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New England Journal of Medicine, una storia lunga due secoli

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Cosa c'entra il più grande giornale di medicina del mondo, il New England Journal of Medicine (ha appena celebrato i 200 anni dalla sua fondazione) con la rivoluzione americana? C'entra, ed è per via di un dottore molto speciale, Joseph Warren, un uomo elegante, brillante e anche molto bello. Si laurea a diciott’anni e a neppure trenta è già famoso per saper curare il vaiolo. Medico e soldato, diventa il capo del comitato per la sicurezza di Boston e mette in piedi un sistema di spionaggio formidabile. E non basta, è così stimato che lo chiamano ad assistere la moglie del generale inglese Thomas Gage. E' da lei che Warren viene a sapere delle intenzioni degli inglesi di spostare le truppe in campagna per impadronirsi di armi e munizioni dei coloni e poi arrestare John Hancock e Samuel Adamson. Gli inglesi, quella volta a Bunker Hill, saranno sconfitti ma Warren muore in battaglia (era “major general”, ma continuava a combattere con i suoi soldati).  Al fratello John, studente di medicina, restano i ferri chirurgici di Joseph e l'obbligo morale di continuare a curare i feriti di quella terribile battaglia. John Warren fonda la scuola di medicina di Harvard. Avrà diciassette figli. Uno di loro, John Collins, comincia gli studi di medicina a Boston poi va a Londra e a Parigi; la laurea non la prenderà mai, ma l’università di Harvard gliene  attribuirà una ad honorem. Sarà proprio John Collins nel 1812 a fondare il “New England Journal of Medicine and Surgery and the Collateral Branches of Science” (a quel tempo ogni copia del giornale costava due dollari e le prime 100 copie di quell’anno vennero consegnate a cavallo).

Il primo articolo fu del 1 gennaio 1812 “Remarks on angina pectoris” a firma di John Warren, il padre di John Collins. Oggi ci sarebbe da ridire sul fatto che John Collins riceve una laurea honoris causa dalla scuola di medicina fondata dal padre e poi chiede proprio al padre di scrivere il primo articolo per il suo nuovo giornale. Sta di fatto che quelle considerazioni sull’angina pectoris restano nella storia della medicina come la più bella descrizione che nessuno sia mai stato capace di fare dei sintomi che precedono l’infarto. Il malato, il reverendo James Neal aveva “un dolore modesto con difficoltà di respirare ma solo se camminava rapidamente, se poi era contro vento doveva  fermarsi. E quando saliva le scale si fermava spesso per delle fitte al petto”. A quel tempo il New England Journal of Medicine and Surgery and the Collateral Branches of Science si pubblicava una volta al mese, ma nel giro di dieci anni la comunità di Boston sentì l’esigenza di una rivista settimanale.
Il 29 aprile del 1823 si cominciò a pubblicare il “Boston Medical Intelligencer”, direttore era Jerome Smith, uno che poi diventò sindaco di Boston. L’obiettivo era quello di pubblicare casi clinici, e poi tutto quello che succedeva nel mondo della medicina - soprattutto in Europa - per non restare indietro. Pochi anni dopo, il Boston Medical Intelligencer viene venduto a Warren per 600 dollari. Diventa “Boston Medical and Surgical Journal” si continuano a pubblicare casi interessanti, ma bisogna aspettare fino al ’46 per trovare un lavoro davvero originale: Henry Jacob Bigelow, uno dei chirurghi del Massachusetts General Hospital, era riuscito ad anestetizzare con l’etere un paziente a cui doveva essere amputata una gamba, dopo l’intervento l’ammalato aveva ripreso coscienza (a quel tempo non era affatto scontato). Intanto, le grandi scoperte della medicina si continuano a pubblicare in Europa. E’ il caso della febbre che viene dopo il parto e porta a morte. Succedeva soprattutto nei grandi Ospedali. Chi partoriva in casa rischiava di meno. E le donne che si facevano assistere dal medico rischiavano di più di quelle che si accontentavano dell’ostetrica. Non se ne veniva a capo, finché non arrivò all’Imperial Royal Hospital di Vienna Ignac Fulop Semmelweis, medico per vocazione e ostetrico per caso, fu lui ad accorgersi che le donne morivano di infezioni e che a infettarle erano i medici e gli studenti che sezionavano i cadaveri nelle sale anatomiche e poi passavano in sala parto a prendersi cura delle donne, senza nemmeno lavarsi le mani. Semmelweis chiese a tutti quelli che lavoravano con lui di lavarsele col cloruro di calcio prima di assistere a un parto. Era il 1846: quell’anno nel suo reparto erano morte di parto 500 donne. Due anni dopo furono solo 47. Ma Semmelweis fu costretto ad andarsene, alla storia del lavarsi le mani non ci credeva nessuno. Di questo Semmelweis parlò in vari congressi e lo scrisse in un libro del 1860 “Die Aetiologie, der Begrif und die Prophylaxis des Kindbettfiebers”. Il Boston Medical and Surgical Journal si accorse della febbre puerperale vent’anni dopo. Pubblicò invece una delle prime radiografie, quella della mano di un ammalato con un’anomalia della falange distale del dito mignolo e poi nel 1901 che l’aspirina è meglio dell’acido salicilico per i reumatismi. E nel 1911 che il salvarsan, uno dei primi chemioterapici, si può usare per la sifilide, le verruche volgari e la lebbra, e i risultati sembravano molto migliori rispetto ai vecchi rimedi (“bisognerà vedere se i benefici durano nel tempo, se mai  queste iniezioni si dovranno ripetere”) conclude Richard Sutton.

