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Biodiversità urbana: com'è cambiata e come proteggerla

Tempo di lettura: 9 mins

Anche le metropoli possono essere ambienti ricchi di specie: secondo un recente studio sono ben 51 le specie di mammiferi che vivono a Roma, alcune di esse sono specie rare e protette. Nel corso degli ultimi due secoli, però, molte specie sono scomparse, in particolare quelle legate alle zone umide, stagni, laghetti e paludi, habitat importantissimi per la biodiversità e altamente minacciati.

Nella foto: Parco degli Acquedotti, Roma. Crediti: Maurizio.sap5/Wikimedia Commons. Licenza: CC 4.0 DEED

Circa la metà della popolazione mondiale, vale a dire ben 4 miliardi di persone, oggi vive nelle città, un fenomeno che è andato via via intensificandosi nell’epoca moderna: nell’Unione Europea, per esempio, dal 1961 al 2018 c’è stato un costante abbandono delle zone rurali e una crescita dei cittadini, che oggi sono circa i due terzi degli europei. Necessariamente crescono le aree urbane: dagli anni Settanta a oggi sono più che duplicate. Questa rapida espansione è una grandissima minaccia per la biodiversità, perché l’urbanizzazione significa perdita e frammentazione degli habitat, inquinamento (incluso quello sonoro e luminoso), pericoli mortali come strade e superstrade, variazione del microclima. Ma non necessariamente città fa rima con deserto naturalistico: anzi, soprattutto in alcune situazioni, le aree verdi cittadine possono fornire habitat idonei per la presenza delle specie selvatiche, incluse alcune di rilievo per la conservazione.

È quindi molto importante individuare gli ambienti che ospitano una maggiore biodiversità urbana e cercare di tutelarli dalla pressione della crescita urbanistica, e al contempo ripristinare ambienti degradati. Un nuovo studio, pubblicato su Proceeding of The Royal Society B. ricostruisce la numerosità e distribuzione dei mammiferi a Roma negli ultimi due secoli, dimostrando che la città eterna è (o è stata) casa per un numero elevato di specie, incluse quelle rare. Tuttavia, l’espansione della città, l’inquinamento e, soprattutto la perdita o il degrado delle aree umide hanno causato la scomparsa di molte specie “romane” nel tempo.

Capitale verde

«Pur essendo una città enorme e caotica, Roma ha mantenuto una serie di spazi verdi molto diversificati: dalle ville storiche a interi pezzi di agro romano che sono rimasti come incastonati all'interno della città mentre questa cresceva nei secoli», spiega Leonardo Ancillotto, ricercatore del CNR – IRET e primo autore dello studio. «È attraversata da tre fiumi, di cui due molto grandi,  che in alcuni tratti hanno mantenuto delle caratteristiche di naturalità, fungendo da corridoio di ingresso o di spostamento delle specie all'interno del tessuto cittadino. Solo considerando la zona che ricade all’interno del Grande raccordo anulare, si trovano boschi anche ad alta naturalità, un tessuto agricolo più o meno intensivo, aree naturali, zone di abbandono… Un mosaico di ambienti molto diversificati che può ospitare tante specie diverse, non solo di mammiferi».

I ricercatori hanno raccolto oltre 6300 dati di presenza di mammiferi a Roma, in un periodo che va dal 1832 al 2023, unendo dati di monitoraggio, collezioni museali, centri di recupero; a questo hanno unito i dati raccolti attraverso la piattaforma di citizen scienze iNaturalist in un progetto dedicato ai mammiferi romani. Sono ben 51 le specie di mammiferi trovate, un numero più elevato di quello misurato in altre capitali europee come Berlino o Varsavia. Le specie più comunemente segnalate sono il riccio, la volpe, il pipistrello di Savi e quello albolimbato. Nel tempo la ricchezza di specie trovate non è variata in modo drammatico, ma sono diminuite di molto le specie presenti nelle aree umide: se negli anni Cinquanta ce n’erano nove, oggi se ne contano quattro. «Il nostro lavoro dimostra che le specie che abbiamo perso negli ultimi duecento anni sono quelle prettamente acquatiche come la lontra, o il vespertilio di Capaccini, ma anche specie associate agli ambienti ripariali, per esempio la puzzola e l’arvicola d’acqua. Queste specie vivevano all’interno della città perché era presente l'habitat acquatico, ovvero paludi e stagni, ed era di buona qualità. Le abbiamo perse presumibilmente perché questo habitat è stato sostituito, asciugato, cementificato o coltivato. Oppure, se è rimasto, è diminuita la qualità ambientale: penso per esempio alle sponde dei fiumi all'interno della città che vengono spesso regimentate e ripulite dalla vegetazione» afferma Ancillotto. Un altro grosso problema per le specie legate alle aree umide è la presenza di specie esotiche invasive: «La nutria ha un grosso impatto sulla stabilità degli argini e sulla qualità e quantità della vegetazione acquatica e delle sponde e in alcune situazioni può essere severamente impattante sulle specie presenti in un'area, e questo vale non solo per i mammiferi, ma anche per gli uccelli».

