fbpx Nanoparticelle in medicina: piccole, utili... pericolose? | Scienza in rete

Nanoparticelle in medicina: piccole, utili... pericolose?

Tempo di lettura: 12 mins

Secondo l'Osservatorio Europeo sulle Nanotecnologie[1], sono stati 478 i soggetti, pubblici e privati che hanno avuto accesso ai finanziamenti del Settimo programma Quadro FP7 per la call "Nanoscience, nanotechnologie, materials & new production and technologies" (FP7 NMP), con una media tra 500 e 1000 tra pubblicazioni e brevetti, nel solo periodo 1998-2009 nei principali Paesi europei. Solo in FP7 sono stati stanziati per le nanotecnologie circa 3,5 miliardi di euro e secondo il PEN (Progetto sulle Nanotecnologie Emergenti) nel 2014 le nanotecnologie hanno rappresentato il 15% della produzione industriale totale.
Non è semplice tenere il passo del trend in continua crescita degli investimenti e della produzione in questo settore (in Europa è la Germania a guidare la classifica). Dal 1959, anno del celebre discorso tenuto da Feymann all'Università di Caltech (California Instiutute of Technology), "There's plenty of room at the bottom"[2], la nanotecnologia si sono gradualmente trasformate in realtà, con un'esplosione concentrata particolarmente negli ultimi 15 anni. 

Fonte: European Nanotechnology Landscape ReportIl termine nanoscienze si riferisce a tutte quelle applicazioni che fanno uso di conoscenze e processi in chimica, fisica, modellistica e ingegneria per controllare la materia a dimensioni al di sotto di 100 nanometri - dove 1 nanometro (nm) corrisponde a 1 miliardesimo di metro. A questa scala di grandezza, con gli strumenti adatti, le opportunità sono sterminate. 

Diverse del resto sono già le applicazioni già testate e utilizzate, per esempio nei settori energia, ambiente, alimentazione, medicina. La gamma di applicazioni possibili o già presenti sul mercato è molto ampia, le potenzialità effettive o annunciate crescono così rapidamente che non è possibile stilare un elenco sintetico ed esauriente di quanto coperto finora dalle nanotecnologie. Secondo una recente indagine della National Science Foundation [3], le macro aree più promettenti per ricerca e sviluppo sono:

- Elettronica/fotonica  (energia rinnovabile e stoccaggio; microelettronica; telecomunicazioni; illuminazione)
- Materiali (trattamento delle superfici; tessile e abbigliamenti; packaging)
- Salute (nano biotecnologie, nanomedicina)

Oltre alla classe di materiali ingegnerizzati su scala nanometrica, sono da comprendere anche le sostanze presenti nell'ambiente - effetto collaterale e non gradito di fenomeni naturali o attività umane -, quali il particolato derivante dalla combustione delle foreste, dalle emissioni di origine antropica (traffico veicolare, emissioni industriali, inquinamento indoor, emissioni da combustione, di dimensioni appunto comprese tra 1 e 100 nm.

(Qui un estratto del documentario Nanotecnologie - uno sguardo sul nanocosmo, prodotto da CNR, UniMI, Fondazione Cariplo)

