fbpx C’era una volta un polimero | Scienza in rete

C’era una volta un polimero

Primary tabs

Read time: 3 mins

Lo sapete perché il mitico tessuto impermeabile e traspirante chiamato Gore-Tex si chiama così e in che modo fu scoperto? Il nome deriva da quello dell’Ing. Robert Gore (Salt Lake City, 1937) il quale lavorava nell’azienda di famiglia, la W.L. Gore & Associate, specializzata nella produzione di cavi isolati in Teflon.
A coloro che non hanno dimestichezza con la chimica, si ricorda che Teflon è il prodotto della polimerizzazione del tetrafluoroetilene (politetrafluoroetilene = PTFE). Ebbene il Sig. Gore scoprì per caso che quando si stirava un cilindro caldo di PTFE era possibile ottenere un filamento robusto e poroso se invece di procedere in modo costante e graduale lo si tendeva  con uno strappo secco. Il materiale fu brevettato il 27 aprile 1976 e da allora abbiamo il cosiddetto polimero che “respira”, ampiamente utilizzato nell’abbigliamento di grandi e piccini, specie per la vita all’aria aperta.

Questa ed altre storie ci racconta Eleonora Polo, ricercatrice presso l’Istituto per la Sintesi Organica e la Fotoreattività (ISOF) del CNR di Bologna – UOS di Ferrara, infaticabile e spigliata divulgatrice scientifica, nel libro “C’era una volta un polimero”.

Porta l’eloquente sottotitolo “Storie di grandi molecole che hanno plasmato il mondo” e non occorrono specifiche competenze nel ramo dei polimeri per apprezzarle divertendosi. Certo, anche i chimici e gli scienziati in genere ricaveranno dei vantaggi dalla lettura di questo libro. Le notizie e gli aneddoti sono tanti e così ben scelti da colmare efficacemente le lacune dei testi specializzati.
Leggendo il prologo intitolato “Il primo polimero non si scorda mai”, dove l’autrice rievoca la prima polimerizzazione della sua vita effettuata all’Inorganic Chemistry Laboratory di Oxford nel 1994, è probabile che proprio i chimici rimangano affascinati dal racconto di un esperienza che forse ha lasciato un segno anche nella loro vita. Così è stato per chi scrive questa recensione, la cui prima esperienza in proposito (da ragazzino) risale agli anni in cui l’Italia festeggiava il Nobel a Natta.

Tutto il libro di Eleonora Polo è impregnato della curiosità e della passione per il lavoro che accompagnarono quell’episodio. Sono quindici capitoli, briosi e scorrevoli, impostati con metodo ma senza pedanterie. Comincia con i ferri del mestiere (parole della chimica e dei polimeri) seguiti dalla storia,  con un paio di paragrafi dedicati a Hermann Staudinger (1881-1965), il fondatore della chimica macromolecolare. 
I diversi capitoli sono raggruppati in due parti.
La prima s’intitola: “La via della gomma”. Qui, dopo la vulcanizzazione della gomma, si parla di gomma artificiale, politene e polipropilene, polivinilcloruro, Teflon e silicone. La seconda s’intitola “La via della cellulosa e della seta”.
Si parla di nitrocellulosa, celluloide, bachelite, rayon, cellofan, nylon e Kevlar.  Il libro si chiude con una tabella delle sigle misteriose che talvolta disorientano i consumatori, una bibliografia per “inguaribili curiosi” e un’utile indice dei nomi. 
La carenza di opere a carattere divulgativo di autore italiano, dedicate espressamente alla chimica, è purtroppo un dato di fatto. Il divario con la biologia, la matematica, l’ecologia e la fisica è facilmente verificabile negli scaffali delle librerie. Il libro di Eleonora Polo è davvero il benvenuto. Si spera che ottenga il meritato riconoscimento dei lettori.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Alimentazione sostenibile: imparare dalla preistoria

Dimostrazione cottura preistorica

Il progetto  Onfoods in prehistory ha voluto comprendere e ricostruire l’eredità di una agricoltura sostenibile nata nella preistoria, migliaia di anni, fa e in grado oggi di rappresentare un modello di riferimento. E lo ha fatto con particolare attenzione alla condivisione di questi valori con un pubblico più ampio possibile, sottolineando quanto si può imparare dalla ricerca archeologica e dalle comunità dell’età del Bronzo in termini di alimentazione sostenibile. Ce ne parla il gruppo di ricerca che ha portato avanti il progetto.

Nell'immagine: attività di archeologia sperimentale dimostrativa con cottura di una zuppa di lenticchie e una di roveja, con ceramiche riprodotte sperimentalmente sulla base dei reperti ceramici del villaggio dell’età del Bronzo di Via Ordiere a Solarolo (RA).

Pluridecennali ricerche sul campo, condotte da Maurizio Cattani, docente di Preistoria e Protostoria dell’Università di Bologna, e dal suo team, hanno permesso di riconoscere nell’Età del Bronzo il momento in cui si è definito un profondo legame tra la conoscenza del territorio e la sostenibilità della gestione delle sue risorse. Questa caratteristica ha infatti consentito alle comunità dell’epoca di prosperare, dando vita a villaggi sempre più stabili e duraturi nel corso del tempo.