Nel 1918 arriva la spagnola, il Boston Medical and Surgical Journal offre ai medici una splendida interpretazione dei sintomi e tratta delle precauzioni da prendere. C’erano stati migliaia di casi, in Spagna naturalmente (il 7 ottobre quando il giornale pubblica quel lavoro là erano già morte 700 persone) ma anche in Germania, Inghilterra e a Cuba. Ma cos’è che provoca l’influenza? Dalle notizie che arrivano dall’Europa sembra fosse un “grampositive coccus”, un batterio insomma. Oggi sappiamo che è un virus, allora no. Un’altra delle grandi scoperte di quegli anni (1925) è l’insulina per la cura del diabete che però finisce sul Journal of American Medical Association. “Per adesso sappiamo che con l’insulina questi bambini riprendono a crescere, continueranno a vivere?” si chiede Elliott Joslin, il più grande studioso di diabete di tutti i tempi. Sì, vivranno una vita normale, adesso lo sappiamo. Nel 1921 la Società di Medicina del Massachusetts compra il Boston Medical Surgery Journal per un dollaro e il 23 febbraio del ’28 nasce il New England Journal of Medicine. C’era già la pubblicità a quel tempo sul giornale: sigarette (Chesterfields), whisky (Johnny Walker) Chewing Gum e Coca-Cola davvero molto particolare per un giornale di medicina. Il primo studio clinico controllato nella storia della medicina, quello sull’uso della streptomicina nella cura della tubercolosi è del ’48 e si pubblica su un giornale inglese, il British Medical Journal. Nel ’54 si fa anche il primo trapianto di rene: il primo annuncio è nel Times, si racconta di Ronald Herrick che dona un rene al fratello Richard ammalato di una grave forma di nefrite. Il lavoro vero e proprio esce nel Journal of American Medical Association solo un anno dopo (i primi trapianti degli anni ’50 erano andati male e allora i dottori di Boston hanno aspettato un po’ prima di far sapere di quel trapianto, insomma volevano vedere come sarebbe andato). Andò bene, il trapianto consentì a Richard di vivere altri otto anni, di sposarsi e di avere due figli. La strada per tutti i trapianti che sarebbero venuti dopo – più di un milione fino ad oggi – era aperta, ma per quelli da cadavere serviva la definizione di morte del cervello, pubblicata dal New England qualche anno dopo. Una delle più grandi scoperte mediche di tutti i tempi, il vaccino di Salk e Sabin viene annunciato in una conferenza stampa del 12 aprile 1955, quel giorno ricorreva il decimo anniversario della morte di Franklin Delano Roosvelt. Nel 1960 il New England Journal of Medicine pubblica del vaccino per il morbillo provato prima sulle scimmie e poi sui bambini, ci sono tutte le indicazioni per preparare il vaccino e i dettagli sulla risposta immune. Quel lavoro lì fatto dai pediatri dell’Univerità di Harvard, da allora a oggi, ha salvato la vita ad almeno venti milioni di bambini. Da quegli anni in poi  gran parte della storia del New England Journal of Medicine coincide con la storia della medicina: la scoperta di  farmaci capaci di curare l’AIDS, la cura dell’ictus del cervello, le prime difficoltà con la fecondazione in provetta e il fatto che l’ulcera dello stomaco possa portare a tumori. 

