fbpx Farmaci oncologici innovativi, ma deludenti | Scienza in rete

Farmaci oncologici innovativi, ma deludenti

Primary tabs

Read time: 11 mins

Farmaci. Credit: Ulleo / Pixinio. Licenza: Dominio pubblico (CC0).

La valutazione a distanza dei risultati della terapia oncologica è materia rara. Ordinare con sapienza i criteri che contribuiscono a comporla, definirne il peso relativo nel bilancio finale di efficacia dei farmaci non è una pratica di ricerca propriamente invitante: le difficoltà si rivelano rapidamente tali da suggerire l’abbandono dell’impresa.

Il primo approccio sistematico al problema è stato pubblicato online gli ultimi giorni del 2016. Salas-Vega e colleghi1 hanno valutato gli effetti terapeutici comparati di tutti i nuovi i farmaci oncologici approvati negli Stati Uniti e in Europa, dalla FDA (Food and Drug Administration) e dall’EMA (European Medicines Agency), nel decennio 2003-2013 utilizzando in modo integrato le valutazioni di Health Technology Assessment di tre agenzie nazionali, l'inglese NICE (National Institute for Health and Care Excellence), la francese HAS (Haute Autoritè de Santè) e l'australiana PBAC (Pharmaceutical Benefits Advisory Committee). Gli outcome misurati erano: sopravvivenza, qualità della vita e sicurezza. 

I risultati

I farmaci antitumorali considerati erano 53. Il primo dato generale è che essi hanno contribuito in misura molto diversa a determinare la migliore sopravvivenza: 23 su 53 (ovvero il 43%) vi hanno contribuito nell’aumentarla di 3 mesi e oltre; 6 su 53 (ovvero l’11%) vi hanno contribuito per meno di 3 mesi; di 8 su 53 (ovvero del 15%) il contribuito era indeterminabile; 16 su 53 (ovvero il 30%) non avevano dimostrato alcuna prova di efficacia. Se si prendono in esame gli effetti dei nuovi farmaci sui 3 singoli end point, si trovano informazioni inattese: a) sopravvivenza. Rispetto ai trattamenti in atto sino al 2003, l’impiego dei nuovi farmaci oncologici ha prodotto, in 10 anni, un aumento medio totale della sopravvivenza di 3,43 mesi, con risultati molto diversi per i tumori dei singoli organi2; b) qualità della vita: 22 su 53 nuovi farmaci (42%) erano associati con un aumento della qualità della vita ma solo per 17 su 22 il giudizio derivava da strumenti validati, per gli altri 5 il giudizio era basato su testimonianze dei pazienti o di clinici esperti; c) sicurezza: solo 8 dei 53 farmaci (15%) miglioravano la sicurezza, mentre 24 (45%) risultavano peggiorarla (pur su disaccordo tra valutatori inglesi e australiani).3

Incrociando i risultati dei farmaci sui 3 criteri di outcome, gli autori arrivano a una prima conclusione generale e cioè che 42 dei 53 nuovi farmaci (il 79%) mostravano qualche evidenza di beneficio o su sopravvivenza, o su qualità della vita o su sicurezza. Questa conclusione ha anche avuto un feedback positivo sugli autori da parte di 2 esperti della FDA e sembra indicare che l'innovazione nel mercato dei farmaci oncologici porti valore al paziente e alla società. Una rilettura critica, come in controluce, degli stessi dati fa però loro rilevare, ancora conclusivamente, che 1 su 3 farmaci approvati (il 30%) non ha alcun beneficio sulla sopravvivenza e che 1 su 5 (il 20%) non migliora né la qualità della vita né la sicurezza. Se alcuni farmaci hanno dunque buone ragioni per motivare spese ingenti e in continua crescita, per altri il beneficio per la salute sembra scarso o inesistente.

Quanto all'osservazione che i benefici sono concentrati in particolari classi di farmaci, si tiene conto che al 2013 erano usati solo 10 farmaci genericamente “immunologici”, la maggior parte ad azione targeting sulle cellule neoplastiche, e che questi aumentavano la sopravvivenza rispetto ai non immunologici (5,7 mesi versus 2,3 mesi), bevacizumab a parte. Soprattutto è rilevante che all’epoca era in uso solo uno dei farmaci di terapia immunitaria propriamente detta, cioè dei modulatori del check point immunitario (anti PD-1, anti PDL-1), l’ipilimumab, che peraltro dimostrava un miglioramento di sopravvivenza marginale (5,7 mesi).

