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La mente entra in tribunale

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I cittadini sono considerati uguali di fronte la legge, ma le neuroscienze mettono in discussione il libero arbitrio. I crimini sarebbero non solo il frutto della volontà individuale, ma anche di complesse interazioni neurali, ambientali e biologiche. Una maggiore comprensione di questi meccanismi, potrebbe aprire a una nuova collaborazione tra scienza e diritto, per garantire soluzioni processuali più giuste.

In una fredda mattina del 14 Dicembre 2012 un giovane uomo di vent’anni, Adam Lanza, si diresse verso l’ingresso della scuola elementare Sandy Hook, a Newtown nel Connecticut. La Preside lo riconobbe dal videocitofono e lo fece entrare, ma non sapeva che Adam era armato e che di lì a poco avrebbe aperto il fuoco contro 26 persone innocenti. Qualcosa del genere era già successo nel 1999 a Columbine, nello stato del Colorado, e la tragedia, oltre a suscitare l’orrore di tutto il mondo, ispirò anche un documentario e un film (“Bowling a Columbine” di Michel Moore e “Elephant” di Gus Van Sant). In entrambi i casi gli esecutori delle due stragi si suicidarono, ma se fossero sopravvissuti i tribunali americani avrebbero dovuto rivedere le consuete norme processuali e capire se a muovere una tragedia tanto assurda fossero stati davvero i disturbi mentali dei due esecutori o qualcosa di più profondo e meno conosciuto. Sembra paradossale, ma forse potrebbero esserci state motivazioni che scavalcano il libero arbitrio individuale. Le scoperte nel campo delle neuroscienze infatti potrebbero aprire una nuova strada all’interno del diritto, decretando l’avvio per una sempre maggiore penetrazione delle scienze nel dibattito giuridico. Niente a che vedere però con le indagini di CSI.

Le prime ricerche neuroscientifiche sull’esistenza del libero arbitrio risalgono al 1985 (leggi qui). In un articolo apparso sul blog del New York Times [1], Eddy Nahmias, professore associato presso il Dipartimento di Filosofia e l’Istituto di Neuroscienze della Georgia State University, mette in discussione l’idea di libero arbitrio così come l’abbiamo conosciuta fino adesso. Ovvero, il libero arbitrio c’è, ma va pensato in una forma differente. Ne consegue che le responsabilità morali e legali dell’ individuo devono essere messe in discussione e ripensate rispetto alle forme tradizionali con cui ci confrontiamo oggi. David Eagleman [2], neuroscienziato e professore delBaylor college of medicine nel Texas, sostiene che il comportamento umano non può prescindere dalla biologia e che forse non tutti siamo liberi allo stesso modo di compiere scelte sociali adeguate. D’altro canto, giudicare un imputato considerando in modo distinto la sua volontà e la sua neurobiologia non è la strada giusta. Ciò che è auspicabile, secondo Eagleman, è un approfondimento dei meccanismi biologici, genetici e ambientali che agiscono all’interno del nostro cervello e che concorrono alla nostra coscienza, al fine di favorire una maggiore compenetrazione tra scienza e sistema giudiziario. In questo modo la lotta al crimine continuerebbe, ma le sanzioni sarebbero più adeguate, includendo nuovi metodi di riabilitazione o offrendo incentivi per rispettare la legge. L’ingresso della scienza nel diritto potrebbe migliorare lo svolgersi del processo giudiziario, rendendolo più oggettivo e più capace non solo di punire un atto compiuto nel passato, ma anche di prevedere la recidività dei fatti criminosi nel futuro. Il connubio scienza-diritto potrebbe permettere anche una maggiore personalizzazione dei metodi di riabilitazione, rendendola più efficace.

Questo non significa che Adam Lanza sarebbe considerato non colpevole. L’uguaglianza di fronte alla legge dovrà sempre accertare la giustizia della pena, ma si dovrà modificare nella sostanza, partendo dal presupposto che non tutti i cittadini sono uguali quando consideriamo i processi mentali che hanno indotto il compimento di un’azione.

Tutto questo è davvero realizzabile o rimarrà chiuso tra le mura dei centri di ricerca?

In Italia, la Giurisprudenza affonda le sue radici nel Diritto Romano ed è riconosciuta come una delle macchine più lente del sistema costituzionale, con processi che si protraggono anche per decenni. Lontana dall’Illuminismo di Beccaria e legata a un’istituzione estremamente tradizionale e macchinosa, la giurisdizione italiana si avvale molto poco perfino dell’uso delle nuove tecnologie.

Pertanto, quanto appare futurista questo scenario? È davvero possibile immaginare nel prossimo futuro una collaborazione maggiore e imprescindibile tra scienza e diritto? E se così fosse potremo sentirci più certi della giustezza delle pene?

A queste ed altre domande si tenterà di dare una risposta durante il convegno “Alla prova dei fatti – Il dialogo tra scienza e diritto”, che si terrà il prossimo giovedì 14 Marzo a partire dalle ore 9.00, presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca.

 

Referenze:

[1] Nahmias E., Is neuoscience the death of free will?  Eaglman D., Brain on Trial, The Atlantichttp://www.theatlantic.com/magazine/archive/2011/07/the-brain-on-trial/3...

[2] Eaglman D., Brain on Trial, The Atlantic Nahmias E.


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