fbpx Indagini prenatali: più se ne sa, meno se ne fanno | Scienza in rete

Indagini prenatali: più se ne sa, meno se ne fanno

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

Per molto tempo amniocentesi e villocentesi sono stati gli unici esami possibili per saperne di più su eventuali malattie di un bambino in arrivo: esami invasivi che danno informazioni precise sui cromosomi fetali, ma comportano un (piccolo) rischio di aborto. Poi sono arrivati i test di screening, come il bitest combinato: più sicuri, ma anche meno accurati, perché danno solo stime di rischio.
E ora il mondo dei test non invasivi si è arricchito delle nuove indagini che si possono eseguire a partire da un prelievo di sangue materno. Anche in questo caso nessun pericolo, ma risultati limitati a poche condizioni (per lo più la sindrome di Down) e ancora non definitivi, anche se sempre più precisi.

Insomma, le opportunità per le future mamme si moltiplicano. Del resto, chi non vorrebbe sapere il più possibile della salute del proprio bambino?
Chi, avendo a disposizione tutti questi test, sceglierebbe invece di non far nulla? Ebbene, qualcuno c'è, a giudicare dai risultati di uno studio americano pubblicato di recente su Jama, Journal of American Medical Association.
Risultati secondo i quali le donne più informate su vantaggi e svantaggi dei vari test prenatali e alle quali è stato consentito di chiarirsi bene le idee sulle proprie convinzioni più profonde rispetto a queste indagini sono meno propense a eseguirle. Anche se sono offerte gratuitamente.
I ricercatori hanno suddiviso in due gruppi 710 donne incinte (tutte entro le 20 settimane di gravidanza) afferenti ad alcuni centri di assistenza prenatale nella zona della baia di San Francisco.
Una metà ha seguito il percorso standard di assistenza, comprensivo di una minima consulenza sulla diagnosi prenatale basata in genere sull'età materna. L'altra metà invece un intervento specifico che prevedeva l'interazione con un software informativo in grado di accompagnare le donne nella decisione di eseguire o meno un esame prenatale, oltre a un sostegno economico nel caso in cui decidessero di farlo.

La "guida informatica" offriva informazioni dettagliate su vantaggi e svantaggi di ciascun test (esclusi i test su sangue materno, non ancora disponibili durante lo studio), oltre che sulle principali sindromi cromosomiche (trisomia 21, 13 e 18). Inoltre, permetteva di soffermarsi su valori e orientamenti personali rispetto all'esito dei test e sull'importanza di parlarne liberamente con il proprio medico.
Al termine della sessione informativa, della durata di circa un'ora, il software offriva infine un'indicazione sull'opportunità o meno di eseguire un test prenatale e sul tipo di test da preferire. È emerso chiaramente che le donne del "gruppo di intervento" - quelle che avevano interagito con il software - erano meno propense a eseguire test prenatali in generale (il 25,6% ha scelto di non farli, contro il 20,4% del gruppo di controllo) e test invasivi in particolare (solo il 5,9% si è sottoposto ad amnio o villocentesi, contro il 12,3%).
A dimostrazione che non è affatto vero che, quando si tratta di informazioni sul feto, per la mamma "più è sempre meglio". Il nocciolo della questione è che molto spesso le indagini prenatali vengono vissute come una routine, se non addirittura un obbligo. «Incontro molte donne con più di 35 anni che si sentono in dovere di fare amniocentesi o villocentesi, magari soltanto perché “lo fanno tutte"» racconta Faustina Lalatta, responsabile dell’Unità operativa di genetica medica del Policlinico di Milano.

E con l'avvento delle indagini non invasive, la pressione è ancora maggiore. In fin dei conti non ci sono pericoli per il feto: perché allora non approfondire le conoscenze sul rischio di malattie genetiche? Il punto è che non stiamo parlando di un esame di routine, ma di indagini molto diverse tra loro, che aprono mondi differenti.
Alcuni, come l'analisi cromosomica classica fatta con amnio e villocentesi (il cosiddetto cariotipo), possono dare certezze diagnostiche. Altri danno solo stime di rischio.
Altri ancora, come la nuova analisi microarray, da eseguire sempre dopo amnio o villocentesi, possono portare a risultati dal significato clinico incerto o sconosciuto.
«La donna dovrebbe avere ben chiare queste differenze» prosegue la genetista. «Non solo: dovrebbe chiedersi esattamente che cosa si aspetta da un test prenatale - se un orientamento generale sul rischio o delle certezze - e che cosa pensa di fare in caso di diagnosi o di sospetto di malattia».
Insomma, in gioco non c'è solo la faccenda dell'età materna: ci sono valori, preferenze, convinzioni, paure, emozioni e il dialogo con gli operatori sanitari dovrebbe far emergere tutto questo. Anche se non sempre accade. «Spesso si dà per scontato che se il bitest ha dato un esito non proprio brillante o la donna ha più di 35 anni, sia lei stessa a volere indagini più approfondite, ma non è detto che sia così» sostiene Lalatta. «Ci sono donne che non desiderano saperne di più e noi dovremmo trovarle e assecondarle, specialmente se ragioniamo in un'ottica di medicina personalizzata».

Lo studio su Jama dimostra che la tecnologia e i supporti informatici possono dare una mano in questo senso, ma è innegabile che tutto ciò richieda tempo e risorse, che effettivamente scarseggiano. «Però non dobbiamo nasconderci dietro questo limiti. Possiamo fare di più» conclude Lalatta. «Per esempio, nel caso di centri privati, fondi pubblici e accreditamenti andrebbero vincolati alla presenza di una figura di riferimento per la consulenza e l'informazione, che si tratti di un genetista o di un'ostetrica formata da hoc, come accade nel Regno Unito.
E ancora, i mezzi di comunicazione dovrebbero aiutare a far crescere la consapevolezza su questi temi. E anche le donne potrebbero fare di più, per esempio usando il periodo preconcezionale per informarsi. Se il programma di un figlio c'è, ma è rimandato al futuro, perché non arrivarci preparate?».

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Fibrosi cistica: una persona su trenta è portatore sano. E non lo sa.

Immagine tratta dalla campagna "Uno su trenta e non lo sai" sul test del portatore sano della fibrosi cistica: persone viste dall'alto camminano su una strada, una ha un ombrello colorato

La fibrosi cistica è una malattia grave, legata a una mutazione genetica recessiva. Se è presente su una sola copia del gene interessato non dà problemi. Se però entrambi i genitori sono portatori sani del gene mutato, possono passare le due copie al figlio o alla figlia, che in questo caso svilupperà la malattia. In Italia sono circa due milioni i portatori sani di fibrosi cistica, nella quasi totalità dei casi senza saperlo. La Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica sta conducendo una campagna informativa sul test del portatore sano, che consente ai futuri genitori di acquistare consapevolezza del proprio stato.

Se due genitori con gli occhi scuri hanno entrambi un gene degli occhi chiari nel proprio patrimonio genetico, c’è una probabilità su quattro che lo passino entrambi a un figlio e abbiano così discendenza con gli occhi chiari. Questo è un fatto abbastanza noto, che si studia a scuola a proposito dei caratteri recessivi e dominanti, e che fa sperare a molti genitori con gli occhi scuri, ma nonni o bisnonni con gli occhi celesti, di ritrovare nei pargoli l’azzurro degli occhi degli antenati.