I limiti dello studio

Lo studio, molto complesso, presenta limiti, in parte inevitabili. Ogni singola grande agenzia ha dovuto mettere insieme già nel suo proprio contesto anche input di dati non validati, o confronti con farmaci non specifici o vecchi, che riflettevano comunque la pratica del tempo. A questo si aggiunga che, per i farmaci che sono stati valutati da tutte tre le agenzie, esisteva spesso disaccordo tra i regolatori, in specie circa i benefici legati all’aumento della sopravvivenza; vi erano soprattutto contrasti tra le valutazioni inglese e australiane: gli inglesi sono più propensi ad attribuire benefici dei miglioramenti della sopravvivenza, al contrario degli australiani. L’accordo tra loro diminuisce a misura che il livello dei benefici cresce. Per misurare l’accordo tra le agenzie gli autori hanno utilizzato il (a me ignoto) coefficiente di Krippendorff4 che è risultato di un valore (0,39) considerato da basso a moderato. Questo indice aumentava quando dal computo venivano tolte le valutazioni inglesi. È facile osservare che il disaccordo tra agenzie non può essere attribuito a un problema di diversa “regionalità” culturale, come può accadere ad esempio per la riclassificazione della terapia antibiotica5: i tre paesi da cui derivano i dati hanno un livello socioeconomico e organizzativo quasi del tutto sovrapponibile.

Un paio di domande scomode

In ogni modo, si tratta di dati che meritano un commento anche da qualcuno “laterale” al mondo oncologico. E questa conclusione - pur considerando i limiti del metodo utilizato - non può non essere che di sconforto. Se ricordiamo che il guadagno medio totale di sopravvivenza è stato di 3,43 mesi in 10 anni (anni peraltro fertilissimi per la ricerca oncologica) o che il 30% dei farmaci non ha alcun effetto sulla sopravvivenza e che 1 farmaco su 5 non agisce neppure su qualità della vita e sicurezza, non si può non essere per lo meno perplessi. Così, viene da porsi qualche domanda.

La prima è: come è stato possibile che siano entrati in una pratica terapeutica delicata come quella oncologica 16 farmaci, il 30% dei 53, che alla fine sono risultati privi di qualsiasi efficacia? La seconda domanda è: come mai un lavoro di sintesi sistematica dei risultati a distanza dell’uso di nuovi farmaci oncologici non ha avuto risonanza e sollevato dibattito, nel mondo oncologico e fuori, nella comunità civile?

Perché sono stati approvati 16 farmaci inefficaci?

La risposta alla prima domanda solleva il tema non nuovo delle registrazioni accelerate. Sul campo oncologico, come in qualche altro ambito medico di particolare rilevanza epidemiologica e gravità clinica, si esercitano pressioni sociali di peso ed estrazione diversa: la speranza dei pazienti soprattutto, l’angoscia dei familiari che interrogano, la spinta degli sperimentatori cui preme di non essere esclusi dalla risonanza di un potenziale risultato di prestigio. E ancora, l’impegno degli accademici e dell’editoria, quello più discreto dei responsabili amministrativi della sanità, sempre sfiorati dal sospetto, come “politici”, di un sostanziale disinteresse per il bene dei cittadini, la leva dei produttori infine cui sta a cuore, e non solo, il rientro dagli oneri della sperimentazione clinica. Si tratta di ragioni con una loro legittimità, spesso generose quando non primarie e assillanti, ma che finiscono per incidere sulla “terzietà” con cui le autorità regolatorie dovrebbero gestire questi temi.

