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Niente fiammiferi vicino al telescopio

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Di tanto in tanto succede che ci si debba confrontare con un risultato nuovo e inaspettato; è il bello della ricerca. Se spesso il nostro lavoro metodico permette di verificare un’ipotesi, trovando proprio quello che stavamo cercando, altre volte ci costringe a confrontarci con sorprese che ci portano a sospendere gli studi in corso per occuparci della novità appena trovata che, proprio perché tale, si rivela più interessante di quanto stavamo facendo.
Nel maggio del 1962 due astronomi dell’Istituto di Astrofisica di Parigi, Daniel Barbier e Nina Morguleff, al lavoro con il telescopio da 2 metri dell’Osservatorio di Haute-Provence, notarono la presenza di due forti righe di emissione a poco meno di 7700 A – il doppietto del potassio – nello spettro di una altrimenti normalissima stella di tipo G6: HD117043. In successive osservazioni della stessa stella le due righe del potassio non furono più viste. Si trattava dunque di una emissione transiente, di un
flare o lampo. Era la prima volta che si osservava un lampo di potassio in una stella, e nemmeno nel Sole un tale evento era mai stato registrato.

I due ricercatori pubblicarono una breve nota per descrivere il risultato sull’autorevole Astrophysical Journal (1962, 136, p. 315) e si misero ovviamente a cercare con sistematicità altri eventi simili. Dovette trascorrere oltre un anno prima della registrazione di un secondo evento positivo. Il secondo lampo di potassio, questa volta nello spettro di HD88230, una stella K7, fu visto all’inizio del 1964. Un terzo (e ultimo) lampo fu poi osservato nello spettro di 4 Her, una stella B9e, nel giugno del 1965 da Yvette Andrillat, sempre utilizzando la stessa strumentazione (spettrografo coudé al 2 metri di Haute Provence). Barbier non fu testimone di quest’ultima misura: era morto meno di tre mesi prima. Questi risultati erano particolarmente interessanti in quanto “strani”. Innanzitutto i lampi di potassio erano estremamente rari: solo tre eventi in tre anni. E questo nonostante che il telescopio di 2 m di Haute-Provence, negli anni successivi alla scoperta, avesse dedicato a questa ricerca circa duecento notti di osservazione. Un migliaio di spettri stellari erano stati ottenuti ma solo tre mostravano il doppietto a circa 7700 A. Inoltre nessuno era ancora riuscito a trovare un meccanismo astrofisico che spiegasse il fenomeno e la presenza di potassio neutro nell’atmosfera delle stelle. Andrillat e Morguleff riassunsero i risultati relativi ai tre flare registrati in altrettante stelle e li presentarono a un convegno che si tenne a Trieste nel giugno del 1966 suscitando un notevole interesse, come testimoniano le molte domande ricevute e riportate nei proceedings del convegno. Nel frattempo, vista la peculiarità del risultato, altri si erano messi a osservare sistematicamente campioni di stelle nel tentativo di registrare altri flare di potassio e di spiegarne le ragioni. La verifica indipendente di un risultato nuovo e la sua riproducibilità sono requisiti fondamentali del metodo scientifico e sono necessarie affinché la comunità possa accettare e condividere il risultato in questione. Ecco perché in genere è nell’interesse degli stessi scopritori di un fenomeno nuovo, descriverlo con sufficiente dettaglio così da permettere ad altri di riprodurre l’esperimento o l’osservazione e confermare quanto trovato. Tra i vari astronomi a caccia dei flare di potassio c’erano Wing, Peinbert e Spinrad, dell’Università della California, che decisero di osservare un campione di 162 stelle brillanti, utilizzando il riflettore Crossley del Lick Observatory. Probabilmente scettici sin dall’inizio, dopo i primi risultati negativi, i tre presero in considerazione l’ipotesi che il potassio non fosse di origine stellare. La possibilità che l’atmosfera terrestre fosse responsabile dei lampi osservati era stata presa in considerazione e poi scartata anche da Andrillat e Morguleff; Wing, Peinbert e Spinrad si spinsero oltre e ipotizzarono un’origine terrena, addirittura umana, dei lampi di potassio. Si misero infatti ad analizzare, usando lo spettrografo coudé del telescopio da 120 pollici del Lick, lo spettro di emissione dei fiammiferi, quando venivano accesi. Con estrema serietà Wing, Peimbert e Spinrad descrivono i risultati dell’analisi degli spettri prodotti dai fiammiferi, avendone accesi di tutti i tipi: in bustina, in scatola, da cucina, di sicurezza, americani e francesi, e in punti diversi della stanza dello spettrografo coudé. Avrete già capito che a conclusione del loro meticoloso lavoro di verifica tutti si convinsero, incluse Andrillat e Morguleff, che i lampi di potassio registrati durante l’osservazione delle tre stelle erano dovuti all’accensione di fiammiferi in prossimità dello spettrografo.

