fbpx Correva l'anno 1997. Un'analisi dello stato della ricerca in Italia. Che cosa è cambiato? | Scienza in rete

Correva l'anno 1997. Un'analisi dello stato della ricerca in Italia. Che cosa è cambiato?

Primary tabs

Read time: 7 mins

Correva il governo Prodi, quando al congresso del PDS del 1997 il vicepresidente del consiglio Walter Veltroni si apprestava a prendere la parola per una difesa dell’Ulivo. Lo stesso giorno il fisico Giorgio Parisi consegnava al partito un’analisi dello stato della ricerca in Italia, per buona parte ancora valida. Purtroppo. La ripubblichiamo qui di seguito (ndr).

Sono grato dell’occasione che ho di parlare qui, perché vorrei proporvi delle osservazioni concrete che sono condivise da molti di quelli che come me lavorano nel campo della ricerca scientifica.

Ricerca, finanziamenti e nomine politiche

Il compito della sinistra, una volta al governo, è quello di sfruttare al massimo le potenzialità del paese. La ricerca scientifica, l’Università, la scuola, la cultura sono campi in cui c’è una forte tradizione, ma molte di queste risorse non sono sufficientemente sfruttate.

In molti casi i finanziamenti non sono sufficienti, è triste e noioso ripeterlo ogni volta, ma la quantità di risorse dedicate alla ricerca in Italia è circa la metà (in percentuale) di quella degli altri paesi industrializzati. Lo stato di abbandono delle biblioteche e dei laboratori nella maggior parte delle scuole medie (inferiori e superiori) è sfortunatamente noto a tutti. Tuttavia ci sono altri ostacoli che dovrebbero essere rimossi che non richiedono un impegno soltanto finanziario.

Uno dei mali più gravi che affligge la ricerca italiana è che la dirigenza  di molti enti è stata scelta con criteri di appartenenza partitica. Molto spesso si formano cordate di personaggi di dubbia capacità scientifica o manageriale, che, appoggiandosi a partiti o sindacati, riescono a controllare la direzione degli Enti. Presidenti di enti nominati per meriti partitici devono ricambiare i favori ricevuti con nomine clientelari e così via si continua verso il basso per via gerarchica. Certo a nessuno viene proibito di lavorare, ma non posso dimenticarmi nemmeno quella ricercatrice dell’ENEA, il cui superiore diretto gli consigliò qualche anno fa: “Dottoressa, ma perché perde tempo a fare ricerca, pensi piuttosto alla sua carriera, stringendo le giuste alleanze.” In fondo il capo aveva ragione: la ricercatrice ha continuato a far bene il suo mestiere, ma di carriera ne ha fatto ben poca.

Tutto ciò deve finire e il governo dovrebbe per primo dare il buon esempio. Sfortunatamente le prime nomine in ambito scientifico hanno lasciato perplessi. Aspettiamo di vedere che cosa succederà all’Istituto Superiore di Sanità e al CNR per giudicare.

Cambiare come funzionano gli enti di ricerca

Per cambiare sul serio non basta però nominare un presidente capace. Intervenire seriamente nell’organizzazione degli enti di ricerca solleverà resistenze accanite. La buona volontà non basta. I regolamenti e le strutture degli enti di ricerca debbono cambiare. Non è un caso che l’ente di ricerca, che a detta di molti funziona meglio, l’INFN, ha i direttori dei singoli laboratori eletti dai ricercatori e tecnici; il presidente dell’ente è eletto da un consiglio direttivo formato dai direttori dei laboratori e da alcuni rappresentanti del governo. Democratizzare l’organiz­zazione degli enti di ricerca può essere un primo passo.

È inoltre assolutamente necessario disporre di criteri oggettivi per poter giudicare il grado di funzionamento delle varie strutture. Esiste un metodo semplice seguito in molti paesi, ma qui in Italia quasi completamente sconosciuto, quello dei comitati di valutazione. Conosco bene come funziona in quanto ho fatto parte di comitati di valutazione di alcuni laboratori esteri. Un certo numero di esperti, anche stranieri, visita il laboratorio per qualche giorno, sente alcune relazioni, parla (anche a quattr’occhi) con i ricercatori, discute con il direttore e alla fine stila un rapporto pubblico su quello che ha visto o sentito. Questo viene fatto non solo per i singoli laboratori ma anche per quanto riguarda grandi strutture tipo enti di ricerca.

Sapere, al di là delle apparenze, quali sono le strutture realmente funzionanti e quali quelle in decadenza non risolve il problema, ma è un punto di partenza per poter intervenire. Il governo ha tutti gli strumenti per farlo: proceda rapidamente consultandosi però con quelli che fanno veramente ricerca oggi, non con quelli che fanno finta di farla, l’hanno fatta venti anni fa o non l’hanno mai fatta.

La selezione dei docenti universitari: non basta riformare i concorsi

La selezione dei nuovi professori universitari è un problema molto delicato; accade sempre più spesso che i vincitori dei concorsi non siano scelti in base alle loro capacità, ma secondo amicizie o parentele con personaggi accademicamente potenti. In questo modo le potenzialità delle nuove generazioni sono umiliate. Discutere a fondo come eliminare questo malcostume porterebbe via molto tempo. Mi limiterò soltanto a dire che un intervento solo su i meccanismi dei concorsi avrebbe probabilmente un effetto limitato: fatta la legge, trovato l’inganno. È necessario piuttosto far in modo che sia convenienza dei singoli professori avere colleghi i più capaci possibili. Un meccanismo potrebbe essere legare i finanzia­menti ai dipartimenti ad una verifica non formale della qualità. Certo è che la situazione non cambierà se i commissari dei concorsi universitari continueranno a sentirsi onnipotenti e non dovranno rispondere delle loro scelte al resto della comunità scientifica.