L’Abc della nanomedicina

Sono essenzialmente due le linee di ricerca e applicazioni da cui sono attesi i maggiori vantaggi dalla nanomedicina: nanodiagnostica e nanoterapia (intelligent drug delivery).
Questi filoni comprendono tecnologie che lavorano spesso in modo integrato (telemedicina, microchirurgia, imaging ad alta risoluzione), in tal caso si parla di teranostica  (terapia+diagnostica). A queste vanno affiancati i prodotti della sensoristica, nuovi tessuti e organi artificiali, che stanno attirando una grande attenzione anche in Italia presso l'IIT di Genova [4].
Un nanosensore è un dispositivo che può riconoscere selettivamente una molecola target complementare in una soluzione più complessa, segnalando la presenza di una malattia a partire sia dalla rivelazione di modificazioni biologiche, elementi inquinanti sia di quantità di cellule e tessuti danneggiati.
Il meccanismo di funzionamento di un nanosensore può essere semplice come quello di una cartina tornasole, o più complesso quando si utilizzano biodispositivi per analisi genomiche o proteomiche. In linea con il paradigma delle nanotecnologie, questi sistemi di diagnosi sono comunque pensati per essere agevoli, a basso costo e utilizzabili in situ: è la "point-of-care technologies". Individuata la malattia, il passo successivo è tentare di contrastarla. Nella fase terapeutica, questo viene fatto affidandosi a un carrier nanometrico, un vero e proprio proiettile intelligente a cui è affidato il compito di rilasciare il farmaco in modo puntuale e selettivo, oppure attivarsi sotto l'effetto di una sollecitazione esterna, come un campo elettromagnetico e distruggere le cellule malate, funzionando in sostanza come "generatore di calore" .
Le principali categorie di carriers sono: liposomi, carriers polimerici, dendrimeri, nanoparticelle magnetiche
A quest'ultima categoria è ascrivibile anche una classe particolare di nanoparticelle, cioè quella comprendente nanoparticelle costituite da nanocristalli di ossidi magnetici (ad esempio ossidi di ferro) ricoperti da un sottilissimo strato di molecole organiche. Esse sono in grado di rispondere sia a stimoli elettromagnetici sia (bio)chimici. Le nanoparticelle magnetiche vengono a volte utilizzate anche in sistemi di diagnostica più tradizionale, come agente di contrasto per esempio in risonanza magnetica.
Prima di agire, i carriers devono però superare diversi ostacoli (membrane cellulari, barriera emato-encefalica) senza farsi “scoprire” dal nostro sistema immunitario. Le loro caratteristiche chimico-fisiche devono far fronte a tutte le esigenze di compatibilità biologica.
Non solo la prevenzione, ma anche la definizione più chiara dei possibili rischi passa per una migliore conoscenza della natura delle particelle candidate per la nanoterapia.

Qualche cautela

All'entusiasmo suscitato dalle nanotecnologie in campo medico, va però associata una componente di prudenza dovuta ai rischi associati a una manipolazione così fine della struttura della materia. Siamo in grado di ingegnerizzare a scala nanometrica, ma fino a che punto si riescono a controllare e prevenire effetti indesiderati?
Quest'altra faccia delle nanoscienze è un territorio altrettanto vasto, affollato di interrogativi ancora aperti, che sorgono in primis quando le nanoparticelle incontrano dinamiche biologiche e le funzioni vitali.

La potenzialità delle nanoparticelle in medicina risiede nella loro estrema capacità di penetrazione. Una molecola o un dispositivo grande un centinaio di nanometri al massimo sarebbero in grado non solo di entrare in una cellula, ma anche di interagire con i suoi componenti biologici vitali, dal DNA alle proteine. Al contempo, è proprio questa capacità a costituire il maggior pericolo, come del resto confermato dalla più ricca letteratura scientifica sugli effetti sulla salute delle polveri ultrafini, nanoparticelle "naturali" che penetrano negli apparati respiratori, nel circolo sanguigno, fino ai tessuti. 

Quanto si conosce invece dei rischi derivanti dalle nanoparticelle "ingegnerizzate"?
Non ci sono ancora allo stato dell'arte studi epidemiologici di vasta portata che descrivano gli effetti delle nanoparticelle sulla popolazione esposta. La letteratura esistente consente però già di tracciare quali sono i possibili effetti citotossici a livello cellulare uniti agli effetti respiratori, cutanei, immunologici [5].
In generale, si può dire che i comportamenti atipici alle scale nanometriche sono dovuti al rapporto tra le superfici molto ampie delle nanoparticelle - se comparate al loro volume - e al fatto che a livello atomico, la chimica e la fisica delle sostanze ridotte alla nanodimensione può cambiare in modo radicale e imprevedibile.

I nanomateriali ingegnerizzati più sorvegliati sono i nanotubi in carbonio, nanoparticelle di metalli e ossidi metallici, quantum dots, fullereni.
La maggior parte degli studi prodotti finora sono stati condotti in vitro o su cavie da laboratorio. Gli effetti citotossici sembrano dipendere, più che dalla baseforma nanoparticolata, dalla struttura chimico fisica delle nanoparticelle, dallo stato di aggregazione (in particolare per i nanotubi di carbonio). E' stata inoltre riscontrata una variabilità nella risposta citotossica in relazione al tipo di metallo presente nelle nanoparticelle (i metalli maggiormente incriminati sono argento, rame, zinco, molibdeno, alluminio) [5].
Sono diversi perciò i parametri che possono provocare un rischio di tossicità, a partire dalle quantità accumulate, parametro che spesso negli studi disponibili non può essere paragonata alle reali condizioni ambientali.



