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La pace sia con te chirurgo di guerra!

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Pubblichiamo un articolo scritto da Gino Strada per la rivista Tempo Medico (numero 339 del 1991). Strada descrive le sue prime esperienze sul campo come chirurgo di guerra. Una figura ancora sconosciuta in Italia ma che diventerà negli anni successivi il perno dell'attività di Emergency, l'associazione creata nel 1994 da Strada insieme alla moglie Teresa Sarti, per garantire il diritto alla cura alle vittime di guerra. Leggi anche l'intervista a Roberto Satolli, medico e giornalista, amico di Gino dai banchi del liceo.

Luigi Strada, l'autore di questo articolo (qui ritratto con il suo più piccolo paziente, un bambino afghano ferito durante gli scontri tra governativi e guerriglieri), è un chirurgo italiano direttamente dipendente dall'ICRC. Al momento sono solo due i chirurghi della Croce rossa internazionale che svolgono la loro attività negli ospedali da campo dell'organizzazione. Strada è appena rientrato da una missione in Pakistan ed è in attesa di partire per il Golfo, dove si recherà appena saranno definite le modalità d'intervento della Croce rossa.

«Quando torno a casa» mi disse l'anestesista svedese che lavorava con me in Etiopia «sarò molto impegnata a curare maiali feriti da arma da fuoco». E replicò al mio sguardo stupito: «Ma perché non fate altrettanto in Italia? I medici non vengono addestrati in chirurgia di guerra?».

Dovetti ammettere che prima di incontrare I'ICRC (International Committee of the Red Cross) le mie nozioni al riguardo erano pressoché inesistenti. La terapia intensiva, questo lo sapevo, aveva fatto grandi progressi grazie all'esperienza dei medici impegnati nel secondo conflitto mondiale, o nelle guerre di Corea o del Vietnam. Ma le mie conoscenze non andavano oltre.

Eppure la chirurgia di guerra dovrebbe essere considerata una disciplina autonoma, in quanto possiede specificità e regole proprie che la differenziano dalla traumatologia d'urgenza praticata in tempo di pace.

Che cosa la rende così diversa? Anzitutto il contesto. Anche se l'attuale guerra nel Golfo potrebbe scrivere un nuovo capitolo in materia, i conflitti contemporanei interni o internazionali coinvolgono per lo più Paesi poveri. Etiopia, Cambogia, Afghanistan, Somalia, sono esempi eloquenti: Paesi con un reddito annuo pro capite di cento o duecento dollari, con una mortalità entro i 5 anni (USMR, o «under 5 mortality rate», il parametro più usato dall'Unicef per stabilire il grado di salute di una popolazione) attorno al 30 per cento.

In tali circostanze, non è difficile immaginare quanto precarie siano le strutture sanitarie già in tempo di pace: pochi ospedali e mal equipaggiati, personale insufficiente e non addestrato. In caso di conflitto, tale sistema si rivela del tutto incapace di soddisfare anche le necessità più urgenti della popolazione. Un esempio? A Dessiè, nel nord dell'Etiopia, dove si fronteggiano le forze governative e quelle del Fronte di liberazione del Tigrai, trovammo l'ospedale zeppo di centinaia di feriti di guerra ammassati in tende insieme con malati affetti da malaria, epatite e tubercolosi.

Eravamo l'unico team chirurgico nel raggio di 400 chilometri, e mancava tutto, acqua ed elettricità, ossigeno e medicinali. In assenza di chirurghi, i medici locali si limitavano a medicare le ferite, e per i pazienti più gravi non c'ea speranza.

Un caso limite, per molti aspetti. Ma anche in zone dove la presenza chirurgica dell'ICRC è ormai consolidata, dove l'ospedale da campo è ben attrezzato e il personale addestrato, le condizioni ambientali hanno un'influenza rilevante sull'attività chirurgica di guerra.

