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Il lancio del James Webb Space Telescope, un sogno che si avvera

Il giorno di Natale è finalmente iniziato il viaggio del più grande telescopio spaziale mai costruito. Un viaggio che, in circa un mese, lo porterà a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Lì, al termine della complessa fase di messa a punto e di test dei suoi strumenti, l’occhio infrarosso del JWST (James Webb Space Telescope) scruterà le profondità del Cosmo, portandoci là dove mai finora eravamo riusciti a giungere.

In copertina: immagine pittorica del JWST che riassume le principali aree di ricerca che lo vedranno impegnato per almeno una decina d’anni. Svelerà ai nostri occhi un Universo finora nascosto: le stelle avvolte da nuvole di polvere, le molecole presenti nelle atmosfere di altri mondi e la luce delle prime stelle e galassie. Crediti: ESA/ATG medialab

 

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Una storia infinita quella del James Webb Space Telescope (JWST). L’idea di questa meravigliosa macchina osservativa risale a metà degli anni Novanta, l’intento era quello di realizzare un telescopio per l’infrarosso che si affiancasse al telescopio Hubble – ormai pienamente operativo dopo l’intervento di correzione della sua vista – e ne completasse le capacità osservative. Si sarebbe chiamato NGST (Next Generation Space Telescope) e avrebbe dovuto avere uno specchio grande otto metri. Davvero una sfida tecnologica estrema e terribilmente rischiosa, però, portare in orbita un mostro di tale stazza. I piani iniziali prevedevano che il nuovo telescopio spaziale sarebbe stato operativo nei primi anni Duemila e già questo dato la dice lunga sulla tortuosa storia di questo telescopio che, nel 2002, venne dedicato a James E. Webb, l’amministratore della NASA negli anni di preparazione al grande balzo verso la Luna. Una storia complicata, fatta di ridimensionamenti del progetto, rinvii e conseguenti terrificanti lievitazioni dei costi, via via saliti dal mezzo miliardo di dollari previsti nel 1997 agli oltre nove miliardi e mezzo finali.

In Italia sono le ore 13:20 del giorno di Natale. Il vettore Ariane 5 si stacca dalla base di Kourou e dà il via all’avventura spaziale del James Webb Space Telescope. La prossimità della base di lancio all’equatore permette di sfruttare l’energia di rotazione della Terra per fornire al vettore e al suo prezioso carico una più elevata velocità iniziale. 

Il coronamento del progetto del JWST è stato possibile grazie alla stretta collaborazione tra l’Agenzia spaziale statunitense (NASA), l’Agenzia spaziale europea (ESA) e l’Agenzia spaziale canadese (CSA). Una collaborazione che ha visto lavorare al progetto migliaia di scienziati, ingegneri e tecnici provenienti da 14 Paesi e 29 Stati degli Stati Uniti. Ciascuno di loro ha dato il suo apporto per progettare, costruire, testare, integrare, lanciare e far funzionare il JWST. Improponibile elencare in questo articolo le università, gli istituti e le aziende che hanno collaborato o finanziato il progetto (chi volesse scorrere un simile elenco può comunque trovarlo a questa pagina).

In questa collaborazione l’Europa riveste un ruolo determinante, sia sul versante della strumentazione scientifica (lo spettrografo NIRSpec e una quota del 50% dello strumento MIRI), sia sul versante del lancio del telescopio, utilizzando lo spazioporto europeo di Kourou nella Guyana Francese e il potente vettore Ariane 5. Non solo la collaborazione prevede che gli scienziati europei siano rappresentati in tutti gli organi consultivi del progetto, ma che sia loro riservato un adeguato accesso all’utilizzo del JWST. In cambio dei contributi europei, infatti, viene assicurato agli astronomi degli stati membri dell’ESA l’accesso ad almeno il 15% del tempo di osservazione del telescopio.

Una macchina incredibile

Poiché, spesso, si sente parlare del JWST come del sostituto del telescopio spaziale Hubble, credo sia opportuno partire proprio dalle enormi differenze che li separano. Differenti sono, anzitutto, le caratteristiche della radiazione che essi raccolgono: mentre Hubble sta osservando principalmente a lunghezze d’onda ottiche e ultraviolette, benché abbia anche la capacità di osservare nel vicino infrarosso, Webb osserverà esclusivamente nell’infrarosso. Questo, unito alla maggiore dimensione dello specchio principale e alla elevata sensibilità della strumentazione, gli permetterà di mostrarci un Universo ancora più giovane di quanto stia facendo Hubble.