Nuovi studi per nuove regole

Insieme allo sviluppo di queste tecnologie, è importante quindi identificare anche tutti i possibili rischi derivanti sia dalla diffusione di polveri ultrafini sia di nanoparticelle ingegnerizzate. In particolare per i prodotti nanotecnologici industriali, non esiste ancora una regolamentazione specifica per la produzione, manipolazione o etichettatura, mentre finora sono stati principalmente considerati come oggetti tutelati da protezione brevettuale.
Nonostante i principali fattori di rischio siano già stati individuati in linea generale, la strada della regolamentazione, specie a livello internazionale, appare ancora un percorso lungo e di difficile gestione. La difficoltà che deve affrontare la regolamentazione è probabilmente dovuta alla loro introduzione relativamente troppo recente nel mercato e a una conoscenza quindi ancora molto frammentataria.

La Royal Society nel Regno Unito, per esempio, si è inizialmente espressa in modo non univoco: "Le nanotecnologie non pongono nuove minacce per la salute” si legge in un suo recente documento. Subito dopo, però,, raccomanda che i nanomateriali siano regolamentati come sostanze chimiche nuove, che vengano trattati dai laboratori di ricerca e dalle fabbriche "come fossero pericolosi”.
L'Unione Europea ha istituito un gruppo per studiare tutte le ricadute delle nanotecnologie, il "Comitato Scientifico per i Rischi sanitari emergenti recentemente identificati" - SCENIHR, mentre in Italia ha preso vita a Milano nel 2009 la fondazione CEN (Centro Europeo di Nanomedicina) e già nel 2005, l'European Science Foundation raccomandava di migliorare il bagaglio di conoscenze e competenze disponibili per produrre materiali sempre più affidabili, riproducibili con metodologie accertate e condivise.
In un quadro ancora incerto, è importate ascoltare anche chi la ricerca sulle nanoparticelle la fa ogni giorno, e ha la conoscenza e gli strumenti adatti per iniziare a fare ordine in un settore così promettente. Come? In primo luogo attraverso una maggiore conoscenza delle caratteristiche chimico-fisiche delle particelle già utilizzate, in via di definizione e sviluppo o di quelle presenti in atmosfera.

Progetti relativi agli impatti sulla salute delle nanotecnologie nell'ambito dei FP5, FP6, FP7

FP5
ProgettoFinanziamentoCosto totale del progetto
Nano-pathology999.9371.166.049
Nanoderm1.097.9941.396.888
Nanosafe322.787330.556
Totale2.420.7182.893.493
 FP6
Cellnanotox2.600.0003.651.500
Dipna2.793.2354.535.199
Impart699.913699.913
Nanointeract3.300.0004.616.544
Nanosh2.400.0004.000.000
Particle-Risk799.5761.120.000
Nanosafe6.999.83712.400.000
Nanotransport450.000450.000
Nanocap1.310.0001.310.000
Saphir8.100.00015.800.000
Nanotox399.894408.544
Nanotox 2180.134180.134
Nanodialogue850.000850.000
Euronanoforum2005300.000926.997
Nanoair1.073.7921.414.893
Totale32.256.38152.363.724
 FP7  
Nanoimpactnet2.000.0003.190.000
Nanommune3.360.0004.310.000
Nanoplat599.855792.810
Enrhes199.938279.659
Nhecd1.450.0001.620.000
Nanoretox3.190.0005.190.000
Framingnano675.044742.934
Observatorynano4.000.0005.140.000
Nanotest2.990.0003.940.000
Neuronano2.498.0004.783.539
Totale20.962.83729.988.942

