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Più conoscenza per lo sviluppo: il bilancio di un convegno

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L’incontro-dibattito organizzato da LEFT al Piccolo Eliseo di Roma il 12 febbraio scorso doveva essere un’occasione di incontro tra addetti al settore della ricerca e rappresentanti del mondo politico, per verificare sino a che punto e su quali questioni si poteva riscontare una convergenza o meno, sul che fare nell’ipotesi di un governo che dovesse trovare i partiti politici presenti all’incontro in una posizione di formale responsabilità. Incontri analoghi erano stati organizzati nella mattinata dal Sindacato Ricerca della CGIL all’ENEA in Casaccia e anche in altre sedi di enti pubblici di ricerca. 

Occorre subito dire che lo scenario della situazione drammatica del settore dell’Università, degli Enti di ricerca, del settore generale dell’innovazione tecnologica, è stato descritto e documentato da parte degli “addetti ai lavori” in termini molto ampi, da un lato con le illustrazioni di situazioni che hanno dell’incredibile e, dall’altra con elaborazioni che hanno coinvolti gli aspetti più generali delle relazioni tra lo stato drammatico del settore della conoscenza e la grave crisi economica, sociale e civile specifica del Paese, da non confondere con la concomitante crisi internazionale. Tutti questi aspetti - intervallati con richiami ad una cronaca spesso paradossale – e da interventi molto puntuali del Sindacato Ricerca della CGIL, hanno rappresentato la massa d’urto offerta agli interventi dei “politici” rappresentati da Walter Tocci e Stefano Fassina per il PD e da Umberto Guidoni per SEL.

Quelle descrizioni sottendevano una domanda di trasformazioni connesse anche alla necessità di proporre un modello di sviluppo del Paese attento alle dimensioni culturali, sociali, ambientali di questa fase storica ma anche agli scenari internazionali, incominciando dall’Europa.
Ma proprio queste modificazioni da introdurre nel nostro attuale modello di “inviluppo”, chiamano in causa l’esistenza degli strumenti necessari per operazioni del genere. E tra questi strumenti in prima linea si collocano quelli, appunto, delle capacità di fare ricerca, sviluppo, innovazione.
Costruire questo circuito, che sino ad ora per il nostro paese ha rappresentato - in virtù dei ritardi storici e dell’ottica di breve periodo espressa dalla società nazionale - un circuito perverso è la “semplice” richiesta espressa, di fatto, l’altro giorno al mondo della politica. Una richiesta tanto più “semplice” dal momento che gli strumenti d’intervento tipici di una cultura liberista e cioè gli incentivi finanziari al sistema delle imprese, nello specifico hanno un effetto pressoché nullo o quello di sciupare risorse finanziarie pubbliche, lasciando quindi sul campo da un lato una struttura e una specializzazione produttiva del tutto inadeguata ad incontrare il confronto internazionale e, dall’altra le strutture della ricerca pubblica residuali dopo la cura liberista.

Queste strutture, infatti, sono state e sono tutt’ora l’oggetto privilegiato dei tagli, delle riduzioni, delle spending review, in coerenza con le politiche di riduzione della spesa pubblica o, meglio, della presenza pubblica. Si sta assistendo, a questo punto, ad un paradosso – e non è la prima volta nella storia delle crisi del capitalismo – e cioè che da un lato il sistema privato da solo non è in grado di uscire dalla crisi ma, dall’altra, ha cercato di distruggere tutto quanto poteva rappresentare lo Stato, compreso la ricerca, senza la quale, tuttavia, ora non potrebbe che conoscere la strada della sua estinzione.
Su un piano internazionale questa politica si ammanta di parole importanti come “il rigore” ma, come è noto, i risultati hanno costretto gli stessi autori originari, e cioè il FMI, a fare autocritica; ma sul piano della realtà dei singoli paesi, per ora sembra prevalere la tattica attendista “sminuendo” quella autocritica. Questa è anche la situazione sposata dal nostro attuale Governo sopra tutto in un momento politico che, con le scadenze elettorali alle porte, sconsigli vivamente le autocritiche.

Questa apparente digressione rispetto alle questioni affrontate nelle righe precedenti è tale solo apparentemente in quanto ha piuttosto lo scopo di evidenziare come alle difficoltà “tecniche” comprese in un progetto di modificazione della struttura produttiva, occorre aggiungere le “difficoltà” di ordine politico, certamente di ancor maggiore rilievo.
In qualche modo la richiesta di esplicitare nella formulazione del programma di governo, una politica dei cento giorni contenente pochi ma significativi provvedimenti coerenti con un proposito di cambiamento, traduceva delle esigenze reali ma anche e soprattutto la possibilità. – che andava e andrà verificata – di incontrare difficoltà politiche tali da far intendere che sarebbero prevalse le logiche microeconomiche del privato, rispetto alle logiche macroeconomiche del pubblico.

Un’impostazione che non suona certamente come sfiducia nei confronti dei “politici” presenti – che, in effetti, hanno raccolto un consenso e un apprezzamento notevole - quanto una necessaria cautele nel caricarli di responsabilità che vanno ovviamente ben oltre la loro attuali responsabilità. Questa cautela non toglie, tuttavia, l’importanza delle condivisioni che ci sono state, anche nei confronti, appunto, di quegli interventi che si spera possano essere evidenziati sin dalla fase di costituzione del muovo governo dal momento che, ad esempio, una di quelle “prove” intendeva tradurre la necessità di una guida e di un coordinamento della politica dell’innovazione non con la creazione di un apposito nuovo ministero ma con l’individuazione di una responsabilità politica a livello di Presidenza del C.d.M. in materie orizzontali tra i diversi ministeri, cui fanno necessariamente capo l’Università e i vari Enti di ricerca, quali l’individuazione e la progettazione di specifici "Grandi Progetti" d’interesse nazionale, le valutazioni di ordine macroeconomico che qualificano quelle scelte e che assicurano la valorizzazione dell’investimento pubblico anche nei rapporti con le imprese, la definizione delle posizioni che devono essere portate in sede europea, la creazione di una struttura finanziaria per le operazioni “finali” dei percorsi innovativi” che richiedono l’intervento di capitali di rischio, ecc.
Naturalmente fanno parte di questi richieste di “segnali” positivi non certo le solite “riforme a costo zero” con le quali negli anni passati si sono creati i fumi delle riforme inventate per coprire il nulla o meglio i tagli e le riduzioni delle risorse umane e finanziarie, ma l’impegno esplicito a rimuove quelle norme “riformatrici” che sanciscono la chiusura delle strutture di ricerca attraverso lo strumento del tourn over del 20 % , a recuperare nell’immediato quelle risorse finanziarie tagliate con il bilancio dello stato per il 2013, nel quadro di una progettazione finanziaria tendente a raggiungere le medie europee.

A questo punto una semplice cronaca dovrebbe registrare un ampio arco di convergenza su molte questioni e su una richiesta diffusa e cioè sul fatto che la grande complessità delle questioni non potrà essere affrontata e risolta in un arco temporale breve, ma che, anche per questo, occorrono alcuni segnali immediati e credibili quali quelli sopra citati.
Se un’incertezza potrebbe essere avanzata questa potrebbe nascere proprio da questa concordanza tra i diversi attori, come se analoghe fossero le responsabilità. Questo forse perché era la stessa natura politica dell’organizzazione che aveva agevolato questa convergenza. E’ evidente che queste incertezze potranno essere chiarite nel giro di poco tempo, ma nel contempo c’è da ritenere che esiste anche una convergenza generale nell’intento di tenere aperte e attive le sollecitazioni della “base”. 


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