fbpx Pacemaker naturale | Scienza in rete

Pacemaker naturale

Primary tabs

Read time: 2 mins

Come reagireste se, affetti da aritmia cardiaca, il medico vi consigliasse di cadere in letargo? Una simile proposta terapeutica è ancora molto lontana, ma uno studio presentato al 56° Annual Meeting of the Biophysical Society svoltosi a San Diego in California alla fine di febbraio mette in evidenza come le cellule del cuore della marmotta si comportino in modo molto più regolare quando questa sprofonda nel suo lungo sonno invernale. In tutti gli animali la contrazione del tessuto cardiaco è provocata dal rilascio di ioni calcio all’interno delle cellule muscolari che lo compongono (i miociti), mentre un riassorbimento dello stesso conduce al rilassamento. L’elettrofisiologo Lai-Hua Xie, professore alla University of Medicine and Dentistry of New Jersey, ha mostrato che il reticolo sarcoplasmatico, cioè il serbatoio cellulare in cui il calcio viene conservato durante il rilassamento del miocita, nelle marmotte è più efficiente in inverno che in estate. Se prelevato durante il periodo di inattività dell’animale, esso ha infatti esibito una minore dispersione spontanea, un rilascio più consistente e un riassorbimento più rapido del calcio. Tutte caratteristiche che facilitano l’orchestrazione dell’attività elettrica della cellula, volta ad assicurare il corretto battito cardiaco. Così le marmotte, come tutti gli animali che cadono in letargo, sono protette dal rischio di aritmia durante l’inverno. 

La comprensione di questi meccanismi adattativi negli animali letargici è importante anche per l’uomo, perché potrebbe suggerire nuove strategie terapeutiche. Quando associata ad altre patologie cardiache, l’aritmia può avere infatti conseguenze molto gravi e richiedere interventi invasivi. Se un giorno potremo sostituire il pacemaker con una lunga stagione di sonno non è ancora dato sapere, per ora le marmotte si godono la loro terapia naturale.

Autori: 
Sezioni: 
Cuore

prossimo articolo

Pubblicare in medicina: un libro sui problemi (e le possibili soluzioni) dell'editoria scientifica

Un’industria ipertrofica cresciuta a spese dei meccanismi di produzione culturale della scienza. Un’industria dai profitti enormi e senza margini di rischio, capace di farsi credere indispensabile da chi la ingrassa credendo di non avere alternative. Il libro di Luca De Fiore, documentatissimo e spietato, procede per quattordici capitoli così, con un’analisi di rara lucidità sui meccanismi del, come recita lo stesso titolo, Sul pubblicare in medicina. Con il quindicesimo capitolo si rialza la testa e si intravede qualche possibile via d’uscita. Non facile, ma meritevole di essere considerata con attenzione soprattutto da chi, come ricercatore, passa la vita a “pubblicare in medicina”, o a cercare di.

A spanne il problema lo conosciamo tutti. Per fare carriera, un ricercatore ha bisogno di pubblicazioni. Le pubblicazioni, per definizione, devono essere pubblicate, e a pubblicarle sono le riviste scientifiche. Ma siccome, dicevamo, il ricercatore ha bisogno di pubblicare, i suoi articoli li regala alla rivista, anzi li manda speranzoso di vederli in pagina.