Fino a un milione di volte al giorno, fotoni provenienti dalla luce del sole, mutageni nel cibo, acqua e aria; e altri attacchi danneggiano le molecole di DNA. Per evitare gli effetti avversi del permanere di un danno nel DNA le cellule hanno sviluppato nel corso dell'evoluzione un intricato sistema di risposte atte a salvaguardare l'integrità del genoma. I meccanismi di riparazione propriamente detti ripristinano la corretta sequenza del DNA senza introdurre errori. Altri sistemi, definiti meccanismi di tolleranza, non rimuovono il danno ma assicurano la sopravvivenza cellulare anche se talvolta introducono nuovi errori. I principali meccanismi di riparazione sono: la riparazione per excisione di nucleotidi, la riparazione per excisione di basi, la riparazione per ricombinazione, che viene utilizzata quando entrambi i filamenti di DNA sono danneggiati o quando il DNA è rotto, e la riparazione degli appaiamenti errati delle basi del DNA. Alcuni danni, invece, possono essere rimossi direttamente per reversione della modificazione chimica che li ha generati.
Il
compito di riparare il nostro DNA prima dell’insorgenza del cancro o di altre
malattie è svolto da una vasta famiglia di proteine che come delle
vere e proprie sentinelle analizzano continuamente i nostri genomi. Ma come
queste proteine di riparazione riescano a trovare velocemente e in maniera
corretta il danno tra 3 miliardi di coppie di nucleotidi rimane ancora un
mistero. Ora, però, dopo circa 30 anni di esperimenti scrupolosi e altrettante
polemiche, Jacqueline Barton, ricercatrice
del California Institute of Technology (Caltech) di Pasadena, che nel corso
della sua carriera ha collezionato premi e critiche in egual misura, ha messo a
punto una possibile soluzione a questo enigma.
La chiave è che il DNA conduce elettricità. Secondo
la Barton, infatti, le proteine di riparazione del DNA usano quella proprietà
per “comunicare”, parlando tra loro come su una linea telefonica. Il DNA accelera
drasticamente la ricerca del danno da parte delle proteine di riparazione. "E'
un'idea folle" - spiega Jacqueline Barton - "ma questa comunicazione
è il primo passo per riparazione del
nostro genoma".
L'idea
che il DNA possa condurre energia elettrica effettivamente risale a poco dopo la
pubblicazione di quella “paginetta” di Nature
dove Watson e Crick svelarono al mondo
l’esatta struttura della molecola della vita.
I gruppi di zucchero e fosfato
che compongono la "spina dorsale" di DNA in realtà somigliano a un esoscheletro,
a spirale intorno a un nucleo di basi nucleotidiche. Ogni base contiene un anello
di atomi, conosciuto come un gruppo aromatico, con una forma di ciambella con nuvole
di elettroni sopra e sotto ogni anello. I gruppi aromatici e le loro nuvole di
elettroni si sovrappongono, creando quello che sembra un percorso continuo di
elettroni.
Ma negli anni ‘50 e ‘60, quando i chimici cercarono segni di
“elettricità” nel DNA non trovarono nulla.
Barton sapeva poco di quei tentativi quando nel
1983 si trasferì alla Columbia University come giovane ricercatore. A quel tempo, stava
studiando il trasferimento di cariche tra composti metallici in grado di legare
al DNA in siti specifici.
Nel 1993 il primo passo: con la sua équipe ha
dimostrato che una reazione di trasferimento elettronico tra donatore e
accettore può essere mediata da un filamento di DNA. Legando un foto-ossidante
a uno specifico nucleotide del DNA è possibile generare una carica positiva in
una posizione predeterminata della doppia elica e monitorare il movimento di
questa carica lungo il filamento. Il sito più stabile per la carica positiva
nel DNA è la base guanina e, in particolare, le sequenze di DNA contenenti due
o più guanine consecutive.
Misurando la velocità di trasferimento
elettronico per varie sequenze di DNA ha mostrato che il processo elementare
per la diffusione della carica nel DNA è lo scambio di un elettrone tra due
guanine non adiacenti. “Abbiamo
scoperto che il DNA può essere un buon conduttore elettrico. Ma solo se tutte
le basi sono impilate correttamente una sopra l'altra”, spiega Barton.
