COP25 sembra sostanzialmente fallita sul piano delle decisioni poltiche. Alcune parole d’ordine degli eventi paralleli che avrebbero potuto influire sullo stile della politica non sono filtrate a livello delle negoziazioni: elevare il livello di ambizione; affrontare il problema con flessibilità, capacità di risposta e senso di responsibilità; coniugare innovazione tecnologica e “advocacy” (impegno). Hanno prevalso gli egoismi nazionali secondo il classico scenario della "tragedy of the commons", la tragedia dei beni comuni che sembrano non appartenere a nessuno. Immagine: cancello della IFEMA conventions center, Madrid, Spain, sede della COP25. December 2, 2019. [Photo/Agencies]
Il Pianeta mi ricorda un malato grave che viene affidato da un ottimo diagnosta a un’equipe di chirurghi litigiosi, invidiosi e pasticcioni. COP25 sembra sostanzialmente fallita sul piano delle decisioni poltiche, con la notevole eccezione del Green Deal di Ursula von der Leyen e di Frans Timmermans, che però è esterno e indipendente dalla negoziazione. A COP25 si sono intrecciati (anche con qualche confusione) diversi piani: quello ufficiale delle negoziazioni politiche; quello degli eventi paralleli (la maggior parte: tavole rotonde, seminari e dibattiti); e infine quello dei movimenti dal basso, che andavano dalle piccole isole a rischio di sparizione, ai piccoli Stati sul fronte della crisi ambientale, fino ai movimenti giovanili come Fridays for Future. Questa ricchezza di elaborazioni necessiterebbe di una sintesi politica, che non c’è stata se non da parte della Comunità Europea, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle Nazioni Unite (in particolare il suo programma ambientale UNEP). La strada verso Glasgow (COP26, Novembre 2020) è molto in salita. Alcune parole d’ordine degli eventi paralleli che avrebbero potuto influire sullo stile della politica non sono filtrate a livello delle negoziazioni: elevare il livello di ambizione; affrontare il problema con flessibilità, capacità di risposta e senso di responsibilità; coniugare innovazione tecnologica e “advocacy” (impegno). Hanno prevalso gli egoismi nazionali secondo il classico scenario della tragedy of the commons, la tragedia dei beni comuni che sembrano non appartenere a nessuno.
Ma volendo mettere le cose in ordine conviene partire dai fatti, innegabili.
L’Emissions Gap Report delle Nazioni Unite
L’Emissions Gap Report di UNEP è sicuramente uno dei documenti più importanti usciti nel 2019. Secondo il rapporto, se una seria azione di mitigazione del cambiamento climatico fosse iniziata nel 2010, i tagli di gas serra richiesti per rispettare gli obiettivi di Parigi (un aumento di temperatura inferiore a 2 gradi e possibilmente vicino a 1,5 gradi) sarebbero stati pari al 3,3% per anno (per l’obiettivo di 1,5 gradi) e 0,7% per anno (per quello di 2 gradi). Ma poiché questo non è avvenuto, ora i tagli delle emissioni devono essere di 7,6% e 2,7%, rispettivamente. Obiettivi che sono divenuti estremamente ambiziosi e destinati a peggiorare se prevale la paralisi o l’azione viene rimandata. Gli scienziati di UNEP sostengono che decarbonizzare l’economia richiede cambiamenti strutturali sostanziali e drammatici, che comportano però anche dei co-benefici e richiedono un supporto globale.
UNEP fissa obiettivi per diverse aree del mondo, inclusa l’Europa:
- adottare una regolamentazione EU per rallentare gli investimenti in infrastrutture basate sui combustibili fossili;
- stabilire obiettivi molto chiari per il taglio alle emissioni;
- garantire la produzione del 100% di energia elettrica “carbon-free” entro il 2040;
- chiudere le centrali a carbone; avviarsi verso una completa conversione dei mezzi di trasporto verso motori a zero emissioni;
- promuovere i trasporti pubblici;
- altre misure altrettanto drastiche.
Il punto di vista di UNEP è sostanzialmente che non possiamo fare a meno dell’economia circolare.