Le zone umide urbane sono habitat delicati e cruciali non solo per la ricchezza di specie che possono ospitare, ma anche per la loro importante funzione di assorbimento delle precipitazioni piovose (particolarmente utile in caso di piogge torrenziali), e di regolazione della temperatura (assorbono calore d’estate, mitigano il freddo d’inverno) nonché di riduzione degli inquinanti. Bonifiche, cementificazione e inquinamento sono le principali minacce alla loro esistenza. La Convenzione di Ramsar, accordo internazionale per la protezione delle aree umide, siglato nel 1971 e che include 172 Stati firmatari, promuove a questo proposito il Wetland City Accreditation, che valorizza le aree umide cittadine, promuovendone la conservazione e ripristino, nonché favorendo campagne di sensibilizzazione verso i cittadini per far comprendere la crucialità di questi habitat.

Cosa fare per favorire le aree umide urbane e la biodiversità che ospitano? «Sicuramente bisogna  evitare l'alterazione degli ambienti acquatici che ancora sono presenti, quindi la cementificazione delle sponde, la regimentazione delle acque, ma anche l'introduzione di specie aliene o specie ornamentali all'interno dei corsi d'acqua, quali pesci rossi, testuggini palustri americane, anatidi domestici», spiega Ancillotto. «Molto spesso perdiamo le aree di abbandono, che includono ex parchi, ex ville o cortili, così come altre zone naturali, che vengono riconvertite a altri usi, perché considerati spazi inutilizzati che portano sporco, una situazione molto frequente in una città come Roma. In realtà si tratta di porti sicuri per la biodiversità, non solo delle specie acquatiche, e andrebbero quindi mantenute. Infine, in termini proattivi, sarebbe consigliabile creare dei nuovi habitat idonei per le specie legate agli ambienti umidi, il che aumenta la probabilità che riescano a perdurare nel tempo: se sono ancora presenti all'interno di un territorio possono colonizzare i nuovi spazi in tempi relativamente rapidi. È chiaro che far tornare le specie che abbiamo perso è più complicato, ma favorire quelle che ancora ci sono sicuramente è una buona strategia».

Biodiversità urbana: pro e contro

Nel tempo, a Roma, sono aumentate le specie di mammiferi generaliste, ovvero più adattabili sia in termini di habitat che di alimentazione, a discapito di quelle più selettive. Di fatto, la città è un ambiente sfidante e particolare, e disparate analisi svolte nei diversi angoli del mondo giungono alla conclusione che le città funzionino come una sorta di filtro, che seleziona determinate caratteristiche degli animali come vincenti. Caratteristiche comuni dei mammiferi che abitano le aree urbane, secondo un recente articolo di cui Ancillotto è coautore,  sono la prolificità e la dimensione della cucciolata, la plasticità comportamentale e la versatilità nell’uso di nuovi ambienti. Ciò, però, non esclude la presenza di specie più rare: «Alcune aree verdi all'interno di una città possono rappresentare dei veri e propri residui di habitat fondamentali per certe popolazioni di specie di grande interesse conservazionistico, quindi preservare questi habitat assume una grande importanza», commenta Ancillotto. A Roma sono presenti diverse specie protette dalla direttiva europea Habitat, tra cui figurano alcuni chirotteri, come il vespertilio maggiore, il vespertilio smarginato e il ferro di cavallo maggiore, nonchè il moscardino, piccolo roditore “imparentato” con i ghiri.

