fbpx Marginali nell'HiTech | Scienza in rete

Marginali nell'HiTech

Primary tabs

Read time: 5 mins

Una buona notizia (forse apparente): malgrado la crisi iniziata dieci anni fa e la conseguente recessione non ancora recuperata; malgrado la straordinaria avanzata della Cina, l’Italia continua a ritagliarsi una fetta non banale nel commercio internazionale di beni industriali: il 3,6% del totale mondiale.

Una cattiva notizia: la fetta italiana nella torta più prelibata, quella degli scambi internazionali di beni hi-tech, ad alta tecnologia, è molto più piccola, praticamente la metà: non supera l’1,9% del totale mondiale.

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ha appena pubblicato la Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia (qui il documento completo), un rapporto di 370 pagine, scritto in collaborazione da una ventina di studiosi e articolato in dodici diversi capitoli. Un’analisi che fotografa la storia degli ultimi venti anni o quasi delle capacità del paese in fatto di scienza e tecnologia.

Un riassunto complessivo non è semplice, data la massa di dati proposti e di dimensioni studiate. Ciascun capitolo meriterebbe un articolo. Nel corso dei prossimi giorni ne proporremo molti. Ma, forse, per meglio capire la storia non solo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica, ma dell’intera vicenda economica del nostro paese, conviene partire dal Capitolo 5, quello redatto da Daniela Palma (storica collaboratrice di Scienzainrete) e da Gaetano Coletta e relativo a L’Italia nella competizione tecnologica internazionale.

Il primo dato è chiaro. Se l’industria italiana nel suo complesso è ancora competitiva sui mercati internazionali e il nostro export “tira”, nell’hi-tech il nostro paese ha una posizione marginale. Anche rispetto ad altre nazioni europee. E questo è un problema. Forse questo è “il” problema della nostra economia.

Il rapporto CNR ci ricorda come nell’ultimo quarto di secolo – dal 1990 al 2016, per la precisione – il commercio mondiale è letteralmente esploso, aumentando di ben cinque volte. Nei primi 15 anni il commercio dei beni hi-tech è creasciuto a un ritmo decisamente superiore a quello degli altri beni. Poi ha rallentato, anzi ha subito una caduta negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2009, per poi riprendersi. Tuttora è il settore cresciuto di più tra il 1990 e oggi.

Si aggiunga a questo il fatto che l’hi-tech è un settore strategico, da ogni punto di vista. Compreso quello del lavoro e del reddito. Le industrie che producono beni ad alta tecnologia richiedono personale meglio qualificato e remunerano di più i lavoratori rispetto agli altri settori.

Ebbene l’hi-tech non ha vissuto solo la sua golden age, la sua età dell’oro, come la definiscono Palma a Coletta, nell’ultimo quarto di secolo. Ha vissuto anche una profonda trasformazione dei suoi equilibri interni: tra il 2000 e il 2016 la quota delle componenti elettroniche, per esempio, si è dimezzata, mentre quella della farmaceutica è più che raddoppiata.

Composizione settoriale dell'export nei prodotti hi-tech a livello mondiale, anni 2000-2016. Fonte: elaborazione ENEA-Osservatorio sull'Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale su dati OECD-ITCS Database. Dal report Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia

Ma a cambiare è stata soprattutto la geografia dell’export dell’hi-tech. Se, infatti, nell’anno 2000 i paesi leader erano gli Stati Uniti (18% dell’export mondiale) e il Giappone (10%), nel 2015 i paesi leader risultavano la Cina (22% dell’export mondiale hi-tech, che con Hong Kong raggiunge addirittura il 27%) e la Germania (10%).

Quote di mercato sulle esportazioni mondiali di prodotti high-tech per i principali Paesi esportatori (graduatoria rispetto al 2016). Fonte: elaborazione ENEA-Osservatorio sull'Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale su dati OECD-ITCS Database. Dal report Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia

In questo cambiamento globale l’Europa viaggia a due dimensioni. Oltre alla Germania, anche la Francia ha un po’ migliorato la sua posizione. E, malgrado la netta deindustrializzazione della sua economia, il Regno Unito conserva una quota rispettabile del commercio mondiale hi-tech, intorno al 4%. Mentre l’Italia con il suo modesto e stabile 1,9%, è superata anche da paesi piccoli, come la Svizzera, il Belgio, l’Olanda. Si trova, appunto, in una situazione marginale.

Il problema non è tanto e non è solo il fatto che la bilancia dei pagamenti in questo settore è costantemente negativa: importiamo molto più hi-tech di quanto ne esportiamo. A puro titolo di paragone: la Germania ha un saldo positivo nell’hi-tech di 60 miliardi, mentre noi abbiamo un saldo negativo all’incirca di 5 miliardi.

Ma il problema forse maggiore riguarda la nostra specializzazione produttiva. L’export di Francia e Regno Unito è costituito al 30% di beni ad alta tecnologia. L’export potentissimo della Germania è costituito al 20% di beni hi-tech. Noi, come la Spagna, siamo inchiodati da almeno tre lustri al 10% o poco più. Il che significa che il 90% dei beni che esportiamo è costituito da beni a media e bassa tecnologia. Proprio i settori in cui la concorrenza dei paesi con moneta debole e basso costo del lavoro si fanno maggiormente sentire.

Quota percentuale dei prodotti hi-tech sugli scambi commerciali manufatturieri nei maggiori Paesi europei, anni 2002-2016. Fonte: elaborazione ENEA-Osservatorio sull'Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale su dati OECD-ITCS Database. Dal report Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia

Certo finora la nostra specializzazione produttiva non ha (non sembra aver) inciso sulla nostra competitività. Le aziende italiane hanno trovato il modo di mantenere la loro posizione sui mercati internazionali: in altri termini, il nostro export è ancora forte. E tuttavia la mancata specializzazione in settori ad alta intensità di conoscenza ha un costo, salatissimo. Il progressivo impoverimento relativo (e, rispetto al 2008, anche assoluto) del paese. Riusciamo a esportare nei settori tradizionali perché le aziende tradizionali si sono adattate. Ma uno dei meccanismi di adattamento è stata la compressione dei salari. Abbiamo agito sul costo del lavoro. Ma, ecco il prezzo salatissimo, questo ha ridotto (ha contribuito a ridurre) la domanda interna. Siamo ancora forti sui mercati internazionali, ma siamo deboli sul mercato interno. In altri termini, la mancata scelta di puntare sull’hi-tech ci ha reso tutti, in media, più poveri.

Prossimamente vedremo come questa condizione economica sia legata alla ricerca scientifica.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Intelligenza artificiale ed educazione: la ricerca di un incontro

Formazione ed educazione devono oggi fare i conti con l'IA, soprattutto con le intelligenze artificiali generative, algoritmi in grado di creare autonomamente testi, immagini e suoni, le cui implicazioni per la didattica sono immense. Ne parliamo con Paolo Bonafede, ricercatore in filosofia dell’educazione presso l’Università di Trento.

Crediti immagine: Kenny Eliason/Unsplash

Se ne parla forse troppo poco, almeno rispetto ad altri ambiti applicativi dell’intelligenza artificiale. Eppure, quello del rapporto fra AI ed educazione è forse il tema più trasversale all’intera società: non solo nell’apprendimento scolastico ma in ogni ambito, la formazione delle persone deve fare i conti con le possibilità aperte dall’IA.