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Come sorvegliare la salute delle popolazioni colpite da catastrofi?

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In Italia vi è la necessità di favorire lo sviluppo di un'epidemiologia dei disastri naturali. Quindi pianificare, prima delle emergenze, procedure e linee guida per una sorveglianza a lungo termine della salute delle popolazioni a rischio. Questa in sintesi la riflessione che nasce dal congresso dell'Associazione italiana di epidemiologia (AIE) tenutosi a L'Aquila lo scorso 14 e il 15 aprile. Il convegno, dal titolo “Epidemiologia, sorveglianza e ricerca in occasione di eventi catastrofici. L’Aquila: la sorveglianza a lungo termine dopo il terremoto”, ha posto come missione futura quella di definire, per le istituzioni sanitarie e della ricerca scientifica italiane, le procedure generali da mettere in atto nelle fasi post-emergenza di medio e lungo periodo. La rivista Epidemiologia & Prevenzione ha documentato tale necessità, dimostrando, attraverso il raggruppamento della produzione scientifica a seguito del terremoto del 2009, come in Italia la Sanità pubblica e la Protezione Civile offrano prettamente una risposta immediata a eventi disastrosi e una stima a posteriori dei danni.

La preoccupazione palesata dall’AIE (Associazione italiana di epidemiologia) deriva dalla mancanza totale di una definizione di procedure disponibili per emergenze future, quindi l'organizzazione e la pianificazione della sorveglianza della salute prima che i disastri avvengano (preparedness). La speranza è che nel futuro, a fianco di una sorveglianza epidemiologica d'emergenza, già ora in atto ma limitata ai danni diretti, cioè i morti e i feriti nell’evento, si potrà sviluppare una sorveglianza degli effetti a medio e lungo termine sulla salute delle popolazioni colpite.

Questo è, dunque, il fattore considerato essenziale per la corretta presa in carico, da parte del sistema sanitario, dei bisogni dei cittadini, in particolare dal punto di vista della prevenzione. A questo scopo, l'AIE propone l’elaborazione di un protocollo di sorveglianza dei danni precoci alla salute, affidando il ruolo di regia all’Istituto Superiore di Sanità e auspicando la nascita di un osservatorio permanente della salute delle popolazioni esposte a disastri. Per comprendere meglio la natura della proposta, abbiamo intervistato Luigi Bisanti, epidemiologo del comitato editoriale che ha curato per la rivista Epidemiologia & Prevenzione la pubblicazione L'Aquila. Sorveglianza e ricerca dopo il terremoto del 2009, in cui è raggruppata la produzione scientifica post sisma del 2009 sulla salute degli aquilani.

Per che tipo di disastri è possibile oggi una pianificazione anticipata della sorveglianza della salute?
Essenzialmente per tutti gli eventi disastrosi naturali e innaturali a parte quelli bellici, in cui includo anche gli atti terroristici, e quelli nucleari. Questi sono eventi molto particolari che necessitano di una conoscenza molto specialistica: per questo motivo si prestano poco a una preparazione non specifica come è quella che si può applicare a disastri quali un terremoto, un'esondazione o un evento climatico radicale.

Che sorveglianza si esegue oggi sulle popolazioni a rischio?
Ad oggi in Italia ci stiamo limitando purtroppo a un controllo di chi soffre esclusivamente di patologie cardiovascolari. D'altra parte la letteratura ci dice, ad esempio, che a due anni di distanza dei due eventi catastrofici, il terremoto prima e lo tsunami dopo, che colpirono il Giappone nel 2011, si è assistito a un aumento non atteso della mortalità dovuta a cause cardiovascolari o a cause metaboliche, quindi diabete, aritmia e vascolarizzazione coronarica. Su tutte queste patologie è dunque possibile intervenire, proprio perché l'evento letale si presenta dopo parecchi anni di danno subiti dall'organo interessato e che poi produce la morte. 

Ma questo sarebbe possibile solo se creassimo tempestivamente un elenco di tutte le persone sottoposte a un disastro e contemporaneamente facessimo un lavoro epidemiologico di stratificazione del rischio: vanno riconosciute, cioè, le persone soggette a una somma di fattori di rischio (di salute, sociali e psichici) che le rende più fragili agli effetti che si manifestano a distanza. 