Anche le metropoli possono quindi essere luoghi importanti per la conservazione. Favorire la biodiversità in ambiente urbano ha molti aspetti positivi. Spazi verdi, fiumi e specchi d’acqua aiutano a regolare le temperature locali, assorbendo il calore e mantenendo le temperature più miti. I boschi urbani aiutano anche ad assorbire il particolato dell’aria, e proteggono da fenomeni meteorologici intensi. Ma non solo: sono spazi importanti per il benessere delle persone, fisico e psicologico, e per aiutare i cittadini a superare il senso di distacco dalla natura; inoltre la conoscenza della biodiversità urbana aiuta a sensibilizzare verso questo argomento. Ma come in tutte le cose, non è tutto bianco o nero e, in alcuni casi, la presenza di alcune specie animali può invece rivelarsi molto problematica e conflittuale: nella stessa Roma, basti pensare al caso dei cinghiali, che si addentrano nella città proprio grazie agli spazi verdi ripariali che portano la natura dentro la metropoli causando non pochi problemi e dissidi sociali (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui) . E non solo i cinghiali possono creare qualche problema per la coesistenza. Per esempio diverse specie di pipistrelli, incluse quelle più rare, possono scegliere come rifugi estivi palazzi antichi o abbandonati, sottotetti delle chiese, soffitte, solai e cantine, il che richiede una attenzione nel caso si volesse intervenire, per esempio, con una ristrutturazione dell’edificio, per evitare di disturbare la colonia o di far perdere il sito di rifugio, cosa molto importante, dato che il 70% delle specie di chirotteri presenti in Italia è strettamente protetta e rischia l’estinzione.

Verso le città verdi del futuro

Per contrastare la crisi climatica le città del futuro dovranno cercare di essere più sostenibili nelle emissioni e aumentare la superficie naturale, come indicato da varie linee guida, incluse quelle dell’IPCC. La Nature Restoration Law, recentemente approvata all’Europarlamento e in attesa della convalida finale del Consiglio europeo (attesa per il 25 marzo 2024 e purtroppo slittata a causa dell'opposizione di diversi Paesi europei, Italia inclusa), prevede, tra le misure, il ripristino delle zone umide degradate, e una spinta verso un aumento degli spazi verdi cittadini e della copertura arborea. Se queste indicazioni verranno rispettate, ci si può dunque attendere un aumento della naturalità negli ambienti urbani, e di conseguenza l’aumento degli spazi idonei per ospitare la fauna. Secondo Ancillotto, sarà cruciale orientare le scelte per la progettazione urbanistica futura, tenendo conto in questa anche della presenza di fauna selvatica: «Il punto chiave è decidere cosa vogliamo nelle nostre città: si fa presto a dire ‘piantiamo milioni di alberi’, ma poi chi passerà in quel bosco urbano? Cosa entrerà in città? Vogliamo più biodiversità? Se, come mi auguro, la risposta è "sì", abbiamo i mezzi per filtrare le specie che vogliamo in maniera tale da limitare il conflitto? Sono domande enormi, che richiedono un attento studio e pianificazione. Ancora non riusciamo a rispondere, perché l'ecologia urbana dei vertebrati è una disciplina piuttosto giovane, quindi sicuramente una delle grandi domande emergenti è come gestire effettivamente il paesaggio urbano in maniera tale da favorire il nostro target specifico. E per le specie di pregio, bisogna preparare la popolazione, perché la loro esistenza comporta dei vincoli di tutela: se c’è una specie altamente protetta in un parco urbano, le cose che si possono fare in quel parco urbano sono limitate proprio dalla sua presenza».

Ci troviamo quindi in una nuova fase, che può essere, se la sappiamo cogliere, una grande opportunità per superare il distacco dalla natura che ci fa assumere una visione dicotomica: o noi o gli animali. Perché la fauna entra in città, a volte in modo dirompente, generando stupore, conflitti, e in alcuni casi impatti, o al contrario costringendoci (è il caso delle specie più rare e protette) a fare attenzione anche nelle giungle urbane a non disturbare. La grande opportunità è imparare innanzi tutto a rapportarci a questa natura che viene tra le nostre case, capire che un selvatico, anche tra i palazzi e le strade rimane tale, e non sarà mai un cane o un gatto, ma un animale che sfugge e deve sfuggire al nostro desiderio di addomesticarlo, e quindi si deve cercare di coesistere mantenendo alte le distanze. Vale per animali potenzialmente molto problematici, come i cinghiali cittadini, che non vanno alimentati o avvicinati. Vale per le specie più timide e rare, che possiamo tutelare rinunciando a alcune comodità, e non è sempre facile. Ma è sicuramente una bella sfida.

 

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