoli pubblicheremo tutti i loro commenti», spiega Sheldon, «per permettere ai giornalisti di capire dove c'è consenso e dove c'è disaccordo» conclude.

L’altro gruppo di interlocutori dello Science Media Centre britannico sono gli uffici stampa di università e centri di ricerca. In Italia le risorse investite in questo settore sono poche e spesso i giornalisti non ricorrono all’intermediazioni di questi uffici per ottenere interviste o anche per individuare gli esperti “giusti” da contattare. Uno Science Media Centre in un contesto simile funzionerebbe ugualmente?

«Credo che nei prossimi anni anche in Italia il ruolo degli uffici stampa delle istituzioni scientifiche sarà più significativo sia in termini qualitativi che quantitativi», dice Pitrelli. «È probabile, che ci piaccia o no, che molta dell’informazione sulla scienza anche per il pubblico generale sarà prodotta dagli uffici di comunicazione piuttosto che dai giornalisti scientifici, in una logica di disintermediazione e di sempre maggiore verosimiglianza tra un prodotto giornalistico e un prodotto di un ufficio di comunicazione». E conclude «che questo sia un bene o un male per il sistema dell’informazione è una questione aperta, ma in quest’ottica una maggiore sinergia con un eventuale Science Media Centre sarebbe a mio parere positiva».

Una buona sintesi di come si ottenga una comunicazione della scienza efficace, specialmente in tempi di crisi, l’ha fatta Sheldon in chiusura dell’incontro del 31 marzo a Roma: «credo che sia fondamentale vedere la comunicazione della scienza come una relazione. C’è un quadrilatero che mette in relazione giornalisti, politici, pubblico e scienziati. Durante la pandemia, la comunicazione all’interno di questo quadrilatero ha funzionato quando le affermazioni di ministri e politici sono state vagliate in tempo reale dagli scienziati sui giornali».


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