Un rapido confronto tra Webb e Hubble mette in luce le enormi differenze tra i due telescopi spaziali. Oltre alle misure dello specchio primario (diametro di 2,4 metri per Hubble e di 6,5 metri per Webb), è importante notare dove operano i due osservatori. I 570 km di quota cui opera Hubble sono un’inezia se paragonati al milione e mezzo di chilometri ai quali si troverà il JWST. Crediti: ESA

Senza dubbio, il punto di forza più appariscente del JWST è lo specchio, una struttura del diametro complessivo di 6,5 metri composta da 18 pannelli esagonali. Ciascun pannello, realizzato in berillio e ricoperto da un sottilissimo strato d’oro che ne garantisce un’estrema riflettività, pesa una ventina di chili. A questo peso, però, si deve aggiungere quello dei sei attuatori che, fissati sulla parte posteriore di ciascun pannello, garantiscono il suo perfetto allineamento con tutti gli altri, condizione indispensabile perché la messa a fuoco sia ottimale. Un problema ingegneristico davvero complesso se pensiamo che la precisione richiesta per l’allineamento di ogni specchio è di 1/10.000 dello spessore di un capello umano. La precisione nell’allineamento dei 18 segmenti li porta a lavorare come una superficie unica di circa 26 metri quadrati, circa sei volte maggiore di quella di cui dispone Hubble. Se, da un lato, la scelta di uno specchio segmentato presenta i problemi di collimazione appena illustrati, dall’altro offre la possibilità di poter contenere la struttura nel vano di carico di un vettore spaziale. Quando il telescopio viene lanciato, infatti, i tre pannelli laterali di destra e di sinistra sono ripiegati e solamente una dozzina di giorni dopo il lancio vengono dislocati nella posizione corretta. Solo allora si potrà cominciare a lavorare di fino sulla configurazione e regolazione dello specchio.

L’immagine, scattata nel maggio 2017, mostra lo specchio del JWST nella camera sterile in cui è stato assemblato. Sono le fasi preparatorie del test che si svolgerà all’interno della gigantesca camera criogenica che si trova al Johnson Space Center della NASA. Lì verrà portato alle tipiche condizioni di freddo e vuoto dello spazio che caratterizzeranno la sua normale situazione di lavoro. Crediti: NASA/Desiree Stover

Per poter osservare nell’infrarosso, cioè raccogliere quella radiazione che possiamo associare alla radiazione termica, è indispensabile che la struttura e gli strumenti di raccolta abbiano la temperatura più bassa possibile. Inoltre, solo una temperatura costante è in grado di evitare espansioni e contrazioni dei materiali che, seppur minuscole, potrebbero compromettere il delicato allineamento delle ottiche. Questo significa che il JWST deve essere protetto in modo stabile ed efficace da ogni fonte di radiazione esterna, principalmente da quella solare. Si tratta di un compito delicato e fondamentale, dalla cui riuscita dipende il funzionamento ottimale del telescopio.

A dare la giusta protezione ci pensa lo scudo in dotazione al JWST. Grande quando un campo da tennis, questa struttura è composta da cinque sottili strati di Kapton E, una pellicola plastica sviluppata dalla DuPont in grado di mantenersi stabile entro un'ampia gamma di temperature. Ciascuno strato è inoltre rivestito di alluminio e la parte rivolta verso il Sole dei due più esterni è rivestita anche di silicio appositamente trattato per riflettere il calore nello spazio. Al momento del lancio anche questa struttura è impacchettata e verrà dispiegata e portata nella corretta posizione nel corso della prima settimana di volo del JWST.