Proprio durante FP7, l'Unione Europea ha finanziato i primi progetti dedicati a studiare l'impatto delle nanoparticelle, "Environmental, Health and Safety (EHS) Issues" [6], con l'Italia tra i primi partecipanti dopo UK, Germania e Francia.
La Fondazione Cariplo, a sua volta, da alcuni anni punta a sostenere a progetti di ricerca incentrati su tecnologie emergenti con forti ricadute pratiche. E' del 2011 la prima call dedicata ad approfondire gli studi su nanoparticelle ingegnerizzate (la seconda edizione è del 2013), un piano d’azione utile a raccogliere dati più sistematizzati sulla valutazione del rischio derivante dall'esposizione a nanoparticelle, non solo in ambito di ricerca ma anche in sede decisionale.
La call "Ricerca Ambientale 2011” ha promosso progetti di ricerca finalizzati allo studio dell'impatto del particolato ultrafine e delle nanoparticelle ingegnerizzate sulla salute dell'uomo, concentrandosi prevalentemente su due aspetti:

- Favorire la conoscenza di base delle interazioni particelle/tessuti/sistemi biologici, sia in vivo sia in vitro
- Studiare i meccanismi cellulari di tossicità del particolato ultrafine; delle nanoparticelle ingegnerizzate e di materiali prodotti da nanotecnologie; la variazione parametri morfologici, fisiologici e genetici su dimensione, forma, superficie attiva; le proprietà chimico-fisiche particelle e vie di esposizione.


Una ricerca per sistematizzare nanoparticelle e macrofagi

Il gruppo di ricerca guidato da Alessandro Ponti dell'Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari del CNR, in collaborazione con l'Istituto di Neuroscienze del CNR (Bice Chini e Claudia Verderio), l’Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR (Diana Boraschi), il Dipartimento di Chimica e il Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università degli Studi di Milano (Emanuela Licandro e Luigi Sironi), si è occupato di allargare le conoscenze di base sulle dinamiche d'interazione tra nanoparticelle magnetiche ingegnerizzate e i monociti/macrofagi, le cellule del sistema immunitario con il compito di distruggere tutto ciò che è estraneo (e potenzialmente pericoloso) per il nostro organismo.
E' possibile già fare una prima valutazione sui risultati raggiunti dal progetto, in fase conclusiva.

Uptake cellulare (CNR, UniMI)Obiettivo dello studio è avere a disposizione un quadro chiaro e completo sul comportamento delle nanoparticelle magnetiche, in interazione con i macrofagi, il primo schieramento di difesa del nostro organismo. Questo è essenziale per definire metodi di utilizzo delle nanoparticelle per la diagnosi e il controllo per esempio di malattie infiammatorie e ischemiche del cervello.
In prospettiva, consolidare queste informazioni potrà servire a operare in maggiore efficacia e sicurezza con le tecniche MRI che fanno uso di nanoparticelle magnetiche come agenti di contrasto e a definire un protocollo per l’utilizzo degli stessi monociti/macrofagi come vettori di carrier magnetici in grado di portare le nanoparticelle magnetiche in parti del corpo difficilmente accessibili come il cervello.

“Per questo tipo d'indagine, il primo passo è misurare come le caratteristiche base delle nanoparticelle candidate a diventare carrier,  (dimensioni, composizione, tipo di superficie) influenzano l’interazione con i macrofagi. Abbiamo affrontato questo problema variando sistematicamente una sola caratteristica base per volta” spiega Alessandro Ponti.
Le particelle scelte, nella più generale categoria delle nanoparticelle magnetiche, sono composte da ferriti (p. es. la magnetite Fe3O4), già oggetto di precedenti studi analoghi, ma mai sistematizzate come da obiettivo del progetto in questione.
E' la dimensione il primo punto critico. Lo studio ha consentito innanzitutto di definire la morfologia più efficace da utilizzare per un certo scopo: grazie alle esperienze già condotte dal gruppo, sono state sintetizzate soluzioni contenenti nanoparticelle di ferrite con dimensione strettamente controllata e sistematicamente variata tra 4 e 24 nm.