Nella pubblicazione di Epidemiologia & Prevenzione avete fatto un confronto in termini di produzione scientifica sulla salute post-sisma, tra i terremoti de L'Aquila nel 2009, di Kobe nel 1995 e di Fukushima nel 2011. Quali differenze sostanziali emergono?
A L'Aquila è stato fatto un grande lavoro di ricerca, per il 90% effettuato dall'università locale. Abbiamo rilevato che tale produzione scientifica non ha differenze così rilevanti con le ricerche effettuate in altri paesi sviluppati, né quantitativamente né qualitativamente parlando.

Quello che è mancato è stata piuttosto la definizione degli obiettivi a priori su cui concentrare l'osservazione e la progettazione delle attività di ricerca: in poche parole, la grande produzione scientifica riflette più gli interessi e la curiosità dei ricercatori locali, ma non offre risposte concrete ai bisogni di salute che nascono, o peggiorano, all'occorrenza di un evento sismico.

A L'Aquila si è avuto una ricca ed eccellente produzione scientifica sul comportamento ad esempio, quindi sugli effetti psicologici e psichiatrici del sisma;  ma nulla si è fatto in termini di analisi della mortalità, dei ricoveri o di come hanno risposto le strutture sanitarie all'evento, quindi dell'offerta sanitaria.Non è stato osservato per esempio l'andamento della mortalità oltre a quella prettamente acuta, ossia nei giorni stessi del sisma o subito successivi.

Ma in realtà questo non è in contrasto con quanto avvenuto in altre parti del mondo: come in precedenti casi fuori dall'Italia, a L'Aquila è mancata una pianificazione dell'osservazione sui temi prevedibili e più importanti, quali l'esito sulle gravidanza post disastro, o la situazione delle persone più fragili per età o per patologia o per deprivazione sociale ed economica.

Quindi diciamo che la raccolta della produzione scientifica post sisma a L'Aquila è stata l'occasione per identificare un bisogno che va al di là del caso abruzzese o dell'Italia?
Da noi è molto forte la cultura del primo intervento, quindi la capacità di una risposta immediata a fronte di un disastro o di eventi acuti; ciò grazie soprattutto alla Protezione Civile. Ma tutto ciò è presente in modo sufficiente in gran parte del mondo, questa la nostra verifica. Invece, non è altrettanto sufficientemente sviluppata la capacità di lavorare sugli effetti del terremoto e di catastrofi che si manifesteranno a mesi o anche ad anni di distanza, cosa che in letteratura scientifica, invece, ha un peso discreto in questo ambito di ricerca.

Voi proponete un osservatorio che fornisca una pianificazione di intervento sia nel caso di disastri naturali sia di disastri innaturali. C'è differenza tra i due fenomeni in termini di strategie?
In verità, la differenza tra disastri naturali e innaturali è molto discutibile: infatti, mentre un evento come un terremoto è sicuramente definibile naturale, quello che è innaturale è il numero di vittime che ne consegue. Molto cambia, ad esempio, se un terremoto di una certa intensità accade in Giappone, dove gli edifici sono stati costruiti con criteri antisismici, oppure in Italia, dove crollano edifici tutto sommato moderni, come è successo nel 2009 alla “Casa dello Studente” de L'Aquila.

Ecco, questa è la componente innaturale e sociale che è sempre presente e che non è da confondere con l'evento naturale disastroso in sé. Infine va precisata una cosa: il fatto che un evento sia naturale non vuol dire che esso non sia prevedibile. Non è certo il caso dei terremoti, ma l'attività vulcanica è un buon esempio di evento naturale più facilmente prevedibile, in quanto sono osservabili dei preliminari che durano giorni se non settimane e che consentono di fare una previsione, sempre con un certo livello di errore, su quando avverrà l'evento disastroso.

Questa componente di prevedibilità, presente anche negli eventi naturali, permette dunque di pianificare una sorveglianza della salute e mettere in atto procedure concrete di prevenzione?
Se alcuni eventi sono largamente prevedibili essi possono essere oggetto di ricerche ancor prima che accadono. Questo è successo con le ondate di calore, le quali, arrivate per la prima volta in Europa nel 2003, ci hanno inizialmente trovati poco preparati. Ma negli anni successivi, in Italia come in altri paesi europei, sono stati messi a punto dei piani di sorveglianza associati in seguito a dei piani concreti di intervento e di previsione. Oggi, se sappiamo che nelle prossime 48 ore sono previste ondate di calore, le aziende sanitarie italiane conoscono già le procedure da dover seguire, in quanto definite prima. Quindi si muovono in anticipo per la tutela e la prevenzione delle possibili conseguenze in quella fascia di popolazione identifica come più a rischio. 