A che cosa è dovuto il grave e crescente gap tra gli obiettivi e la loro realizzazione? Secondo UNEP (ma in realtà secondo tutti gli osservatori) è legato soprattutto al ritardo negli NDC, i “nationally determined contributions”. Siamo arrivati al punto in cui è necessario uno sforzo 3-5 volte maggiore di quanto previsto negli anni passati per realizzare gli obiettivi, e questo è dovuto largamente al fatto che molti paesi non rispettano gli NDC. Per esempio, solamente 2 paesi del G20 hanno una legge sul cambiamento climatico (l’Inghilterra ce l’ha dal 2008).
Gli eventi collaterali e i co-benefici
Nella molteplicità di tavole rotonde e dibattiti che si sono svolti a Madrid, sono stati riscoperti a distanza di decenni concetti urbanistici come le “new towns” inglesi, proposte negli anni ’46-’60 e successivamente ignorate dai politici (se non con qualche esperimento isolato in Inghilterra), cioè aggregati urbani densi (contro l’urban sprawl), a emissioni zero e autosufficienti. Questa nuova pianificazione urbana va sotto il capitolo dei co-benefici: città compatte e energeticamente neutre danno infatti origine a benefici molteplici, sul piano della mitigazione del cambiamento climatico, su quello del paesaggio (come ci ha spesso ricordato Salvatore Settis) e su quello della salute, poiché questo modello di città facilita gli spostamenti a piedi e in bicicletta e pertanto promuove l’esercizio fisico e previene l’obesità e le malattie ad essa collegate.
In effetti l’impatto sulla salute ha attratto molta attenzione durante la COP25 e sarà uno dei temi principali a Glasgow. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha partecipato in modo incisivo al Climate and Health Summit ospitato a Madrid, dove è anche stato presentato Lancet Countdown, il numero speciale della rivista dedicato all’impatto sanitario del cambiamento climatico e ai co-benefici (vedi "Lancet countdown: prognosi riservata per clima e salute globale", Scienza in rete 21 novembre 2019). Ci sono numerosi esempi di co-benefici che rendono la mitigazione del cambiamento climatico politicamente più attraente (se i politici lo capissero). Diversi esempi di co-benefici sono stati portati dalla delegazione inglese del Grantham Institute, compreso chi scrive: eliminare le centrali a carbone avrebbe benefici per la salute dei lavoratori e dei cittadini (l’inquinamento da carbone è particolarmente nocivo) oltre che ridurre sostanzialmente le emissioni di gas serra; ridurre i consumi di carne e promuovere una dieta più vegetariana porterebbe a una considerevole riduzione di gas serra e al tempo stesso migliorerebbe lo stato di salute dei cittadini; e abbiamo già visto l’importanza della pianificazione urbana.
Esperienze modello ed esempi negativi
Vi sono molti casi di iniziative esemplari, e ne cito qui solamente alcuni. Un paese povero come la Costa d’Avorio ha un piano articolato in 16 misure per mitigare le emissioni. Le città di Espoo e Turku in Finlandia si definiscono città a economia circolare, e Turku in particolare sarà la prima ad essere “climate positive, waste-free, carbon-free” entro pochi anni. La Norvegia: nonostante i notevoli profitti provenienti dal petrolio (gestiti dallo stato in un fondo sovrano) sta virando verso le energie rinnovabili e l’economia circolare. La stessa Inghilterra ha ridotto lo spreco di cibo del 25% negli ultimi anni, e in giorni ventosi produce il 40% dell’energia con l’eolico (18% in media). Esiste una rete coordinata tra Danimarca, Germania e altri paesi del Nord per sfruttare e condividere l’energia prodotta dall’eolico.
Ma ci sono anche tanti esempi negativi. Prima di tutto gli Stati che oggi si oppongono a un accordo efficace (Brasile, USA, Australia, Cina, India), sulla base di interessi nazionali. La Cina è un caso particolare di dissociazione, perché da un lato ha dato origine a un enorme incremento nell’uso del carbone negli ultimi 20 anni; dall’altro è stata molto attiva nella promozione delle ultime COP e nell’investire nelle energie rinnovabili (nelle quali vede anche opportunità commerciali). Alcuni paesi praticano politiche di sviluppo del tutto antitetiche rispetto alle necessita di devoluzione: per esempio, l’Arabia Saudita sta pianificando una città nel deserto con una superficie 33 volte più grande di quella di New York, dotata di pioggia artificiale, una luna finta e totalmente robotizzata ("Les nouvelles Babylones, des villes idéales surtout pour les riches et les investisseurs", Le Monde 14 dicembre 2019). Russia e Turchia sono i paesi più lontani dagli obiettivi degli NDC. Un battuta sentita in una tavola rotonda: se chiedi ai russi “che cosa è successo delle scorie industriali?” la risposta è inevitabilmente: “sono scomparse”.