Vi è anche una risposta più tecnica. Nei trial da cui sono stati ricavati questi risultati vengono per così dire trascinati anche pazienti affetti da neoplasie la cui caratterizzazione genomica è così definita da farli sfuggire all’azione di farmaci che, come i 53 indicati, sono stati pensati “genericamente” per agire su una data neoplasia d’organo e che su questa sono stati testati. Questo è anche il motivo per cui i risultati della stessa targeted therapy non sono diversi da quelli ottenuti con terapia convenzionale6; essa fallisce l’obiettivo distintivo perché i farmaci non sono abbastanza mirati.7 Per non dire poi dei tumori rari, che risultano irraggiungibili dalle comuni terapie oncologiche. Per questi tumori si prospetta ormai di fare non più studi di controllo randomizzati generalisti ma trial su singoli gruppi di pazienti con storia naturale ben definita e con specifica caratterizzazione genomica, condivisa da neoplasie anatomicamente e istologicamente molto distanti.8

Quella dell’approccio trans-tumorale (nei “basket trial”) è tra l’altro l’ultima strada concettuale con cui, nella pur breve storia della terapia delle neoplasie, vengono “scelti” (e poi classificati e storicizzati) i diversi bersagli della cosiddetta precision oncology.9

Una terza risposta al quesito iniziale riguarda i risultati, contraddittori o irrilevanti, ottenuti con i farmaci oncologici sulla qualità della vita. Una spiegazione possibile è che nei dieci anni prima del 2013 non era ancora invalsa la pratica dei Patient Reported Outcomes (PRO), cioè di un metodo standardizzato per misurare il punto di vista dei pazienti sul loro stato di salute.10 Prima di allora, i disegni dei protocolli di registrazione e dei trial, anche oncologici, non prevedevano di esplorare a fondo le opinioni e l’interesse del paziente; questo ha reso la rilevazione dei dati sulla qualità di vita dei pazienti indiretta e fragile. 

Perché il silenzio su risultati così deludenti?

Una seconda domanda infine, umana questa, meno impellente, che ci si può porre è ancora un “come mai”. Perché quello che, a detta degli autori, è il primo studio di sintesi sistematica dei risultati a distanza dell’uso di nuovi farmaci oncologici, ricavato dall’assemblaggio del lavoro, che si immagina faticoso, delle tre tra le più agguerrite agenzie di Health Technology Assessment di Regno Unito, Francia, Australia, non ha avuto risonanza e sollevato dibattito, nel mondo oncologico e fuori, in quello dei regolatori o dei farmacologi clinici o, e soprattutto, nella sensibilità pubblica della comunità dei malati e delle loro famiglie? Perché il silenzio su un dato tanto importante? Le risposte sono imbarazzanti. Esse rimandano in parte alle risapute citate pressioni sociali ma il quesito resta in larga misura aperto. Forse perché non tutte le risposte potrebbero essere ugualmente nobili.

La versione orignale di questo articolo, con il titolo di: "Dieci anni di farmaci oncologici: un bilancio non esaltante", è apparsa sulla rivista Informazioni sui farmaci, 2018, 1:22-24