Un buon esempio è l'Afghanistan, dove continua il conflitto tra governativi e guerriglieri, anche se non se ne parla più sui giornali. Alla fine del 1990 è stata bombardata Kandahar, la seconda città del paese. I primi quaranta feriti gravi, quasi tutti donne e bambini, sono stati evacuati e avviati all'Ospedale dell'ICRC di Quetta, in Pakistan, appena al di là del confine: un viaggio difficile, passi di montagna e strade ghiacciate, fiumi in piena, ambulanze che si piantavano nel fango per molte ore. A Quetta eravamo tre chirurghi ad accogliere i feriti e abbiamo eseguito, tra l'altro, 16 laparotomie in 24 ore, e quasi tutti i pazienti avevano peritoniti vecchie di oltre un giorno.

Prima di tutto selezionare i malati

A questo punto vale la pena spiegare come si lavora in un ospedale da campo. Il team di solito è costituito da un chirurgo, un anestesista e una infermiera di sala operatoria. Due gruppi sono di solito presenti contemporaneamente, così da consentire guardie notturne a giorni alterni. Non esiste separazione in discipline chirurgiche, non ci sono specializzazioni, e il chirurgo di guerra deve essere pronto a eseguire ogni tipo di intervento, addominale e toracico, vascolare e ortopedico, neurochirurgico o plastico-ricostruttivo.

Le strutture disponibili non sono certo quelle di uso comune negli ospedali del mondo industrializzato. La strumentazione per le diagnosi è limitata alle radiografie standard, il laboratorio fornisce gruppo sanguigno, emoglobina ed ematocrito, e la terapia intensiva non prevede l'uso di ventilatori automatici o di monitor. Per i farmaci e lo strumentario chirurgico esiste una «standard list» di dotazione: vi è incluso solo ciò che è davvero essenziale, i fili di sutura sono solo il Vicryl e il Prolene (e non esistono, ovviamente, suturatrici meccaniche).

Pur con queste limitazioni, è possibile, ed è stata per me una grande scoperta, garantire un trattamento completo alla quasi totalità dei pazienti. Le carenze tecnologiche sono efficacemente compensate da una costante e precisa osservazione clinica.

Altro elemento peculiare della chirurgia di guerra è il rapporto tra la capacità della struttura e il numero dei pazienti. Mentre in chirurgia d'urgenza nella pratica civile tale rapporto è di solito abbastanza costante nel tempo, gli ospedali da campo risentono dell'andamento delle attività belliche: in seguito a violenti scontri o bombardamenti, un gran numero di malati affluisce in poche ore o pochi giorni, con effetti analoghi a quelli che si verificherebbero in un normale ospedale in caso di gravi calamità naturali.

Trenta o quaranta ricoveri al giorno per alcuni giorni consecutivi mettono duramente a prova non solo la resistenza del personale medico ma la capacità della struttura stessa. Il primo compito del team chirurgico è perciò eseguire il «triage», o selezione dei malati.

I pazienti vengono divisi in tre gruppi: quelli che richiedono un intervento immediato, quelli in cui l'urgenza può essere differita, e quelli che non richiedono al momento terapia chirurgica, o perché le loro lesioni non sono gravi o perché sono in condizioni troppo compromesse e le speranze di sopravvivenza sono comunque scarse. Come si vede, i criteri di intervento sono diversi da quelli della normale chirurgia in tempo di pace, dove il principio guida è curare per primi i pazienti più gravi. In chirurgia di guerra, vanno invece trattati immediatamente quei casi che possono ricevere il massimo beneficio, in termini di sopravvivenza o di riabilitazione, da un intervento d'urgenza; la struttura chirurgica è sovrastata dal gran numero di pazienti, le risorse limitate, non c'è tempo, e sarebbe un grave errore tener occupato per ore l'équipe in un intervento al quale comunque il paziente difficilmente sopravviverebbe.

