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Inquinamento da "pillola"

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Lo potremmo definire “inquinamento da pillola”. Sì, ci riferiamo proprio a lei, la “pillola anticoncezionale” che, negli ultimi cinquant’anni, ha modificato i costumi sessuali e, dunque, di vita di centinaia di milioni di persone, rendendo possibile la dissociazione tra sessualità e riproduzione. In questo momento almeno 100 milioni di donne in tutto il mondo stanno usando la pillola. Il problema è che il farmaco contiene etinil estradiolo (EE2), una sostanza che riversata nelle acque di rifiuto, scivola nei fiumi e nei laghi, si diffonde nell’ambiente e, anche in tracce, mette a rischio l’esistenza stessa di intere popolazioni di animali.

Una ricerca pubblicata nel 2007 sui Proceedings of National Academy of Science (PNAS) degli Stati Uniti ha mostrato come, introdotto in un lago del Canada in ragione di appena 5 parti su trilione (ovvero 5 parti su 1.000 miliardi), l’EE2 ha determinato l’estinzione di una specie di pesci attaccando e distruggendo sistematicamente le uova nel ventre delle madri incinte. Ora il dibattito sul rischio ambientale da EE2 sta determinando quattro ordini di problemi a carattere generale che ci interessano tutti da vicino. Sulla base delle evidenze ecologiche la Commissione Europea ha deciso di intervenire, regolando la presenza nell’ambiente dell’EE2. La norma, contenuta nella Direttiva Quadro sull’Acqua emanata lo scorso mese di gennaio, prevede che entro il 2021 la concentrazione in acqua di EE2 non dovrà superare le 0,035 parti su trilione (35 parti su milione di miliardi).

La semplice emanazione della Direttiva fa emergere i primi tre ordini di problemi. Il primo è squisitamente tecnico e, almeno in apparenza, è il meno ostico da risolvere. Rilevare una concentrazione di una sostanza chimica in tracce fuori da un laboratorio, ma in tutti gli acquedotti, i fiumi, i laghi è impresa tecnica niente affatto banale. Che richiederà uno sforzo notevole nell’ambito dell’analisi chimica ambientale. A questo bisogna aggiungere il sistema di depurazione, che a tutt’oggi può contare su un’unica soluzione: l’uso di carbone attivo granulare. Il secondo problema è di natura giuridica e sociale. È la prima volta, infatti, che si chiede il controllo nell’ambiente di un farmaco. Il precedente è notevole: potrebbe portare all’intero ripensamento del ciclo dei farmaci. Ovvero a considerare nel rapporto costo/benefici di una sostanza terapeutica anche gli effetti ambientali. Terzo ordine di problemi: i costi. È stato calcolato che per assicurare l’applicazione della norma, nell’area che comprende l’Inghilterra e il Galles occorrerebbe investire  almeno 30 miliardi di euro. Una città di 250.000 abitanti, sostengono su Nature Richard Owen, della University of Exeter Business School, e Susan Jobling, dell’Institute for the Environment della Brunel University di Uxbridge, dovrebbe investire inizialmente 8 milioni di euro e aggiungere ogni anno 800.000 euro per la gestione dell’apparato di filtro e controllo. L’applicazione della norma porterebbe a un significativo aumento della bolletta dell’acqua.

Ne vale la pena? E, soprattutto – ecco il quarto ordine di problemi – chi deve decidere? Lo scorso 24 aprile il Parlamento Europeo ha convocato in riunione  i rappresentanti di governi, industrie farmaceutiche e gruppi ambientalisti per decidere quali sostanze da tenere sotto controllo debbano entrare nella lista delle “priorità”. Richard Owen e Susan Jobling sostengono che qui c’è un lack di cittadinanza scientifica. Una deroga al principio che la stessa Unione Europea si è data in materia ambientale: la partecipazione dei cittadini. L’intera popolazione europea dovrebbe essere informata e messa nelle condizioni di decidere. Perché gli ordini di problemi sollevati innervano in maniera molto fitta e danno corpo al concetto di democrazia in quella che Ulrich Beck ha definito la “società del rischio”.


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