La posizione della storica Lucetta Scaraffia, che sull'Osservatore romano la scorsa estate metteva in dubbio “che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona piu'”, sembrava isolata anche all'interno della Chiesa cattolica. Ora però l'organizzazione a Roma di un convegno dal titolo “La morte cerebrale è ancora vita?” sembra indicare un nuovo possibile fronte di scontro sul confine della vita. E questa volta, con la definizione di morte cerebrale, potrebbe entrare in discussione l'intera attività dei trapianti d'organo.
E' più che mai importante, allora, avere chiaro quale sia il ruolo della scienza in questo ambito. Non si può, infatti, mettersi a discettare se un singolo essere umano sia morto o meno, con tutte le conseguenze etiche, sociali, e individuali che ha, senza un’adeguata riflessione su cosa significhi definire ‘morte’. Se questo non si dà, come spesso non si dà in questo genere di dibattiti , il giusto diritto che tutti hanno di parlare (quello che gli antichi greci chiamavano isegoria) diventa l’ingiusto arrogarsi un inesistente diritto di parlare a vanvera (un parlare che, sempre gli antichi greci, chiamavano parresia).
Proviamo a indicare, dunque, come potrebbe essere possibile impostare correttamente la questione. In primo luogo vi è da rendersi conto che una cosa è una definizione di ‘morte’, un’altra è un criterio di morte e una terza ancora sono i test per vedere se il criterio di morte è soddisfatto.
Sembra che ogni volta che abbiamo una definizione, abbiamo pure un criterio (ossia ciò grazie cui possiamo decidere quando quella definizione è applicabile). In realtà, non è sempre così. Inoltre, un criterio, se è ben costruito, comporta, specie nel caso come il nostro in cui abbiamo a che fare con un concetto empirico quale quello di ‘morte’, un test (o una serie di test) attraverso cui stabilire se il criterio è empiricamente soddisfatto.
Ma oltre a questa distinzione, ve n’è una seconda parimenti importante e parimenti trascurata. Una cosa è una definizione biologica di ‘morte’, un’altra cosa è una definizione clinica di ‘morte’. La prima è di completa pertinenza della scienza, la seconda è una faccenda culturale legata a convenzioni e ad accordi raggiunti all’interno di una certa comunità, anche se tali convenzioni e accordi dovrebbero essere basati su una profonda competenza medico-clinica.
Non mi dilungo qui ad argomentarla (si veda la bibliografia), ma la più immediata definizione biologica di morte riguarda la cessazione in ogni tessuto delle funzioni vitali, ossia dei processi metabolici. Tuttavia per fini sociali e medici (pensiamo ai trapianti) non consideriamo mai morto un essere umano quando sono cessati in tutti i suoi tessuti i processi metabolici. In realtà, e qui andiamo verso la definizione di morte clinica, si considera (e questa è una mossa culturale basata sul sapere medico-clinico) che un essere umano è clinicamente morto se la sua condizione fisiologica, caratterizzata dalla cessazione delle funzioni vitali in un particolare tessuto/organo, è irreversibilmente seguita dalla completa morte biologica.
Il problema di questa definizione sta ovviamente nell’identificare quale sia quel tessuto da considerarsi come parametro. E qui entra in gioco la scelta culturale, dal momento che abbiamo molti possibili criteri per la morte clinica. Per esempio, abbiamo 1) il criterio cardiopolmonare; 2) il criterio corticale; 3) il criterio del tronco encefalico; 4) il criterio dell’intero cervello. Criteri diversi enfatizzanti tessuti diversi in cui le funzioni vitali sono cessate.
Ogni criterio è giustificabile con argomenti precisi, siano essi argomenti empirici basati sulla biomedicina siano essi argomenti etici, ma la scelta di quale sia il criterio da adottarsi non è affatto una scelta scientifica, quanto una scelta culturale. Qui, e questo è bene capirlo, la scienza non può nulla. Ossia la scienza non può dirimere la questione anche se i differenti criteri dovrebbero essere scientificamente ben fondati e se la scelta dovrebbe essere basata anche su argomenti di tipo scientifico. Ma quale sia il criterio da adottarsi è una scelta culturale in senso lato: una scelta di valore.
Tuttavia, la scienza rientra completamente in gioco quando, una volta che la data comunità ha scelto il criterio da adottare, c’è il problema di implementarlo, ossia quando occorre individuare quali siano i test, basati sulla migliore conoscenza scientifica che quella comunità ha, sufficienti per renderlo effettivo. Ripeto: la scelta operata da una data comunità del criterio di morte clinica è totalmente culturale, anche se dovrebbe essere operata sulla base di competenze medico-cliniche.
Talvolta accade che in certe comunità sia il legislatore a scegliere il criterio. Ma questo è un serio segno di mancanza di reale democrazia: il legislatore non dovrebbe mai scegliere prima che i componenti di quella comunità abbiano espresso il loro parere. E qui vi è un’altra fonte di confusione: troppe volte si confonde ‘norma etica’ e ‘norma legale’: si può avere una norma legale non etica e una norma etica non legale. Tuttavia, in una comunità democraticamente evoluta la seconda dovrebbe seguire la prima e non viceversa: la legge dovrebbe fondarsi sulla morale pubblica (ossia sulla morale che esce da un dibattito ben fatto di etica pubblica) e non la morale pubblica seguire la legge.
Sfortunatamente, nei pessimi dibattiti cui siamo abituati, tutto va nel peggiore dei modi possibili: c’è confusione fra definizioni, criteri e test; c’è confusione fra morte biologica e morte clinica; c’è confusione fra ruolo della scienza e ruolo della scelta culturale collettiva; c’è confusione fra morale e legge. Come se non bastasse, c’è un’enorme confusione fra morale legata a una particolare espressione religiosa e morale a-confessionale, dimenticando che la morale pubblica deve essere totalmente diversa dalla morale indicata da una qualche religione (a meno di non avere una comunità teocratica).
Certo si potrebbe sperare che in futuro qualcuno riesca a tener conto di tutto ciò e così a reintrodurre queste differenze anche in Italia, per avere pure da noi un buon standard di discussione. Ma dubito che ci si riesca. Qui tutti vogliono parlare, ma pochi sanno ascoltare, pochi addurre ragioni (ragioni!) e pochi concedere che la ragione (ragione!) del proprio opponente possa essere migliore della propria.
Bibliografia
- G. Boniolo, ‘Death and Transplantation: Let’s Try To Get Things Methodologically Straight’, Bioethics, 21(2007), pp. 32–40.
- G. Boniolo, P.P. Di Fiore, ‘A Defining Analysis of the Life and Death Dyad: Paving the Way for an Ethical Debate’, Journal of Medicine and Philosophy, 33(2008), pp. 609-634.
- G. Boniolo, S. Giaimo (a cura di), Filosofia e scienze della vita. Un’analisi dei fondamenti della biologia e della biomedicina, Bruno Mondadori, Milano 2008, cap. 14.