                             
Escrezione urinaria di nanoparticelle nel topo Per completare l'"equipaggiamento" delle ferriti, è necessario dotarle di un rivestimento adatto, per evitare che i macrofagi le riconoscano come corpi estranei e le distruggano. La scelta in questo passaggio è delicata, poiché anche l'involucro che carica e protegge la particella deve essere biologicamente compatibile e non costituire esso stesso un elemento tossico. Esclusi i più tradizionali rivestimenti di albumina e PEG (troppo grandi e troppo poco controllabili), la sistematica variazione della carica elettrica del rivestimento ha permesso di ottenere buone performance con gli zwitterioni, molecole elettricamente neutre nel complesso, ma con due cariche opposte localizzate. [7]
Ingegnerizzando le ferriti con un sottile strato di circa 2 nm di zwitterioni, si è osservato - dai test in vitro e in vivo - che i carrier così prodotti non adsorbono proteine e interagiscono poco con i macrofagi, oltre a poter essere facilmente tracciati grazie al loro magnetismo.
L’efficacia e la tossicità delle nanoferriti è stata quindi testata in fase in uptake (assorbimento) cellulare e per eventuali effetti d'infiammazione. 

I risultati degli studi - in parte già pubblicati - mostrano un basso livello di assorbimento non-specifico, assenza di accumulo a lungo termine (le particelle catturate dal fegato vengono smaltite in pochi giorni) e, soprattutto, i dati della fase di studio in immunologia indicano che in nessuna circostanza le ferriti provocano infiammazione o interferiscono con un’infiammazione eventualmente già in atto.

Team di ricerca guidato da Alessandro Ponti, ISTM-CNRLo studio proseguirà con il completamento della sistematizzazione delle nanoferriti, la minimizzazione dell’accumulo (sfruttando l’escrezione renale) e l’ottimizzazione del numero di cellule osservabili con MRI, questioni funzionali all’utilizzo delle nanoferriti per l'Imaging in risonanza magnetica come mezzo diagnostico e di monitoraggio dei processi infiammatori nel Sistema Nervoso Centrale. Il progetto "Inter-cellular delivery, trafficking, and toxicity of engineered magnetic nanoparticles in macrophages and CNS cells" ha visto la partecipazione di una ventina di ricercatori, compresi 12 giovani dottorandi e post-doc, di cui più della metà sono donne - 3 su 4 responsabili di ricerca. Il progetto è ora in conclusione, con alcuni lavori in fase di valutazione che si aggiungono ai 4 articoli scientifici, alle 6 comunicazioni a congressi e al libro già pubblicati.

 

Referenze:

[1] The European Nanotechnology Landscape
[2]"Sta scherzando, Mr. Feynmann!", Richard P. Feymann - Zanichelli, 2012
[3] National Nanotechnologies Initiative
[4] Il mondo è piccolo come un'arancia, Roberto Cingolani - Il Saggiatore 2014
[5] Libro Bianco, Esposizione a nanomateriali ingegnerizzati - INAIL, 2011
[6] "Europa in testa rispetto agli USA nel finanziamento alla ricerca sui rischi delle nanotecnologie", CORDIS news
[7] Schlenoff, J. B. Zwitteration: Coating Surfaces with Zwitterionic Functionality to Reduce Nonspecific Adsorption. Langmuir 2014, 30, 9625–9636

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La scoperta di un nuovo legame chimico

Un gruppo di ricercatori dell'Università di Hokkaido ha fornito la prima prova sperimentale dell'esistenza di un nuovo tipo di legame chimico: il legame covalente a singolo elettrone, teorizzato da Linus Pauling nel 1931 ma mai verificato fino ad ora. Utilizzando derivati dell’esafeniletano (HPE), gli scienziati sono riusciti a stabilizzare questo legame insolito tra due atomi di carbonio e a studiarlo con tecniche spettroscopiche e di diffrattometria a raggi X. È una scoperta che apre nuove prospettive nella comprensione della chimica dei legami e potrebbe portare allo sviluppo di nuovi materiali con applicazioni innovative.

Nell'immagine di copertina: studio del legame sigma con diffrattometria a raggi X. Crediti: Yusuke Ishigaki

Dopo quasi un anno di revisione, lo scorso 25 settembre è stato pubblicato su Nature uno studio che sta facendo molto parlare di sé, soprattutto fra i chimici. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Hokkaido ha infatti sintetizzato una molecola che ha dimostrato sperimentalmente l’esistenza di un nuovo tipo di legame chimico, qualcosa che non capita così spesso.