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La frode di Piltdown

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Il saggio “La cospirazione di Piltdown” si inserisce nella cronologia gouldiana che ho delineato sopra nel paragrafo “Collegialità e multicontestualità della scienza”.
Ecco, qui, la cronologia
di quella vicenda (Fig. 6), considerata un enigma storico, ma soprattutto la più grande frode della paleontoloantropologia o anche della scienza di tutti i tempi:


  • 1908: Charles Dawson, avvocato e archeologo dilettante del Sussex, setaccia una cava di ghiaia e trova frammenti di ossa consunte e profondamente colorate (segno che erano nella ghiaia da molte migliaia di anni);
  • 1912: Dawson porta frammenti di un cranio dalle fattezze decisamente moderne ad Arthur Smith Woodward, direttore della sezione zoologica del British Museum; tornano diverse volte sul posto con Teilhard de Chardin che studiava in un collegio di quella zona; Dawson trova una mandibola, anch’essa colorata, dall’aspetto scimmiesco ma con una consumazione del molari simile a quella umana, rotta nei due punti in cui si sarebbe potuta stabilire la connessione con il cranio che avevano già; associati anche manufatti (selci e ossa lavorate) e fossili di mammiferi;

  • presentazione alla British Society of Geology, reazioni diverse ma sospetto che fossero resti di due diversi esseri, finiti per qualche motivo naturale assieme nella cava;

  • 1913: Teilhard rinviene un canino inferiore, indizio molto importante;

  • 1915: Dawson convince quasi tutti critici con due frammenti di ossa ispessite, e di un ulteriore dente scimmiesco consumato come quelli umani;

  • trent’anni in cui “l’uomo di Piltdown occupò un posto scomodo ma riconosciuto nella preistoria umana” (PILT2, p. 101)

  • 1949: Kenneth P. Oakley (personaggio importante del saggio vincitore PILT80) applica il “test della fluorina” e trovandone troppo poca nei resti di Piltdown stabilisce sepoltura recente, senza ancora sospettare frode

  • Oakley, Weiner, Le Gros Clark stabiliscono colorazione artificiale, falsità degli artefatti (con lame moderne), provenienza aliena dei fossili, limatura artificiale dei denti. 

Gould dedicò almeno tre saggi a Piltdown (PILT79, PILT80 e PILT83). Essi hanno però focus leggermente diversi, che possiamo distinguere attraverso la metafora del doppio “velo di trame” che si frappone tra noi e la natura, il velo del “ordine umano”:

in questa vicenda l’ordine umano opera a due livelli: la commedia della frode e la più sottile ma ineluttabile imposizione della teoria sulla natura. In qualche modo, non mi dispiace che l’ordine umano debba velare la nostra interazione con l’universo perché un tale velo è trasparente, anche se di trama fitta (PILT79, p. 110).

Vediamo qui quello che definirei un “ottimismo critico” di Gould nei confronti della nostra capacità di conoscere la natura: possiamo conoscere soltanto attraverso il velo delle nostre idee e azioni, ma alla fine questo velo è trasparente, consente di raggiungere la realtà.

Il velo della scienza

Nel saggio scelto dai nostri lettori (PILT80) Gould si occuperà maggiormente del primo livello, quello della frode: di ricostruire cioè le trame che hanno portato alla contraffazione del reperto, nell’interazione tra Dawson, Teilhard de Chardin, Woodward e altri. Anche nel saggio più vecchio (PILT79) Gould accenna a diverse ipotesi in merito, propendendo per quella della burla organizzata da Dawson e andata troppo oltre, con la complicità di Teilhard.
Ma il focus principale di questo saggio è il secondo velo, quello delle idee sull’evoluzione umana, che hanno agito nel periodo 1915-1949 facendo sì che la comunità scientifica
credesse all’uomo di Piltdown:

...come è possibile che ci sia stato qualcuno che ha creduto all’uomo di Piltdown? Si trattava di una creatura improbabile fin dall’inizio.13 Come mai si accettò tra i nostri antenati un uomo dotato di un cranio moderno e di una mascella non modificata di scimmia antropomorfa? (PILT79, p. 105, corsivo mio). 

Prima dunque di commentare l’ipotesi de “La congiura di Piltdown” è il caso di soffermarsi sui “quattro ordini di ragioni” con cui Gould risponde a questa domanda, anche perché esse chiariscono la posizione di quel fossile falso nel panorama dell’evoluzione umana che fa da cornice in quegli anni:

  1.  Le grandi speranze si impongono sulle prove: l’uomo di Piltdown rispondeva all’aspirazione dei paleoantropologi inglesi che in quegli anni mancavano di testimonianze dei loro più antichi progenitori. L’uomo di Piltdown, che sembrava precedere di molto il Neanderthal,14 era anche una rivalsa tutta inglese verso i francesi: il nostro vero antenato, che relegava Neanderthal a ramo collaterale.

  2. I giudizi di valore hanno ripercussioni sulla teoria: il giudizio di valore sulla “supremazia del cervello” veniva proiettato come aspettativa sui fossili, ci si aspettava che l’espansione del cervello avesse preceduto ogni altro cambiamento importante; questa tuttavia – nota Gould – è una falsa deduzione dalla importanza contemporanea alla priorità storica.15 Inoltre, sulla base di un modello multiregionale “a candelabro” dell’evoluzione umana oggi ampiamente superato, Piltdown sembrava giustificare la superiorità della razza bianca: esso appariva infatti molto più moderno, “completamente umano” dei suoi contemporanei cinesi Homo erectus dal cervello piccolo.

