fbpx L'incredibile storia dell'"hamburger magnetico" | Scienza in rete

L'incredibile storia dell'"hamburger magnetico"

Primary tabs

Read time: 4 mins

A partire dagli anni Sessanta la fisica delle particelle elementari ha utilizzato come elemento principale della propria strumentazione una nuova generazione di acceleratori, detti “collisori”, in cui nello stesso anello vengono immagazzinati, portati ad alte energie e quindi fatti collidere un fascio di particelle e uno delle corrispondenti antiparticelle. L’ultimo e più grande di questi acceleratori è il Large Hadron Collider del CERN. La strada che porta a LHC comincia esattamente cinquanta anni fa ai Laboratori nazionali di Frascati dell’INFN, dove un piccolo gruppo di ricercatori guidati da un brillante fisico austriaco, Bruno Touschek, realizzò AdA (Anello di Accumulazione), il primo prototipo di macchina  così concepita. L’idea  di Touschek era, in linea di principio, estremamente semplice. Era ben noto che ad alte energie è estremamente più conveniente far scontrare frontalmente due fasci di particelle che si vengono incontro con velocità uguali e opposte che non “sparare” su un bersaglio fisso un fascio delle stesse particelle preventivamente portate ad alte velocità, come in tutte le macchine acceleratrici realizzate fino ad allora.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta un progetto in tal senso era stato elaborato e portato avanti negli USA, dove si stava ultimando la costruzione di un apparato costituito da due anelli tangenti in cui circolavano due fasci di elettroni, che effettuavano i desiderati urti frontali nel punto di tangenza dei due anelli. La  novità dell’approccio di Touschek consisteva nell’idea di realizzare un unico anello in cui far circolare simultaneamente un fascio di elettroni e un fascio di positroni; per ragioni di simmetria, i due fasci di particelle, identiche sotto tutti gli aspetti tranne che per il segno della carica, avrebbero dovuto percorrere nell’anello esattamente la stessa traiettoria (ma in versi opposti) e quindi reincontrarsi periodicamente dando luogo a collisioni frontali. L’idea era brillante non tanto per la semplificazione costruttiva che permetteva di realizzare un solo anello invece di due, ma perché la collisione frontale elettrone-positrone prometteva di essere particolarmente interessante dal punto di vista della fisica che avrebbe permesso di esplorare; l’annichilazione della coppia elettrone-positrone equivaleva a “depositare energia nel vuoto” nel modo più elegante possibile, aprendo quindi la strada all’osservazione del massimo numero possibile di stati finali della reazione. Inoltre, lavorare con elettroni rendeva ragionevole la prospettiva di raggiungere energie già molto elevate con una macchina di dimensioni contenute. Insomma, l’idea era “nuova, pulita ed economica”, e soprattutto portava a ripensare la stessa logica della corsa alle alte energie, mettendo al centro dell’attenzione l’esplorazione di strade inedite intelligenti piuttosto che la ripetizione, su scala ingrandita, di esperienze già acquisite.

La proposta fu presentata da Touschek all’inizio del 1960. Si decise  di costruire una piccola macchina dedicata, come prototipo per provare la fattibilità del disegno generale, e ci si orientò verso la realizzazione di un anello di piccole dimensioni (circa un metro e mezzo di diametro) in cui iniettare elettroni e positroni a un’energia massima di 250 MeV. Nel giro di pochi giorni, il progetto era approvato e sostenuto dal CNEN con un finanziamento straordinario di 20 milioni, e un piccolo ma agguerrito gruppo diretto da Touschek e composto da persone che avevano appena terminato di mettere a punto il sincrotrone si mise febbrilmente al lavoro per la realizzazione del prototipo. Prima ancora che a effettuare delle vere esperienze di fisica, AdA doveva servire a mostrare che la strada “nuova e pulita” era anche tecnicamente perseguibile. Bisognava riuscire a raggiungere all’interno della ciambella condizioni di vuoto estremamente elevate, in modo da garantire una vita media sufficientemente lunga ai fasci di particelle circolanti, e una intensità dei medesimi abbastanza alta da garantire che tra essi potesse avvenire un adeguato numero di collisioni. Inoltre, c’era il problema inedito di iniettare nell’anello positroni oltre che elettroni.

Già meno di un anno dopo l’approvazione del progetto il “giocattolo” (“una sorta di hamburger magnetico”, secondo l’espressione di Touschek) funzionava: i fisici di Frascati potevano mostrare ai visitatori increduli le tracce lasciate da singoli elettroni circolanti nell’anello, si era avuta la prova che, nonostante il vuoto non fosse ancora estremamente spinto, il processo di accumulazione era possibile, e si osservavano vite medie apprezzabili. Il problema dell’iniezione di positroni fu risolto, dopo alcuni tentativi artigianali a Frascati, con il trasferimento, nel 1962, di AdA al laboratorio di Orsay vicino a Parigi, dove i fisici francesi disponevano di un acceleratore lineare assai più efficiente come iniettore.

AdA era concepito come un prototipo, e in quanto tale fu più utile per aver mostrato la fattibilità di una strada originale che per i risultati di fisica che permise di ottenere. Ma la percorribilità di un approccio radicalmente nuovo alla fisica delle alte energie attraverso la costruzione di macchine a fasci collidenti era stata dimostrata, e sotto questo profilo AdA ha incontestabilmente segnato un punto fermo nella storia della fisica delle particelle.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Biodiversità urbana: com'è cambiata e come proteggerla

Anche le metropoli possono essere ambienti ricchi di specie: secondo un recente studio sono ben 51 le specie di mammiferi che vivono a Roma, alcune di esse sono specie rare e protette. Nel corso degli ultimi due secoli, però, molte specie sono scomparse, in particolare quelle legate alle zone umide, stagni, laghetti e paludi, habitat importantissimi per la biodiversità e altamente minacciati.

Nella foto: Parco degli Acquedotti, Roma. Crediti: Maurizio.sap5/Wikimedia Commons. Licenza: CC 4.0 DEED

Circa la metà della popolazione mondiale, vale a dire ben 4 miliardi di persone, oggi vive nelle città, un fenomeno che è andato via via intensificandosi nell’epoca moderna: nell’Unione Europea, per esempio, dal 1961 al 2018 c’è stato un costante abbandono delle zone rurali e una crescita dei cittadini, che oggi sono circa i