L'articolo più letto del New England Journal of Medicine degli ultimi cinque anni? Uno potrebbe pensare a quello sull’effetto dei farmaci che abbassano il colesterolo o su come evitare le complicanze del diabete, o a quello ormai famoso su H1N1 o a certi studi su nuovi farmaci per il trattamento del tumore della mammella metastatico. Invece no, non è nessuno di questi. Quello più letto è un racconto che ha poco di scientifico a prima vista e che colpisce persino la fantasia: è la storia di un gatto, un gatto davvero speciale “Oscar the Cat”. Passa le sue giornate al terzo piano di uno dei padiglioni dell'Ospedale di Rhode Island a Providence, dove si ricoverano i malati di Alzheimer. Va e viene per i corridoi, dorme un po' qua e un po' là come tutti i gatti, qualche volta, di tanto in tanto si avvicina alla sua ciotola per mangiare o per bere, si appisola sulla sedia di qualche infermiere certe volte e se trova la porta socchiusa capita perfino che entri in qualche camera, fa un giro e se ne va via di solito. Salvo una volta (la sua prima volta). Entra in camera di Sara, s'accomoda sul letto e non si muove da lì. Sara è in coma da parecchi giorni e adesso sta proprio male, entra un'infermiera, Sara respira malissimo. Chiamano i parenti che arrivano di lì a poco il tempo di prepararsi. La stanza di Sara è piena di gente adesso i figli e cinque nipoti, Oscar non si è mosso, sempre lì steso sul letto accanto a Sara. “Chissà, forse vuole accompagnare la nonna in paradiso” sussurra Julie, la nipotina più piccola. L'ultimo sospiro per Sara è poco dopo. Oscar se ne va, senza che nessuno ci faccia caso, torna a dormire nella sua cesta. Ha finito il suo lavoro non morirà nessun altro oggi al terzo piano, quello degli ammalati di Alzheimer, nemmeno la signora della camera 20 ammalata di demenza e di tumore che stava già malissimo dalla mattina. Medici e infermieri del terzo piano a Steere House Nursing Center hanno adottato Oscar che era cucciolo di pochi giorni e miagolava disperato in un seminterrato. Col tempo Oscar ha imparato a prevedere chi morirà di lì  a poco, l'ha fatto 25 volte finora senza sbagliare mai (e medici e infermieri hanno il tempo di chiamare i parenti e prepararli). Così Oscar sta vicino anche a chi se no morirebbe da solo. “Questo riconoscimento è per Oscar - Oscar the Cat - per la sua attenzione per quelli che hanno più bisogno” c'è scritto proprio così  sulla targa che gli infermieri hanno voluto dedicare al loro gatto. Lui, Oscar, ogni tanto ci passa davanti butta l'occhio e torna a dormire.

Una differente versione dell'articolo è pubblicata su La lettura del Corriere del 15 aprile 2013


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