  3. Le aspettative portano gli scienziati a modificare i fatti: in fondo “nessuno si sognava una così completa indipendenza” tra le parti (p. 108), che permettesse a un nostro antenato di avere un cranio completamente umano e una mascella completamente scimmiesca. Così, per rendere accettabile la coesistenza di quel cranio e di quella mascella nello stesso individuo, i paleoantropologi svolsero osservazioni che tendevano a riconoscere caratteri scimmieschi nel cranio che oggi sappiamo umano, e caratteri umani (in aggiunta alla consunzione artificiale) nella mascella.

  4. Le procedure della comunità scientifica possono ostacolare la scoperta: coerentemente con l’uso del British museum a quel tempo, l’accesso ai reperti originali era rigidamente limitato (manipolazione soltanto di calchi di gesso), e soltanto esaminando gli originali la frode poteva essere scoperta.

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Il velo della frode, la figura di Teilhard, lo stile di Gould

Veniamo ora al saggio vincitore (PILT80). Come ho già detto, si tratta di un saggio dedicato all’indagine sulla frode (il “primo velo”). La tesi di Gould è quella di una congiura, iniziata come una burla inscenata da Dawson con la complicità di Teilhard, e andata troppo in là. Nonostante in un altro saggio Gould dichiari di non credere nello stile del giallo,16 la strategia argomentativa qui è proprio quella dell’indagine giudiziaria, con un atto di accusa iniziale e la paziente raccolta di prove, molte circostaziali e altre – quelle che Gould ritiene decisive – osservazioni dirette sulle lettere scritte da Teilhard che contengono incongruenze con i fatti “ufficiali”. Il saggio vincitore e anche la “risposta ai critici” sono lunghi e dettagliati. Non posso riassumerli e sarebbe noioso. Gould resta convinto della sua tesi anche senza poter portare prove definitive. Vorrei soltanto soffermarmi sulla motivazione delle reazioni critiche, che forse – ipotizzo, basandomi sulla mia esperienza – è anche la motivazione della qualificazione di “La cospirazione di Piltdown” nella top five da parte dei lettori di Pikaia. Teilhard è un mito, un gesuita scienziato e riconosciuto dalla comunità scientifica come tale, ma anche un teologo, grande pensatore che cercò una via per conciliare l’evoluzione con il cristianesimo, reinterpretando quest’ultimo in modo che fu pesantemente osteggiato dalla Chiesa ufficiale.

Verso la fine degli anni cinquanta e negli anni sessanta Teilhard era una figura di culto su scala internazionale. Oggi il suo astro è meno brillante, dato che la volubilità detta legge in questioni di moda; un gruppo di devoti agita però ancora la sua bandiera, sempre pronto a controbattere con la più grande animosità ogni insinuazione che possa gettare qualche ombra sul comportamento di Teilhard, facendo pensare che possa essere stato meno degno (o più umano) della nozione più rarefatta di santità eterea (PILT83, p. 229).

Dimostrare il coinvolgimento di Teilhard in una frode, insomma, sembra poterlo compromettere complessivamente come figura, con ripercussioni fatali sulle sue particolari convinzioni teologiche, nonché, più in generale, sul tentativo stesso di trovare vie di coesistenza tra fede e scienza. Questa penso possa essere una delle motivazioni di molte delle lettere ricevute da Gould ma, sospetto, anche almeno una delle ragioni del grande favore goduto da questo saggio nel nostro sondaggio, senza nulla togliere al suo valore di stile e di contenuto. Ma queste reazioni – tanto di orrore quanto di entusiasmo – sono fedeli alle intenzioni di Gould? Sicuramente lo sarebbero se stessimo parlando di un autore come Richard Dawkins. La posizione di Gould nella “battaglia” tra fede e scienza fu sempre pacifista, e se forse non sono possibili contenuti neutri e disinteressati (perché anche la conciliazione è una posizione), almeno i toni lo sono:

PILT80: Io penso che Teilhard abbia sofferto per Piltdown per tutta la vita. Penso che debba aver pianto nel suo intimo quando vedeva persone come Smith Woodward [...] rendersi ridicoli: proprio gli uomini che gli avevano concesso la loro amicizia e che gli avevano insegnato tante cose [...]. Teilhard pagò il suo debito e visse una vita piena; potessimo noi tutti farlo altrettanto bene (p. 228).

PILT84: Nulla che io possa dire potrà attenuare la loro aggressività, ma mi sia lecito ripetere: sincero dinanzi a Dio, io non ho alcuna intenzione di distruggere Teilhard. Penso che egli sia stato un uomo complesso e affascinante, molto più interessante nella sua realtà di essere umano che non in quella forma di immagine sacra nella quale è venerato dai suoi devoti. Inoltre, anche se ovviamente non spetta a me dirlo, io in realtà gli perdono se ha fatto ciò che sospetto. Era giovane; non agì per profitto, né monetario né personale; soffrì; mantenne una lealtà costante e ammirevole nei confronti di tutte le persone implicate; e non mendicò scuse. Dopo essermi così alleggerito, procederò, nel formulare questa replica, ignorando la maggior parte dei commenti personali e oltraggiosi rivolti contro di me. Mi asterrò anche dal commentare il numero maggiore delle lettere di appoggio e di amicizia, limitandomi a dire: “Molte grazie per aver capito quello che volevo fare” (p. 230).

Vi è ancora molto da leggere e da imparare da Stephen Jay Gould, dai suoi pensieri e dal suo stile, e spero sinceramente che questo piccolo tributo possa contribuire a motivare qualcuno a conoscerlo, oppure a conoscerlo meglio, e a coltivare anche in Italia l’opera di questo grande autore. 


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