Perché ci vollero quattro anni per rendersi conto di questo insospettato quanto indesiderato effetto collaterale del fumo, e come mai solo tre spettri su circa un migliaio furono contaminati dalla luce dei fiammiferi? Sembra che gli astronomi francesi fossero stati beffati da un singolare e improbabile allineamento tra la posizione del fiammifero acceso e quella della fenditura e dell’asse ottico dello spettrografo. Solo in poche specifiche configurazioni la luce del fiammifero impressionava, infatti, la lastra fotografica. Le conclusioni di Wing, Peimbert e Spinrad (ma consiglio di leggere l’intero articolo su PASP 1967, v. 79, n. 469, p.351) sono un notevole (e raro) esempio di eleganza e delicatezza: “Abbiamo mostrato che se lampi di potassio possono manifestarsi nelle stelle, allora uno scanner fotoelettrico è uno strumento efficiente per rivelarli. Una descrizione dello spettro di emissione dei fiammiferi, tuttavia, ci ha indotti a suggerire che uno o più dei tre lampi di potassio registrati all’Osservatorio di Haute-Provence possa essere stato causato da fiammiferi accesi nella stanza coudé. Sebbene l’evidenza non sia conclusiva, riteniamo che l’ipotesi del fiammifero fornisca la più semplice e più probabile spiegazione delle osservazioni spettroscopiche”. Degni di nota sono anche i ringraziamenti con cui gli autori chiudono il loro articolo: “Siamo particolarmente indebitati con Mme Y. Andrillat per la conduzione di test con fiammiferi all’Osservatorio di Haute-Provence, per averci comunicato i suoi risultati in dettaglio, e per aver letto la bozza di questo articolo”. È chiaro che i due gruppi erano in contatto e collaboravano al fine di risolvere il mistero dei lampi di potassio, nell’interesse – comune – della verità scientifica ed è altrettanto chiaro che gli astronomi francesi volevano a loro volta verificare i risultati, per loro imbarazzanti, dei colleghi americani. Avvisate con ragionevole anticipo delle conclusioni che il team americano aveva raggiunto, Andrillat e Morguleff, una volta convintesi, riuscirono a inserire, in fase di stampa, una nota nei proceedings del meeting di Trieste con una dignitosa ritrattazione del loro risultato.

Vi sono in letteratura diversi esempi di fenomeni o scoperte che non hanno mai avuto una verifica indipendente e convincente e che dunque non sono mai stati validati. Alcuni di noi ricordano il caso del monopolo magnetico passato per il laboratorio di Blas Cabrera, a Stanford nel 1982, annunciato su Physical Review Letters e mai più rivisto. O i vari annunci, con enfasi più mediatica che scientifica, di fusione fredda, da quella elettrolitica originaria di Fleishmann e Pons del 1989 a quella “piezoelettrica”, più recente e, se possibile, ancor più improbabile. Dicevamo che è nell’interesse di chi annuncia un nuovo eclatante risultato mettere la comunità nelle condizioni di ripetere l’esperimento e verificare i risultati. Questo, naturalmente, se gli autori sono in buona fede. E in effetti la buona fede la si può misurare proprio dall’approccio che gli autori hanno nei confronti di questo aspetto importante del metodo. Chi crede veramente in quello che ha scoperto, non vede l’ora che la propria scoperta venga confermata e la sua paternità riconosciuta. Chi sa di aver pasticciato o – peggio ancora – di aver consapevolmente falsificato i dati, non vuole essere smentito o scoperto. La scoperta della cosiddetta memoria dell’acqua da parte di Benveniste e del suo team è oggi considerata una frode (per rivelarla fu coinvolto anche James Randi) e la comunità scientifica è, con pochissime eccezioni, convinta da tempo che non vi sia mai stata fusione fredda: a oltre vent’anni dal primo annuncio, questo fenomeno, infatti, non è mai stato replicato con successo in alcuna forma convincente, anzi sono emersi nel tempo omissioni ed errori nell’esperimento originale. Vi sono naturalmente anche esempi di risultati apparentemente eclatanti presentati correttamente e onestamente, con tutti i possibili dettagli, e altrettanto correttamente e onestamente ritrattati o smentiti successivamente.

È questo il caso della misura della velocità dei neutrini sparati dal CERN verso i laboratori del Gran Sasso – forse la notizia scientifica più clamorosa dell’ultimo decennio – che gli autori per primi hanno presentato alla comunità scientifica con prudenza e con la richiesta di verifica o riproduzione, o il caso meno noto delle stelle al potassio che vi ho appena raccontato. Lo diceva anche Jules Verne (in Viaggio al centro della Terra): “La science, mon garcon, est faite d’erreurs, mais d’erreurs qu’il est bon de commettre, car elles mènent peu a peu à la verité”. Onore al metodo. 

Tratto da Le Stelle n°110, settembre 2012


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