Cosa dice il Green Deal
Il Green Deal della Commissione Europea origina direttamente dalle drammatiche previsioni di UNEP riassunte sopra, secondo cui ci stiamo avviando verso i 3,2 gradi di aumento alla fine del secolo, un valore sostanzialmente incompatibile con la civiltà come la conosciamo oggi. Il Green Deal di von der Leyen e Timmermans aumenta il livello di ambizione rispetto a Parigi, fissando al 55% (non piu 40%) la riduzione delle emissioni da realizzare entro il 2030, e la neutralità delle emissioni entro il 2050 - in linea con le raccomandazioni di UNEP. Il pacchetto include una revisione delle norme di emissione per gli autoveicoli, lo sviluppo della rete ferroviaria europea (per consentire di percorrere il continente in treno anziché in aereo, contrariamente alla battaglia di retroguardia dei nostri no-TAV), lo sviluppo dei veicoli elettrici, e inoltre interventi sull’alimentazione e sull’agricoltura. Fin qui 73 paesi, 14 regioni e 398 città si sono impegnate a perseguire questi obiettivi. Ma il piano della UE non uscirà fino all’estate del 2020.
Insomma, come è stato fatto notare, i soli segnali forti al momento vengono dal Segretario della Commissione Europea, dai giovani e dai piccoli paesi che sono i più minacciati. I grandi paesi emettitori di CO2 (i paesi del G20 sono responsabili dell’80% delle emissioni) tendono a sfuggire all’appello.
Il fallimento del politico come grande mediatore
Il nodo è come finanziare la transizione, che sarà difficile e dolorosa, secondo Timmermans. Per esempio, i paesi del gruppo di Visegrad fanno resistenza al cambiamento a causa della proposta di bandire le centrali a carbone. La discussione verte su quella che è chiamata la “tassonomia”, e che indica due esigenze, quella di basare le decisioni su valutazioni oggettive sui meriti e demeriti delle diverse tecnologie (e sul loro contributo quantitativo al cambiamento climatico e alla sua mitigazione), e quella di trovare “metriche” condivise (per esempio, quanto vale il fatto di piantare degli alberi rispetto a ridurre l’uso del carbone?). Anche la logica dei sussidi invocata per esempio dalla Polonia, che richiede un supplemento di fondi per gestire il problema del carbone, per quanto giusta alla luce di un principio di solidarietà (come invocato da Timmermans), si presta a malintesi e abusi.
I movimenti dal basso hanno avuto il grandissimo merito di porre il problema nella sua drammaticità e di far ascoltare la voce degli scienziati. Ora toccherebbe alla politica trasformare le pressanti richieste di giovani e scienziati (e tecnocrati, pianificatori, ecc) in solide e rapide decisioni secondo i principi enunciati sopra (ambizione, flessibilità, capacità di risposta e senso di responsabilità). La politica continua a rispondere con premesse sbagliate, cioè la mediazione tra i diversi interessi, spesso secondo la logica del più forte. Far prevalere gli interessi nazionali o locali e non rendersi conto della posta in gioco, che richiede responsabilità collettiva, sembra il gioco preferito dei politici, con l’eccezione della Commissione Europea. Il tipico e tradizionale ruolo del politico come “mediatore di istanze”, il cui riflesso pavloviano è prima di tutto “consultare le parti” - prima di studiare approfonditamente il problema -, non può più funzionare. La Brexit e i localismi populistici non aiutano, e così non aiuta l’incapacità di cogliere l’importanza della politica dei co-benefici. Per esempio, difendere il Made in Italy nella produzione di prosciutti e salami non è certo una strategia lungimirante (si veda "Nutri-Score: perché non dobbiamo averne paura", Scienza in rete 13 dicembre 2019).
Una nota finale di elogio per la Spagna: in meno di un mese hanno creato un evento di dimensioni ragguardevoli, che si è svolto ordinatamente e con grande efficienza. Il detto che circolava era: “se la Spagna ce l’ha fatta in tre settimane, risolveremo il cambiamento climatico”. Speriamo che sia vero.