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L'estetica dell'Antropocene

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Esistono influencer anche nel mondo animale, sebbene inconsapevoli: le specie considerate più belle e carismatiche sono quelle più conosciute e con un maggior supporto alla conservazione. Eppure la crisi della biodiversità che stiamo attraversando richiede un approccio più olistico che vada al di là delle apparenze e il contributo di scienziati e umanisti.
Photo by Diogo Hungria /Unsplash

Tempo di lettura: 7 mins

Quanto conta l’aspetto esteriore per un pesce? Molto, e non (solo) per la scelta del partner: i pesci più belli agli occhi umani sono quelli più studiati e anche maggiormente tutelati. A suggerirlo uno studio sui pesci delle barriere coralline, habitat di cruciale importanza ecologica che ospita animali e vegetali di ogni forma e colore e protegge le coste dall’erosione, ma tormentato dal riscaldamento climatico e dall’inquinamento dei mari. Le specie che hanno un maggiore appeal hanno pattern ben definiti e ripetuti, colori sgargianti e saturi e una forma del corpo tondeggiante. Insomma, un po’ si assomigliano, pure dal punto di vista funzionale: sono specie legate a substrati rocciosi, vivono vicino al fondale, sono diurne e sedentarie, vivono solitarie o in piccoli gruppi, hanno diete simili e quindi occupano più o meno la stessa nicchia ecologica. Si tratta di specie imparentate dal punto di vista filogenetico e giovani evolutivamente parlando. I pesci meno attraenti invece hanno forme più allungate, sono specie pelagiche e spesso hanno colori meno appariscenti perché devono mimetizzarsi in contesti ambientali disparati. Fin qui, si tratta di una pura preferenza estetica, il problema però è che la maggior parte dei pesci belli sono specie comuni, valutati dalle liste rosse dell'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) non in pericolo di estinzione, mentre tra i pesci “bruttini” ci sono animali a rischio critico di estinzione, molto commercializzate e sfruttate dalla pesca intensiva, e specie di cui non si sa nulla in termini di biologia, abbondanza, distribuzione. A complicare la cosa c’è che questi pesci sono magari brutti o insignificanti, ma decisamente “buoni”: la loro biologia è molto variegata e di conseguenza è vario il loro ruolo ecologico, e quindi sono fondamentali per il funzionamento ecosistemico delle barriere coralline.

Anche l’occhio vuole la sua parte

Per capire se ci sono delle caratteristiche comuni che conferiscono più appeal estetico ai pesci, i ricercatori hanno creato un questionario online, in cui gli utenti dovevano scegliere le specie per loro più belle in un confronto a due, e hanno usato i risultati per istruire un algoritmo di machine learning. Hanno così potuto valutare quasi 5.000 immagini relative a circa 2.400 specie di pesci delle barriere coralline, e ottenere un risultato robusto circa i gusti estetici umani in fatto di pesci. Un approccio molto simile è quello utilizzato per le farfalle europee nel progetto Unveiling, dell’Università di Firenze. «Questo studio ci consente, con dati alla mano, di capire cosa effettivamente significa apprezzare esteticamente una forma vivente» spiega Maria Grazia Portera, ricercatrice in estetica e coordinatrice dello studio per il Dipartimento di Lettere e di Filosofia. «La cornice teorica è quella delle Environmental Humanities, ovvero utilizzare approcci interdisciplinari alle questioni ambientali, come la crisi della biodiversità, che mettano insieme il punto di vista delle scienze umane e di quelle naturali classiche, nella consapevolezza che, se è vero che l’essere umano è responsabile della crisi ecologica, le scienze umane possono dire qualcosa di rilevante».

«Le farfalle sono utilizzate come indicatori per la qualità ambientale, la biodiversità e l’effetto dei cambiamenti climatici. Il problema è che le farfalle più vistose ricevono più attenzione rispetto alle specie più piccole o alle falene, quindi c’è più motivazione a studiare le farfalle più belle» racconta Leonardo Dapporto, zoologo, e coordinatore di Unveiling del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Firenze. «Per poter misurare questa differenza in modo scientifico serve però dotarsi di un parametro che permetta di valutare in modo oggettivo l’attrattività che una specie esercita su un essere umano, e capire in quale misura essa determina o meno le nostre decisioni in termini di conservazione».