Un’ultima grande differenza rispetto a Hubble è la destinazione finale di Webb, posta a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra, destinazione che raggiungerà circa un mese dopo il lancio. Diversamente da Hubble, il JWST non orbiterà intorno al nostro pianeta, ma si librerà intorno al cosiddetto secondo punto di Lagrange, uno dei cinque punti notevoli nell’interazione gravitazionale fra tre corpi calcolati nel 1772 dal matematico di origine italiana Joseph-Louis Lagrange. A differenza di quanto più volte è avvenuto per il telescopio Hubble, tale posizione rende di fatto impraticabile una qualsiasi missione di manutenzione per il JWST. Le manovre necessarie a mantenere correttamente l’orbita in L2 richiedono che il JWST impieghi del carburante e proprio il consumo del carburante determinerà la lunghezza della vita operativa del telescopio. Nel progetto si ipotizza una durata della missione non inferiore a 5 anni e mezzo, ma l’obiettivo è quello di raggiungere (e superare) i 10 anni.

Il ruolo dell’Italia

Notevole e altamente qualificata la partecipazione del nostro Paese al progetto JWST. Volendo sintetizzarla con un arido dato quantitativo, basti evidenziare come nelle osservazioni scientifiche selezionate per il primo anno di attività le ricercatrici e i ricercatori italiani disporranno di oltre 1500 ore di tempo osservativo. Utilizzando un altro dato numerico per condensare la qualità di tale partecipazione, sottolineiamo come alla guida di un terzo delle proposte osservative di JWST, selezionate lo scorso aprile, vi sono ricercatrici e ricercatori di paesi membri dell'ESA e, tra esse, nove hanno un Principal Investigator che lavora in Italia. Sette di loro sono in forza all'INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) e utilizzeranno le potenzialità del nuovo telescopio per studiare gli oggetti attualmente più misteriosi e problematici dell’Universo. Studieranno le nane brune (oggetti celesti a metà strada tra un pianeta e una stella), la nascita di stelle in ambienti “estremi”, l'origine dei potenti getti di materia che si innescano durante la formazione stellare, la formazione delle galassie più massicce dell'Universo e la loro evoluzione, il ruolo che rivestono i buchi neri supermassicci nell'evoluzione di una galassia e la prima generazione di stelle che si è accesa nel Cosmo.

Molto significative le parole con cui Marco Tavani, presidente dell’INAF, ha commentato lo storico lancio del JWST: «Il telescopio James Webb è l'osservatorio spaziale più potente mai costruito e sono estremamente felice per il lancio di oggi, un traguardo cruciale atteso con enorme trepidazione dall'intera comunità astronomica mondiale. Questo telescopio è frutto della collaborazione tra la Nasa, l'Agenzia spaziale europea e quella canadese, segno che i grandi progetti di questo tipo richiedono più attori internazionali per realizzarsi pienamente. INAF è in prima linea per lo sfruttamento scientifico di Webb. Diversi gruppi guidati da ricercatrici e ricercatori dell'INAF avranno infatti accesso ai dati di Webb già durante il primo anno di osservazioni. Ci aspettiamo che l’interesse nella nostra comunità aumenti negli anni a venire e si concretizzi in studi di grande importanza anche sfruttando in parallelo dati da altri telescopi da terra e dallo spazio a noi accessibili. Abbiamo inoltre oggi un motivo speciale per essere orgogliosi in Italia. Il grande specchio di Webb, il più grande mai lanciato nello spazio, è formato da 18 segmenti esagonali. Questa configurazione di un grande telescopio a specchio segmentato è stata concepita e utilizzata per la prima volta dall'astronomo italiano Guido Horn d’Arturo quasi un secolo fa ed è oggi applicata in diversi telescopi. Un segno di come la tradizione astronomica italiana, da Galileo ai nostri tempi, apporti un contributo di innovazione fondamentale al mondo intero per lo studio del nostro Universo».

Per dare ancor di più la misura del ruolo del nostro Paese nella scienza che sarà alimentata dai dati del JWST, aggiungiamo che, oltre ai sette programmi con Principal Investigator dell’INAF cui si accennava pocanzi, l’Istituto Nazionale di Astrofisica vede il coinvolgimento di numerosi suoi ricercatori in oltre 40 programmi. Tra di essi figurano anche 4 dei 7 programmi cosiddetti “large”, che si sono aggiudicati tra le 100 e le 200 ore di osservazione ciascuno per studiare galassie vicine, lontane e lontanissime e comprendere la loro evoluzione attraverso le ere cosmiche. Una presenza in prima linea, insomma, massiccia e altamente qualificata che certamente darà i suoi frutti.

 


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