Ma quel che più differenzia la chirurgia di guerra dalla traumatologia «civile» è il tipo di lesioni. Le ferite di guerra sono di solito causate da proiettili, da frammenti metallici provenienti dagli ordigni esplosivi come bombe o razzi, o dallo scoppio di mine. La fisiopatologia di tali lesioni è molto varia e tuttora oggetto di controversie. Quelle più studiate, per la maggior facilità di riprodurle sperimentalmente, sono le ferite da arma da fuoco, ma anche in questo caso i pareri sono discordi.

Grande importanza viene di solito data alla velocità del proiettile: quelli ad alta velocità, uguale o superiore a 1 000 metri al secondo, sono considerati altamente distruttivi anche per la loro «instabilità». Penetrati nel corpo, non mantengono infatti una traiettoria lineare ma tendono a ruotare, descrivendo tragitti simili a capriole che traumatizzano gravemente i tessuti.

Nella pratica chirurgica è di comune osservazione il fatto che a piccoli fori di ingresso, per esempio nelle masse muscolari di un arto, corrisponda in profondità un «buco» di diametro molto maggiore: è il fenomeno chiamato cavitazione.

Non è però solo la velocità a definire l'entità del danno. La forma del proiettile, o la quantità di energia trasmessa ai tessuti, come pure il potere di frammentazione, sono tutti fattori rilevanti: gli studi sperimentali hanno dimostrato che alcuni tipi di proiettili perdono fino al 40 per cento del loro peso nel percorso all'interno dell'organismo, e questo proprio perché si frammentano.

L'impatto con strutture ossee inoltre determina la formazione di proiettili secondari: frammenti di osso che vengono letteralmente sparati a distanza.

L'effetto distruttivo dei frammenti metallici (shrapnel), di solito di forma molto irregolare, è spesso ancora maggiore di quello dei proiettili, specie nel caso di esplosioni ravvicinate. Un dato comune ai vari tipi di lesione è l'alto potenziale settico. Shrapnel e proiettili penetranti infatti trasferiscono in profondità frammenti di pelle e altro materiale contaminato. Ma sono le lesioni da mina ad avere gli effetti più devastanti.

Il confine tra Cambogia e Thailandia ne è costellato, e in Afghanistan (otto milioni di abitanti, erano il doppio all'inizio del conflitto) esistono tuttora, secondo gli esperti, almeno 15 milioni di mine inesplose. Quelle di fabbricazione italiana, mi ha spiegato uno sminatore impegnato nel conflitto afghano, sono tra le più micidiali e difficili da disinnescare.

Le mine antiuomo sono costruite non per uccidere ma per mutilare e creare invalidi. Quando vengono calpestate producono di solito amputazioni traumatiche degli arti inferiori. Terra e sassi, brandelli di vestiti e frammenti di plastica o metallo esplodono nei tessuti e a distanza: ho operato di recente un paziente con avulsione traumatica della gamba destra, in cui un frammento di tibia destra aveva sezionato l'arteria femorale sinistra all'inguine.

Effetti analoghi hanno le mine giocattolo a forma di farfalle, penne o uccellini, non sono nascoste nel terreno ma giacciono in superficie e vengono raccolte per lo più dai bambini. Ne ho visti molti, con amputazioni mono o bilaterali degli arti superiori, e spesso ciechi per la vampata generata dall'esplosione.

Le ferite vanno lasciate aperte

Che si tratti di frammenti di bomba, di mina o di proiettile, il dato comune a tutti i tipi di ferite da guerra è che a prescindere dalla gravità derivante dal tipo di organo colpito, c'è sempre un alto rischio di complicanze settiche. Per questo il primo intervento tipico della chirurgia di guerra, spesso di notevole difficoltà, è il «debridement, o escissione di ferita, cioè la rimozione di tutto il materiale estraneo (terra, frammenti metallici, eccetera) e dei tessuti necrotici o scarsamente vitali, inclusi i frammenti ossei. Ciò comporta spesso dissezioni molto estese. Non si tratta in questi casi di asportare in blocco i tessuti morti con largo margine, come avviene in chirurgia oncologica, bensì di rimuovere quei tessuti destinati alla necrosi che formeranno un terreno di coltura per la proliferazione batterica. Muscoli di colore violaceo, o che non si contraggono quando sono pinzati, frammenti ossei staccati dal periostio, vanno rimossi.