La bellezza sta negli occhi di chi guarda

«C’è una base biologica nella predilezione per certi pattern visivi piuttosto che altri, come la simmetria, la complessità del disegno, la colorazione vivace, sono cose che sappiamo dalla psicologia cognitiva» spiega Maria Grazia Portera. «La percezione estetica, però, è modulata dal contesto culturale di riferimento, dal livello di conoscenza, dall’esperienza e dal coinvolgimento emotivo». Quindi siamo in parte naturalmente portati a trovare più bello un animale rispetto a un altro, oltre al fatto che siamo inoltre in generale più portati a provare empatia per specie che sono più vicine a noi dal punto di vista evolutivo. Questo si traduce non solo in un maggiore interesse da parte del pubblico generico verso alcune specie con determinate caratteristiche, ma anche in uno sbilanciamento nel numero di studi dedicati a animali attraenti. Questa tendenza è stata definita “sciovinismo tassonomico”: un numero ristretto di specie fa da padrone nelle ricerche naturalistiche, incluse quelle sulla crisi della biodiversità, mentre la maggior parte dei viventi è ignorata. In parte il bias è dovuto alla necessità di avere oggetti di studio relativamente più facili da monitorare, in parte è legato a fattori socio economici: più è elevato l’interesse della società più è facile per gli scienziati reperire i fondi su un determinato tema. «C’è una differenza evidente tra farfalle e falene» afferma Dapporto. «Delle farfalle europee abbiamo da poco pubblicato l’intero DNA barcoding, abbiamo dati in abbondanza, mentre delle falene non si sa praticamente nulla. Uno dei prossimi intenti del progetto Unveil è cercare il numero di volte in cui una specie compare nelle pubblicazioni scientifiche e verificare se questo numero è correlato al punteggio estetico della specie».

D’altro canto, le campagne di conservazione fanno da sempre leva su quelle che i biologi chiamano specie bandiera, ovvero animali carismatici che fanno presa sul pubblico e che riescono quindi a sensibilizzare sui problemi naturali. Un esempio classico è mamma orsa polare col suo cucciolo che vaga su ghiacci resi sempre più sottili dall’aumento globale delle temperature. Un’analisi delle specie di mammiferi maggiormente utilizzate dalle ONG che operano in campo naturalistico per le campagne di sensibilizzazione indica una preferenza per animali di grandi dimensioni e specie dagli occhi frontali. Le specie bandiera quindi hanno un ruolo di influencer, e lo scopo di attirare l’attenzione su un problema facendo leva sull’aspetto emotivo e istintivo del pubblico. Uno dei rischi connessi è però appunto quello di concentrare attenzione, fondi e di conseguenza anche conoscenze, verso un numero molto ridotto di specie, quando ci troviamo a fare i conti con una crisi globale della biodiversità che travolge belli e brutti.

La conservazione della bellezza salverà il mondo?

«Per far fronte al disastro ecologico, abbiamo bisogno di rinnovare le categorie del nostro senso estetico perché siano veramente efficaci per fare da motore ai progetti di conservazione. Oggi ci troviamo nella necessità di rimodulare quello che ci fa definire una specie bella o brutta. I pattern di attrattività estetica più fondati dal punto di vista biologico, quelli su cui è basata la nostra percezione visiva, non bastano più. Dobbiamo quindi lavorare su un piano culturale, pensare a categorie più adatte all’estetica dell’Antropocene, per proteggere anche quello che è insolito, altro, strano» dice Maria Grazia Portera.

Visto che nell’urgenza di operare bisogna darsi delle priorità, insomma, bisognerebbe lavorare a una sorta di body positivity verso il mondo naturale, concentrarsi non solo su quello che regala un appagamento visivo o ci ispira tenerezza. Impossibile? Non necessariamente. Un’analisi recente dei contenuti dei canali Instagram dedicati alla conservazione della fauna, rivela una preferenza dei divulgatori nel postare contenuti su alcuni gruppi animali, mammiferi, uccelli e insetti, ma anche che ci sono specie che ricevono moltissimi “like” dal pubblico pur apparendo poco sui social. Un esempio è quello del polpo che ruba la scena social alla carismatica megafauna. Anche le nuove tecnologie possono rivelarsi un potente mezzo: è il caso della scimmia nasica, caratterizzata da un naso decisamente importante e buffo. Una ONG polacca ha usato dei meme divertenti per sensibilizzare sulla specie, ed è riuscita nell’intento, rendendola popolare quanto un divo come il koala, e aumentando le donazioni in favore della sua conservazione. E siccome a influenzare il senso estetico c’è anche la percezione e l’esperienza di una specie, la sensibilizzazione e l’informazione naturalistica declinata su più target e più scale restano importantissime per la rivincita dei brutti e sconosciuti. L’aye aye, è un lemure notturno di bellezza non convenzionale a rischio di estinzione a causa della perdita di habitat, ma anche di persecuzione, dato che è considerato portatore di cattivi auspici. Campagne mirate a smontare i falsi miti e a fare comprendere che la specie è invece benefica per l’agricoltura perché si nutre di insetti, sono riuscite a cambiare la reputazione dell’aye aye in molte zone del Madagascar, in cui è fattibile ora pensare alla sua conservazione.

Insomma, nulla è scontato, la biologia della conservazione è una disciplina giovane, ancor più giovane è la comunicazione della sua importanza ed è urgente cercare di dare priorità a soluzioni che arrestino la crisi della biodiversità. E se di biodiversità si parla, allora bisogna ragionare per mescolanze, approcci transdisciplinari che combinino biologia della conservazione, filosofia, sociologia e persino marketing per riuscire a orientare gli sforzi di conservazione al meglio e preservare gli ecosistemi.

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