Particolare attenzione è stata posta al carattere multidisciplinare delle linee guide da dover definire in futuro...
La visione che produce prevenzione è una visione per forza olistica, quella che non lavora solamente per i metodi quantitativi ma anche coi metodi qualitativi ed è una cosa a cui noi epidemiologi siamo molto poco abituati.

Non è con gli strumenti o con i metri che si riconoscono i bisogni della popolazione, in quanto ognuno il bisogno lo esprime a modo suo: in questo senso, abbiamo apprezzato molto il lavoro svolto a L'Aquila da geografi, sociologi e antropologi, i quali si son fatti raccontare quali erano i bisogni e hanno tirato fuori in modo narrativo una ricostruzione del vissuto a distanza di molti anni dall'evento. Una narrazione di quale era il danno residuale e il bisogno, quali le aspettative e quali i timori sui cui poter lavorare in maniera preventiva contro gli effetti a lungo termine.  Ma per far ciò, appunto, bisogna conoscere i linguaggi e scremare i fatti che hanno una valenza collettiva. Questo richiede un mestiere che non coincide proprio con quello di un epidemiologo o di un cardiologo.

Un altro fattore chiave in termini di prevenzione della salute coincide con le misure e i piani di ricollocazione delle popolazione nei propri territori. In che modo si può agire in questo senso?
Da L'Aquila abbiamo imparato che una definizione dall'alto della ricostruzione, quindi non condivisa e compartecipata con chi ha subito il danno, porta a soluzioni che sono efficienti solo nella migliore delle ipotesi, anche in termini di salute.

Oggi, quasi tutte le associazioni di cittadini aquilane considerano la struttura lineare su cui è stata ricostruita la nuova città non idonea a una città vera e propria, pensata generalmente come circolare. E quando la ricostruzione urbana si sviluppa su un asse di 20 km, senza un centro, una piazza che rappresenti un luogo di incontro e di socialità a portata di tutti, diventa molto difficile per il singolo ricostruire una propria identità in quanto cittadino.

A noi medici dovrebbe interessare il riflesso patogeno di questa condizione e di certe scelte in termini di ricostruzione. Riprogettare una città in modo opportuno significa anche ridurre il carico di malattie che la popolazione urbana andrà a manifestare; una ricostruzione mal gestita coincide cioè con un aumento del disagio sociale, dunque della probabilità di future patologie. 

La pubblicazione di Epidemiologia & Prevenzione si chiude con una riflessione sul distacco culturale tra la comunità scientifica e la popolazione; come è possibile eliminare la distanza tra gli obiettivi e le tempistiche del lavoro di ricerca, da una parte, e le necessità stringenti di intervento durante un disastro? Un approccio scientifico per fronteggiare le catastrofi ambientali è possibile?
Lo stile di lavoro di ricercatore è uno stile rigoroso, prudente e che si svolge per tappe in cui ogni tappa viene avviata quando la precedente è stata sufficientemente validata. E questo fa parte della qualità e non dei difetti della produzione scientifica. Ma quando l'argomento della ricerca è pertinente all'urgenza della salute, allora bisogna muoversi prima, cioè, come dice l’autrice dell’editoriale comparso qualche settima fa su Science, «il momento peggiore per scambiarsi i biglietti da visita è durante la crisi». Bisogna confrontarsi prima e capire in anticipo come produrre le ricerche e su chi condurle. Cosicché quando ci si rivede in occasione di un evento disastroso non c'è la necessità di dover sviluppare un linguaggio, capirsi e ridurre gli attriti ma si può subito arrivare al sodo perché un percorso generale è stato già scritto.

A livello mondiale si vive il fenomeno disastroso esclusivamente sotto il carattere dell'immediatezza, dell'urgenza stringente. Ma il danno non si limita all'immediato, non scompare nel giro di poche settimane, anzi si dilata nel tempo e prosegue nei suoi effetti: se ci si limita ad intervenire sul picco del disastro, quello percepito come urgenza, si perde tutta la restante componente del danno che prosegue nei suoi effetti. Si perde nel senso che non viene riconosciuta e il mancato riconoscimento coincide in una lacuna nella sorveglianza sulla salute della popolazione colpita dal disastro, quindi una mancanza nella strategia di cura e prevenzione. Questa la direzione verso cui il lavoro scientifico deve orientarsi sempre più.

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