Note
1 Salas-Vega S. et al., "Assessment of overall survival, quality of life, and safety benefits associated with new cancer medicines", JAMA Oncol 2017; 3: 382-390. doi: 10.1001/jamaoncol.2016.4166.
2 Il guadagno di sopravvivenza prodotto nei tumori dei singoli organi i risultati sono: 0 (zero) mesi per tiroide e carcinosi peritoneali ascitogene; 2,09 mesi per il cancro del polmone; 2,61 mesi per le neoplasie ematologiche globalmente considerate; 2,90 mesi per i tumori di stomaco-intestino; 3,17 mesi per il cancro prostatico; 4,65 mesi per i tumori della cute; 6,27 mesi per quelli del rene e, massimo risultato raggiunto, 8,43 mesi per il tumore della mammella.
3 Il beneficio clinico della terapia sui tre criteri indicati era, come prevedibile, dissociato. Per esempio, dei 23 (sui 53) che aumentano la sopravvivenza di almeno 3 mesi, 15 (65%) migliorano anche la qualità della vita mentre gli altri 8 (35%) non la influenzano. Solo 5 dei 23 “buoni” (22%) migliorano la sicurezza, 11 (48%) la riducono, 5 (22%) hanno prove contrastanti, 2 (9%) non la modificano.
4 Krippendorff K., Content analysis: an introduction to its methodology, Second Edition. SAGE Publications; Thousand Oaks, CA. 2004.
5 Sharland M. et al., Magrini N., on behalf of the 21 st WHO Expert Committee on selection and use of Essential Medicines Classifying antibiotics in the WHO Essential Medicines List for optimal use – be AwaRe, Lancet ID 2018;18: 18-20.
Le Tourneau C. et al., "Molecular targeted therapy based on tumoral molecular profiling versus conventional therapy foradvanced cancer (SHIVA): a multicentre open-label, proof-ofconcept randomised, controlled phase 3 trial", Lancet Oncol 2015; 16: 1324-44.
7 Portioli I., "Nominalism in Medicine: the case of personalized medicine or precision medicine", Ital J Med 2017; 11: 417-423.
8 In uno studio trans-tumorale non comparativo, su 12 diversi istotipi tumorali (ghiandole salivari, sarcomi delle parti molli, fibrosarcomi infantili, tumori di tiroide, colon, polmone, mammella, pancreas, appendice, colangiocarcinoma) che hanno in comune una sola mutazione, la 17TRK fusione-positiva, un inibitore altamente selettivo di TRK, il larotrectinib ha ottenuto percentuali di risposte dell’80% (75% di queste mantenute a 1 anno). La pur bassa incidenza di questi segmenti genomici rende i (classici) trial randomizzati una sfida. Si veda: Andrè F., "Developing anticancer drugs in orphan molecular entities", N Engl J Med 2018; 378: 763-765. Drilon A. et al., "Efficacy of Larotrectinib in TRK fusion-positive cancers in adults and children", N Engl J Med 2018; 378: 731-739.
9 Se uno va a cercare su Google Scholar l’uso del termine precision oncology trova che indica nel tempo concetti e atti clinici diversi (Prasad V et al., "What precisely is precision medicine and will it work?", TheASCOPost, 25 January 2017. Disponibile al link). All’inizio esso descrive le targeted therapies come quella contro il VEGF (bevacizumab) o il BCR ABL (imatinib); in un secondo tempo la scelta delle terapie è basata sui dati di biomarcatori (per esempio il panel di test genomici come Oncotype Dx per decidere se fare o no la terapia adiuvante nel cancro della mammella). Il più recente è l’uso dei dati derivati dalla Next Generation Sequencing, che permette di testare con un solo prelievo un grande numero di alterazioni genomiche, come guida per la cura; l’ultima scelta è quella di orientare la terapia, indipendentemente dall’organo e dal tipo di cancro, sulle mutazioni, per cui, già nella pratica clinica “normale”, pazienti con malattie tra loro molto lontane, per esempio leucemia mieloide acuta e cancro della mammella, ma che condividono la mutazione BRAF V600E sono trattate allo stesso modo (Gilbert A et al., "Use of patient-reported outcomes to measure symptoms and health related quality of life in the clinic", Gynecol Oncol 2015; 136: 429-39). Curiosamente, si potrebbe osservare che, in punto di teoria, l’approccio trans-tumorale è anche al fondo dell’impiego dei farmaci che modulano il check point immunitario, ripristinando la risposta immunologica al tumore. Questa lunga parentesi per dire che i risultati deludenti riportati nel decennio 2003-2013 hanno anche un'interpretazione in quella che oggi possiamo leggere, ma solo a posteriori, come una debolezza metodologica dell’approccio.
10 I Patient Reported Outcomes (PRO) sono oggi parte centrale nella valutazione della qualità della vita (Perlis N et al., "The bladder utility symptom scale (BUSS): a novel patient-reported outcome instrument in bladder cancer", J Urol 2018; piiS0022-5347(18)42498-6. doi: 10.1016/j. Juro.2018.03.006). Sono anche qualcosa di più se si considera che l’aver integrato la raccolta routinaria e il feedback dei pazienti ha molto migliorato il livello delle loro cure e questo non solo a livello individuale, nel senso della risultata migliore comunicazione, ma anche a livello organizzativo, con la possibilità di aggregare dati e di confrontare performance di cura (Calvert M et al., "Guidelines for inclusion of Patient-reported outcomes in clinical trials protocols. The SPIRIT-PRO extension", JAMA 2018; 319: 483-494). Anche qui, per migliorare la condivisione, resta però ancora molto da fare. Nel raccomandare l’inclusione dei PRO nei protocolli dei trial resta per esempio da definire quali outcome considerare e quanti (ben 16 sono dichiarati “specifici” nel progetto EQUATOR) (Van Der Wees PJ et al., "Integrating the use of patient reported outcomes for both clinical practice and performancesmeasurement: views of experts from 3 countries", Milbank Q. 2014; 92: 754-75) e soprattutto come arrivare finalmente a “promuoverli” a outcome primari e non solo satelliti negli studi controllati.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: