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La lezione del caso di Taranto

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Le vicende dell’ILVA di Taranto che continuano a preoccupare l’opinione pubblica, non solo locale, pongono al sistema agenziale un interrogativo cogente: perché in Italia c’è bisogno dell’intervento duro della magistratura penale per riequilibrare una governance ambientale condizionata dalle lobby industriali e dai correlati interessi politico-economici? La prova dell’efficacia delle disposizioni giudiziarie sono evidenti nella recente esperienza tarantina: immediato riesame dell’autorizzazione integrata ambientale, apertura di tavoli tecnici istituzionali, presenza in loco di autorevoli ministri nella settimana di Ferragosto.

La spiegazione fornita dai media all’opinione pubblica nazionale è stata identificata nell’assenza dei controlli ambientali, finalmente compensata dalle perizie disposte dalla magistratura: una secca delegittimazione del ruolo e delle attività del sistema agenziale. Cito a mo’ di esempio l’editoriale di Nadia Urbinati, pubblicato in prima pagina su la Repubblica del 18 agosto dal seducente titolo “Metti a Taranto Erin Brockovich” in cui si denuncia che “l’intervento della legge mette a nudo uno stato di incuria colpevole che dura da anni”. Ne deriva che, se la situazione è davvero quella descritta dalla Urbinati, a che serve il sistema agenziale di protezione ambientale, costituito dalle ARPA/APPA e dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA)? Se il sistema non è in grado di esercitare i controlli ambientali necessari per tutelare l’ambiente e la salute dei cittadini, perché tenerlo in vita, con costi elevatissimi per i contribuenti (circa un miliardo di euro l’anno)? Ma è proprio vero che, per esempio nel caso di Taranto, gli unici efficaci controlli ambientali sono stati eseguiti per conto della Magistratura? La risposta a questa domanda sta nella vastissima serie di dati su tutte le matrici ambientali  acquisiti dai periti nelle loro valutazioni: un riscontro che non richiede particolari capacità giornalistiche e che smentisce alla radice il presupposto del “teorema Urbinati”.

L’esempio più pregnante di efficace governance ambientale basata sull’evidenza si riferisce alle emissioni di diossine dal camino dell’impianto di agglomerazione di ILVA. Il problema era stato segnalato dalle associazioni ambientaliste nel 2005 e inserito tra le priorità da risolvere nel protocollo d’intesa Regione-ILVA. All’epoca ARPA Puglia non aveva né strumentazioni idonee né personale esperto in materia. Le prime due campagne di campionamento furono effettuate nel 2007 grazie alla consulenza di una società svizzera per i campionamenti e all’attività analitica del Consorzio universitario INCA di Porto Marghera. A partire dal 2008 i campionamenti e le analisi sono stati effettuati direttamente dal personale di ARPA Puglia. L’istituzione del  laboratorio microinquinanti a Taranto fu realizzata in tempi record. La procedura amministrativa per l’acquisto della costosa strumentazione iniziò nel dicembre 2007 e il primo rapporto di prova fu emesso sei mesi dopo, grazie alla chiamata diretta come dirigente a tempo determinato di un  chimico “sottratto” al consorzio INCA, dotato di una consolidata esperienza nel laboratorio di una grande azienda siderurgica britannica. Recentemente il laboratorio ha ottenuto da Accredia la certificazione di qualità e si avvia a svolgere attività analitica anche per la ASL locale, potendo finalmente misurare i microinquinanti anche nei liquidi biologici. Paradossalmente, infatti, mentre sono disponibili misure per tutte le matrici ambientali e, grazie alla ASL e all’IZS di Teramo, nelle matrici alimentari, non sono note le concentrazioni di diossine nel sangue e nel latte umano.