Gli sperimenti però della ricercatrice
statunitense sono stati ritenuti, per molti anni, poco attendibili. Molto
ricercatori sostenevano, infatti, che i risultati ottenuti erano frutto di
qualche artefatto metodologico. “E' stato molto doloroso,” afferma la Barton, “ma
ci ha costretto a fare esperimenti migliori. In uno studio del 2008, il suo
laboratorio ha collaborato con la Colin Nuckolls ricercatore presso la Columbia
University. Il DNA è stato collegato a due nanotubi di carbonio, che a loro
volta erano collegati a due elettrodi. Essi hanno scoperto che quando tutte le
basi del DNA sono associate normalmente passava della corrente. Quando vi erano
però dei disallineamenti dovuti a un appaiamento errato delle basi, la
conducibilità del DNA calava sensibilmente.
Con questi ulteriori risultati la Barton è
riuscita a fare “breccia” fra i suoi primi detrattori. Ma mancava ancora qualcosa.
Come vengono condizionate le proteine di riparazione da questo cambiamento di
corrente? Un ulteriore tassello a questo puzzle è arrivato dallo studio della
letteratura. Nel 1992 John Tainer, un biologo strutturale presso lo Scripps
Research Institute di San Diego, ha pubblicato un lavoro relativo alla struttura
cristallina di una proteina di riparazione del DNA nota come endonucleasi III. EndoIII è un membro di una grande famiglia di
proteine di riparazione che svolgono un processo noto come riparazione per
escissione di base.
La proteina al suo interno ospita un centro di
quattro atomi ferro e quattro atomi di zolfo.
In molti enzimi, i centri ferro-zolfo svolgono
un ruolo di catalizzatore fondamentale perché sono abili a catturare gli
elettroni. Sono
importanti, infatti, per il trasferimento di elettroni nelle cellule; per i
processi di attivazione catalitica; come biosensori del ferro, dell’ossigeno,
dei superossidi e di altre specie chimiche.
Ritornando alla
endonucleasi, i dubbi di Tainer erano dovuti proprio alla localizzatore del
cluster ferro-zolfo, non sembrava essere nel posto giusto per aiutare la
proteina a velocizzare una reazione. Ma, poi, perché una proteina che doveva
legare il DNA ha un gruppo ferro-zolfo al suo interno?
Nella speranza di scoprire se le proprietà
elettroniche del gruppo metallo stavano giocando qualche ruolo, Tainer ha
isolato campioni di EndoIII e li ha esposti ad altri composti, misurando il
potere ossidante/riducente della proteina. Tanti esperimenti ma pochissimi
risultati. Per Tainer era la fine della storia. Fino a quando la Barton si chiese se il potenziale
redox della proteina cambiava quando si agganciava al DNA. Per scoprirlo ha
“collegato” il DNA a degli elettrodi in soluzione e poi ha aggiunto EndoIII. Quando la
proteina si legava al DNA, il potenziale redox del cluster cambiava.
Come si
spiegano questi risultati? Secondo la Barton, le proteine di riparazione
potrebbero utilizzare il DNA per parlare tra di loro. Lo scenario è questo: le
proteine di riparazione trovano il danno sul DNA perché non ricevono
l’elettrone (le basi non sono ben appaiate) quindi si fermano e richiamano
altre proteine che attivano il processo di riparazione. “E' un po' come due
telefoni. Se possono parlare tra di loro significa che la linea funziona, ecco
se queste proteine rilevano la corrente proveniente dalla doppia elica vuol
dire che non sussiste nessun danno”.
L’intuizione della Barton, in questi anni, sta trovando conferma da nuovi studi. Proteine di riparazione con una mutazione che li rendeno meno abili nel trasferire elettroni sono meno efficienti nel trovare il danno del DNA. Molti gruppi di ricerca si stanno “convertendo” alla teoria della Barton. E se il telefono senza fili fosse la soluzione a uno dei misteri della biologia e dell’evoluzione?