A volte, tuttavia, la situazione non è così evidente e la decisione chirurgica è difficile, specie quando la «pulizia chirurgica» sembra contrastare con la riabilitazione funzionale delle strutture colpite.

Un debridement incompleto è l'errore chirurgico più comune e la causa più frequente di insuccessi, che si trasformano in disastri per il paziente: una ferita a un arto, se non escissa correttamente, condurrà spesso alla amputazione. Le ferite, così come i monconi di amputazione, vanno lasciate aperte. Con poche eccezioni, è questa una regola ferrea in chirurgia di guerra. Ricordo un paziente con amputazione traumatica di un piede, trattato in un ospedale militare afghano, con chiusura primaria del moncone. Sei giorni dopo venne trasferito all'Ospedale di Quetta, la gamba era infetta e c'erano segni della gangrena gassosa che si estendeva alla coscia: dovetti eseguire una disarticolazione d'anca; ma il paziente morì il giorno dopo.

Le ferite, medicate con un bendaggio non compressivo che permetta la fuoruscita delle secrezioni, saranno richiuse dopo 4 o 5 giorni («delayed primary closure» secondo la terminologia dei chirurghi anglosassoni, o chiusura primaria differita) con l'impiego, qualora la perdita di sostanza impedisca una sutura diretta, di innesti cutanei o di lembi muscolari se le ossa sono scoperte.

Nei casi, molto frequenti, di fratture esposte, si procede dopo il debridement a stabilizzare la frattura con l'uso di fissatori esterni, o di trazioni scheletriche o apparecchi gessati, mentre i metodi di fissazione interna sono controindicati per il rischio di complicazioni infettive.

Le ferite penetranti dell'addome vanno trattate analogamente a quelle che si incontrano in chirurgia d'urgenza nella pratica civile. Un aspetto merita però di essere sottolineato. L'addome va sempre esplorato completamente, e nel modo più minuzioso, specie quando le lesioni sono prodotte da piccoli frammenti metallici: le perforazioni multiple sono la regola, e il rischio di non riconoscere fori puntiformi è sempre presente.

Nella maggior parte delle ferite del torace, in cui emo e pneumotorace solitamente coesistono, è sufficiente un doppio drenaggio, mentre una toracotomia d'urgenza è indicata quando esistano ampie brecce nella parete toracica, o il sanguinamento sia persistente, oppure nei casi in cui grossi corpi estranei, spesso di forma irregolare, siano presenti in posizioni critiche, per esempio vicino agli ili polmonari.

Le esemplificazioni potrebbero continuare, ma forse si aggiungerebbe poco, quel che conta è che molto spesso i feriti di guerra sono politraumatizzati, pazienti gravi che richiedono di regola più interventi.

È una chirurgia impegnativa, spesso stressante, dove l'osservazione clinica, anche per le limitate tecnologie disponibili, deve essere particolarmente assidua. Ma allo stesso tempo è un lavoro affascinante. Tra persone e culture molto diverse, anche nel mezzo della devastazione e della barbarie della guerra, riemerge sempre la solidarietà e l'affetto.

A capodanno ho rivisto Abdul Ghani; lo avevo operato due anni prima, una resezione del colon e l'amputazione di una gamba. Era sopravvissuto insieme col padre a un bombardamento in Afghanistan; il resto della famiglia, la madre e tre fratelli, erano morti. Ricordo il padre: barba bianca e il volto aristocratico così tipico degli afghani, aveva passato un mese accanto al figlio, dormendo sotto il suo letto in terapia intensiva. Ci siamo riconosciuti subito, un saluto fraterno. Il giorno dopo Abdul è tornato all'Ospedale, quattro ore di viaggio, a portarmi un sciarpa: «Te la manda mio padre, la pace sia con te».

 


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