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L’altra faccia della tecnologia: smartphone, coltan e guerre

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Risponde al telefono mentre sta camminando. La meta è ancora lontana, ma almeno si può godere il mare: “Il paesaggio è molto bello ma la strada un po’ meno. Mi trovo esattamente a 124 Km da Napoli”.
John Mpaliza
è un ingegnere informatico di origine congolese ma che vive in Italia da diversi anni. John sta marciando da Reggio Emilia a Reggio Calabria per far conoscere la storia del coltan, un minerale che si trova praticamente dentro a tutti i dispositivi tecnologici. Smartphone, tablet, pc portatili, televisori a schermo piatto: ormai è impossibile progettare un dispositivo di ultima generazione senza questo prezioso materiale.

Il “lato B” della tecnologia

Il minerale viene dal Congo, dove spesso sono i bambini a scavare direttamente a mani nude nella sabbia nera, che viene confezionata in sacchi e venduta a chili dai signori della guerra o dai ribelli a multinazionali del sud-est asiatico (Cina, Tahilandia, Corea, Taiwan). Qui il coltan diventa una parte fondamentale dei micro-condensatori, i componenti che servono a immagazzinare e gestire la corrente dei dispositivi elettronici. “Infine le case produttrici degli smartphone acquistano i componenti e li assemblano fino a metterci in tasca il prodotto finito”, spiega John.
Per quel prodotto le popolazioni locali devono pagare un prezzo altissimo: una guerra civile finanziata anche dagli interessi fortissimi che ruotano intorno al mercato del minerale, e che ha fatto milioni di morti.
Ma in Congo si muore anche a causa del lavoro nelle miniere e della leggera radioattività del coltan, che negli anni può far sviluppare patologie in chi ci sta a diretto contatto tutti i giorni.
“È più prezioso dell’oro”, racconta Mpaliza, che dice che non si può fare una stima sulle quantità di coltan che ogni anno partono dal Congo, dato che si tratta perlopiù di commercio illegale. Un dato certo è che nel mondo ci sono almeno 2 miliardi di smartphone e dentro ognuno di questi c’è un pezzo di Congo. Sì, è praticamente certo, perché il coltan si trova anche in Australia, “ma a prezzi troppo poco convenienti per chi compra”. Quello che vuole ottenere John con la sua marcia è una legge sulla tracciabilità dei minerali cosiddetti “insanguinati” (coltan, cobalto, cassiterite, tungsteno e oro) che si trovano nei componenti elettronici.

Leggi sulla tracciabilità: a che punto siamo?

Al momento leggi internazionali sulla tracciabilità non esistono. Nel 2010, quando Obama era già presidente, gli Usa promulgarono il Dodd Frank Act, una serie di interventi sul sistema economico statunitense, che conteneva anche disposizioni sulla tracciabilità dei componenti elettronici. La legge ha avuto un percorso tormentato e varie modifiche in corsa a causa delle proteste da parte delle case produttrici.
Dall’approvazione della legge le aziende americane sono obbligate a dichiarare sul sito web istituzionale se il loro coltan è “Conflict Free” o “Not Found to be Conflict Free” e nel secondo caso indicare il nome della miniera di provenienza.

E mentre qualcuno fa notare che questa grossolana spartizione tra zone con conflitti e senza conflitti al momento ha sortito l’effetto di mettere in ginocchio l’economia di quelle in guerra, anche l’Europa sta lavorando su una legge sulla tracciabilità. La proposta è stata presentata nel marzo scorso e non prende di mira le case produttrici di telefoni, ma si concentra piuttosto sugli importatori e le fonderie locali. Rispetto alla legge Usa, sparisce anche la distinzione “conflitto” o “non conflitto”, mentre si chiede di tracciare e divulgare un quadro generale sulla situazione dei luoghi di estrazione. “Ma al momento si parla adesioni volontarie alla tracciabilità. Sarebbe invece più logico pensare che una legge di questo tipo non debba escludere nessuno”, puntualizza Mpaliza, che vorrebbe sanzioni per chi non dichiara la provenienza del coltan.
Un’altra misura che potrebbe essere adottata, secondo Mpaliza riguarda il riutilizzo dei telefoni e il recupero e riciclo delle materie prime. Infatti non sono pochi i rifiuti elettronici che tornano in Africa, proprio da dove erano partiti, per esempio in Ghana, nella discarica di rifiuti elettronici più grande del mondo. “Nelle discariche le popolazioni locali vanno a bruciare gli apparecchi per recuperare i minerali, esponendosi alla diossina e mettendo così in pericolo la propria salute”, denuncia Mpaliza.

Smartphone etico

Sull’idea del riutilizzo un italiano ha fondato una Ong a Londra. Si chiama Restart Project e organizza una serie di incontri con i cittadini per insegnare come un vecchio dispositivo elettronico possa avere una seconda vita.
In attesa delle leggi sulla tracciabilità, una compagnia olandese composta da giovani ingegneri ha prodotto il primo smartphone etico. Questi tecnici sono in contatto diretto con le miniere in Congo, da cui acquistano il coltan, e hanno inserito la società civile congolese nel processo di produzione attraverso una paga equa e migliori condizioni di lavoro. “Free conflict mineral”, dichiarano orgogliosi sul loro sito.
L’idea è piaciuta, tanto che nel 2013 gli ingeneri di Fairphone sono stati inviatati della Commissione Europea per partecipare a una serie di tavole rotonde sull’argomento.
Tuttavia, anche per lo smartphone etico ancora non si può parlare di una vera e propria “tracciabilità”, che dovrebbe avvalersi di una società terza che certifichi tutti i passaggi e si occupi anche di monitorare e fare eventuali sanzioni.  Questo al momento non è proprio realizzabile perché manca una legge che istituisca un organismo ad hoc per questi controlli. In Congo, dove un antico proverbio recita che quando gli elefanti combattono chi ne fa le spese è l’erba, stanno ancora aspettando.


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