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Un decennio per la scienza in Africa

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Il prossimo sarà il «decennio per la scienza in Africa». Tra il 2011 e il 2020 i temi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico dovranno salire in testa all’agenda politica del continente. Non sono per ragioni culturali, ma anche per ragioni socio-economiche. Lo ha deciso, nelle scorse settimane, l’AMCOST, l’African Ministerial Council on Science and Technology.

La decisione è motivata da quattro idee di fondo. Che il futuro, anche – e per certi versi, soprattutto – nel continente più povero del pianeta, è nella conoscenza. Che gli Africani, malgrado le reiterate promesse, possono aspettarsi poco dai paesi ricchi e devono contare soprattutto sulle proprie forze. Che nessun paese africano può farcela da solo, ma occorre creare una «rete africana della conoscenza». Che questa rete fondata su centri di ricerca e di alta educazione, infine, debba ambire a standard di qualità assoluta. 

Non è un progetto facile da realizzare. Lo dimostra il fatto che altri obiettivi non sono stati raggiunti. Non è stato centrato, per esempio, l’obiettivo che lo stesso AMCOST si era dato nel 2003 e aveva poi reiterato nel 2007: portare i fondi per la ricerca e lo sviluppo (R&S) ad almeno l’1% del Prodotto interno lordo (Pil) entro il 2010. Il 2010 è arrivato e l’Africa – ove si eccettui il Sud Africa – continua a investire in media lo 0,3% del Pil in R&S, contribuendo solo per lo 0,5% agli investimenti mondiali in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico.

In termini assoluti i due terzi degli investimenti sono realizzati da un solo paese, il Sud Africa. Che, come abbiamo visto, investe circa l’1% del suo Pil in ricerca.

Il gap scientifico e tecnologico – che secondo la gran parte degli analisti ha anche effetti di natura sociale ed economica – che il continente nero registra rispetto alle aree del mondo è notevole.

Secondo un rapporto dell’UNESCO, per esempio, l’Africa conta appena 60 ricercatori nell’Africa ogni milione di abitanti – in media 48 nell’Africa sub-sahariana e 160 nel Nord Africa. Contro i 261 ricercatori ogni milione di abitanti presenti in America Latina, i 469 in Cina e i 4.103 negli Stati Uniti.

Il guaio è che il gap non solo esiste ed è enorme. Ma tende anche ad aumentare. E non solo nei confronti delle aree di antica industrializzazione. Secondo lo UIS, l’Istituto di statistica dell’UNESCO, in cinque anni, tra il 2002 e il 2007, il numero di ricercatori nel mondo è passato da 5,8 a 7,1 milioni: un aumento del 22% in soli cinque anni. La gran parte dell’incremento si è verificato nei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo: dove il numero di ricercatori è passato dagli 1,8 milioni del 2002 (il 30% del totale mondiale) ai 2,7 milioni del 2007 (il 38% del totale mondiale).

La gran parte dell’incremento è avvenuto in Asia, il cui numero di ricercatori è passato in cinque anni dal 35,7% al 41,4% del totale mondiale. La sola Cina è passata dal 14,0 al 20,1% del totale mondiale.

A questa crescita assoluta dei ricercatori nei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo, l’Africa ha partecipato poco.

Tuttavia ci sono alcuni indicatori relativi di segno diverso. In Sud Africa, per esempio, il numero di ricercatori è aumentato tra il 2002 e il 2007 del 31%. Anche il numero di ricercatori per milione di abitanti è aumentato del 18%, passando da 51 a 60. E nel resto dell’Africa il numero di ricercatori è aumentato del 34%, passando da 32.000 e 43.000.

Anche l’intensità degli investimenti in R&S nei paesi una volta chiamati in via di sviluppo è aumentata in questi cinque anni, passando dallo 0,8 all’1% sul Pil (contro la media del 2,3% dei paesi di antica industrializzazione). Anche se in realtà solo la Cina (con l’1,6%) e altri sei paesi superano la soglia dell’1% del Pil.  Nel medesimo periodo gli investimenti assoluti in R&S in questi paesi sono raddoppiati, passando da 135 a 274 miliardi di dollari l’anno (+ 103%). Nei paesi di antica industrializzazione l’aumento è stato “solo” del 32%.

Le cause del “ritardo africano” sono molte e complesse. Hanno una natura storica ed economica. Tuttavia esse si manifestano anche attraverso sintomi alcuni dei quali possono essere curati con una certa facilità.

I paesi africani – salvo alcune eccezioni – formano pochi “dottori di ricerca”. Per esempio il Gahana nel 2002 ha avuto solo 127 studenti di PhD. L’intera Etiopia, che ha oltre 70 milioni di abitanti, nel 2004 ha avuto solo 28 studenti postdoc e uno solo ha acquisito il titolo di PhD.

Inoltre il continente soffre di un forte “brain drain”: in pratica, tra i pochi giovani che si formano molti emigrano definitivamente.

L’AMCOST e l’UNESCO ritengono che politiche più determinate, maggiori finanziamenti e la creazione di una rete scientifica continentale – per un ricercatore di Nairobi in Kenya è più facile collaborare con un collega di New York o di Londra che con uno di Lagos – può aiutare a formare più giovani e a farli restare in Africa.

Quanto alle risorse, l’Africa può contare sempre meno su aiuti esterni, che non arrivano o arrivano in misura molto inferiore alle promesse. Per esempio, nel 2005 al G8 tenuto a Gleneagles nel Regno Unito su impulso del primo ministro britannico Tony Blair furono annunciati aiuti per 3 miliardi di dollari al fine di creare centri di ricerca d’eccellenza in Africa e furono annunciati  5 miliardi di dollari per le università in dieci anni. Da allora nulla o quasi si è visto.

Diversa è, invece, l’attitudine della Cina, che cerca una sua sfera di influenza nel continente africano. Dal 2006, per esempio, è operativo un “piano in otto punti” che ha consentito a 15.000 giovani africani di andare a formarsi nel grande paese asiatico a economia emergente. Inoltre la Cina ha iniziato la costruzione di 26 ospedali e ha completato 30 centri per la prevenzione e il trattamento della malaria. Ebbene, al forum sulla cooperazione Cina-Africa tenutosi a Sharm el Seikh in Egitto lo scorso novembre, il presidente Wen Jiabao ha annunciato un rafforzamento del piano che prevede progetti comuni di ricerca, 100 diversi progetti per combattere il cambiamento del clima, 100 progetti dimostrativi di innovazione scientifica e tecnologica, il finanziamento della ricerca di 100 postdoc africani da effettuare in Cina, 20 centri di dimostrazione di sviluppo agricolo, l’addestramento di 2.000 tecnici africani nelle tecnologie agricole.

Ma tutto questo non basta. Ormai la parola d’ordine anche tra i ministri di AMCOST è: fondi dell’Africa per l’Africa. Riuscirà questa parola d’ordine ad accelerare lo sviluppo scientifico del continente? E lo sviluppo scientifico del continente riuscirà, a sua volta, ad accelerare lo sviluppo sociale ed economico? Alla fine del prossimo «decennio per la scienza in Africa» forse lo sapremo. Anche se molti problemi in Africa, anche legati alla scienza, pretendono una risposta immediata. Oggi. Da parte di tutti. Africani e non.

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