Per una valutazione della didattica che consulti gli studenti

Anche la didattica nella scuola (università compresa) è un punto dolente. Molti di noi si ricordano professori eccellenti, che si dedicavano con grande passione all’insegnamento e professori invece che cercavano di lavorare il meno possibile. Non solo tutte e due le categorie sono pagate ugualmente, ma addirittura non esiste nessun criterio di valutazione attendibile del vero valore  didattico. E non può esistere un tale criterio finché gli studenti saranno muti e non verranno consultati. In altri paesi è una procedura standard alla fine dell’anno far riempire agli studenti questionari sui corsi, chiedendone i pregi e i difetti e far assegnare punteggi differenziali per i vari parametri (per esempio: chiarezza didattica, interesse della materia, possibilità di avere spiegazioni). I risultati dei questionari sono pubblici. In altri paesi, per esempio in Svezia, ci sono comitati di valutazione didattica che stilano la loro relazione basandosi su interviste fatte ad alcuni studenti, il cui nome non viene rivelato.

Così si dà un meritato riconoscimento pubblico agli insegnanti che si dedicano al loro lavoro e si stimola l’amor proprio degli altri insegnanti. Bisogna anche dire che spesso gli insegnanti davvero non si rendono conto dei loro difetti. L’anno scorso nel mio corso di laurea è stato distribuito agli studenti un questionario da riempire e restituire anonimo: mi sono reso conto che le mie lezioni avevano difetti che non mi sarei mai aspettato, per esempio ero lento e ripetitivo sui passaggi facili e invece andavo come un razzo sui passaggi difficili. Sapere l’effetto che fai agli altri è sempre una cosa utile.

"Pubblico" non vuol dire "scadente"

Tutto ciò può sembrare un dettaglio, ma in realtà ha un significato politico molto profondo. Uno dei punti fermi che a mio avviso separa la sinistra dalla destra è la convinzione che lo stato deve essere in grado di erogare servizi di buona qualità a tutti i cittadini, in maniera di garantire un minimo livello per tutti. Lo stato sociale oggi è sotto attacco e non è difficile capire il motivo: se si guarda alla qualità del servizio erogato in molti ospedali pubblici, viene la voglia di pensare che i soldi dati allo stato per questo scopo sarebbero stati investiti molto meglio nel privato. La sinistra può vincere la sua battaglia solo se dimostra che i servizi pubblici a tutti i livelli possono essere gestiti con la stessa efficacia di quelli privati e che la parola “pubblico” non è il sinonimo di “scadente”. Per ottenere questo risultato è necessario che i cittadini percepiscano concretamente che le strutture pubbliche sono al loro servizio, che la loro opinione su quello che funziona e su quello che quello che va cambiato è importante, conta nel processo decisionale, (mentre finora hanno precisamente la senzazione contraria). Non bisogna mai dimenticare che gli utenti sono i più qualificati per osservare i disservizi e proporre cambiamenti.

Trasparenza e accesso dei cittadini ai dati riservati

La trasparenza, l’accesso del pubblico a dati attualmente riservati può avere grandi effetti benefici. Fatemi fare l’esempio di un episodio avvenuto pochi anni fa nello stato di New York. Dopo grandi esitazioni e accanite resistenze si è deciso di rendere pubblici i dati di tutti gli ospedali sulle operazioni al cuore per ciascuna categoria, tentativi, successi e fallimenti. È stato un piccolo terremoto; è risultato che alcuni ospedali avevano un tasso di mortalità, sullo stesso tipo di operazioni, fino a tre volte superiore a quella dei migliori ospedali. Paradossalmente l’utilità maggiore non è stata tanta per i pazienti, che potevano in questo modo scegliere l’ospedale migliore, ma per i dirigenti degli ospedali peggiori che confrontando i loro dati con quelli degli ospedali migliori hanno dovuto prendere atto della situazione disastrata. Il risultato è stato che gli ospedali peggiori hanno radicalmente cambiato la loro organizzazione interna, hanno selezionato i chirurghi, e il tasso di mortalità è decisamente diminuito.

Passare da uno stato che controlla il cittadino ad un cittadino che giudica e valuta lo stato non è un’operazione indolore. Le resistenze sono tante e non è facile vincerle mediate un decreto. Bisogna cambiare mentalità: l’azione del partito, con la sua diffusione capillare, è indispensabile per vincere questa battaglia.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Intelligenza artificiale ed educazione: la ricerca di un incontro

Formazione ed educazione devono oggi fare i conti con l'IA, soprattutto con le intelligenze artificiali generative, algoritmi in grado di creare autonomamente testi, immagini e suoni, le cui implicazioni per la didattica sono immense. Ne parliamo con Paolo Bonafede, ricercatore in filosofia dell’educazione presso l’Università di Trento.

Crediti immagine: Kenny Eliason/Unsplash

Se ne parla forse troppo poco, almeno rispetto ad altri ambiti applicativi dell’intelligenza artificiale. Eppure, quello del rapporto fra AI ed educazione è forse il tema più trasversale all’intera società: non solo nell’apprendimento scolastico ma in ogni ambito, la formazione delle persone deve fare i conti con le possibilità aperte dall’IA.