Tornando alle misure nei fumi del camino dell’impianto di agglomerazione, le concentrazioni osservate nel 2007 erano pari a 7-8ngTEQ/Nm3, pari a una emissione annua stimata di oltre 100 gTEQ (i valori di diossine e furani sono espressi in termini di tossicità globale equivalente a quella della TCDD, il più tossico dei congeneri). Pur trattandosi di valori intrinsecamente alti rispetto alle performance indicate nel documento BREF di settore, nessun intervento sull’azienda era possibile, dato che il limite per le emissioni industriali di diossine fissato dal DLg 152/2006 era (ed è ancor oggi) pari a 10 microgrammi/Nm3, un limite irragionevolmente elevato e non confrontabile a livello internazionale, non essendo basato sul criterio della tossicità equivalente. La Regione Puglia approvò una innovativa norma (L.R.81/08) che fissava come valori limite 2.5ngTEQ/Nm3 sino al dicembre 2010 e dal 2011 0.4ngTEQ/Nm3. ILVA reagì molto duramente minacciando il licenziamento di migliaia di operai e ponendo per la prima volta l’opinione pubblica di fronte al dilemma lavoro-ambiente. Grazie ad un’efficace mediazione Stato-Regione, la legge regionale fu riapprovata, con lievi modifiche, ed ILVA fu in  grado, con investimenti molto contenuti, di rispettare i nuovi limiti previsti. In conclusione, il camino dell’impianto di agglomerazione, che prima dell’installazione degli elettrofiltri ad elettrodi rotanti (MWWP) alla fine degli anni Novanta ed in particolare negli anni in cui c’era stato il raddoppio delle linee di agglomerazione, ragionevolmente aveva emesso annualmente oltre 500 grammi TEQ di diossine, e che nel 2007 aveva una emissione annua superiore a 100 grammi TEQ, a partire dal gennaio 2011 emette meno di 10 grammi TEQ l’anno. Nel prossimo mese di ottobre sarà attivato il sistema di campionamento in continuo delle diossine che garantirà condizioni di campionamento ancor più rappresentative. L’impegno di ARPA Puglia si è rivelato efficace anche nella gestione di altri problemi di inquinamento atmosferico. Avendo riscontrato negli anni il superamento del valore obiettivo del benzo(a)pirene nel PM10 nel quartiere adiacente all’area industriale, ARPA Puglia ha realizzato un programma semestrale di monitoraggio giornaliero del benzo(a)pirene in sette siti intorno al complesso siderurgico, per documentare l’attribuibilità alla sorgente principale, costituita dalle emissioni diffuse della cokeria. Recentemente la Giunta regionale ha approvato il piano di risanamento della qualità dell’aria che prevede interventi di ILVA per risolvere le due criticità rilevate. La riduzione del benzo(a)pirene sarà ottenuta attraverso una riduzione del 10% della produzione di coke nei giorni critici dal punto vista meteo, mentre per i superamenti del PM10 legati alle emissioni diffuse del parco minerale saranno imposte misure di contenimento, che includono la copertura della sorgente. Ma, per tornare al quesito iniziale, che rimane ancora irrisolto, cosa c’è negli atti del procedimento penale che manca nella documentazione dell’Autorizzazione ambientale integrata di ILVA rilasciata dal ministro Prestigiacomo nell’agosto 2011? Delle due perizie, chimica ed epidemiologica, presenti agli atti, la prima sostanzialmente conferma le misure di ARPA Puglia (che anzi per diossine al camino e per il benzo(a)pirene sul PM10 aveva prodotto misure più elevate), mentre l’autentica novità è rappresentata dalla perizia epidemiologica in cui si dimostra (anche sulla base dei dati ambientali prodotti da ARPA Puglia) che le emissioni del complesso siderurgico hanno causato aumenti di mortalità e di morbilità nella popolazione residente nei quartieri vicini.

Ne deriva la necessità di incorporare la valutazione di impatto sanitario sia a priori (la stima dell’impatto sanitario previsto) sia ex post (attraverso una valutazione epidemiologica che quantifichi gli eventuali effetti sanitari osservati) nell’ambito dell’autorizzazione integrata ambientale. La necessità di una stretta integrazione tra il sistema sanitario e quello ambientale è evidenziata in un documento del 2000 del Ministero della Salute britannico “Investigating the Health Impact of Emissions to Air from Local  Industry” redatto proprio alla vigilia dell’introduzione delle nuove procedure di autorizzazione ambientale IPPC (l’AIA italiana) in cui si chiarisce che il gestore deve fornire una stima degli effetti sanitari dei rilasci nelle matrici ambientali. In Italia scontiamo ancora le conseguenze del brusco disallineamento tra funzioni sanitarie e ambientali prodotto a seguito del referendum del 1994 e della nascita del sistema agenziale. In linea teorica, se i limiti ambientali fossero molto al di sotto dei limiti sanitari (il NOAEL, il massimo livello al quale non si osserva alcun effetto avverso) i due ambiti potrebbero operare in modo indipendente. Ma per molti inquinanti l’evidenza mostra la sovrapposizione tra limiti ambientali e sanitari. Ad esempio, sia per i cancerogeni genotossici (come il benzo(a)pirene), sia per il PM10 (come evidenziato nelle linee guida WHO) non è nota la soglia al di sotto della quale si possa escludere l’insorgenza di effetti sanitari. Proprio per integrare gli aspetti ambientali con quelli sanitari, la Regione Puglia con una legge del luglio scorso ha previsto che ARPA, Asl e AReS definissero una valutazione di danno sanitario delle emissioni correnti degli impianti sottoposti ad AIA.& A livello di sistema nazionale, il caso Taranto suggerisce quindi la costituzione di un gruppo di lavoro misto tra le istituzioni sanitarie (Istituto Superiore di Sanità e le ASL dei siti inquinati) e ambientali (ISPRA e ARPA/APPA) per definire una linea guida sulla valutazione di impatto sanitario che possa essere recepita dalle autorità competenti in materia di AIA.

L’esperienza di ARPA Puglia dimostra che occorre andare nella direzione opposta rispetto a chi vuole deprimere il sistema agenziale; una governance ambientale efficiente e democratica ha bisogno di organi tecnici capaci di valutazioni basate sull’evidenza, in modo da contrastare efficacemente da un lato gli interessi di chi tende a nascondere gli impatti ambientali e dall’altro gli effetti distorti di una percezione del rischio disgiunta dall’obiettività (che emerge dalle dichiarazioni come quella riportata in un articolo diConcita De Gregorio su ”la Repubblica”del 27 agosto in cui si citavano 70000 morti a Taranto negli ultimi 15 anni, laddove la mortalità per tutte le cause ogni anno a Taranto non raggiunge mai i 2000 casi). Piuttosto, il problema sta nel fatto che il sistema agenziale è ancora oggi più l’aspirazione dei suoi addetti che il prodotto di una definizione normativa compiuta. Se in Italia (a differenza di USA e Regno Unito) le Agenzie Ambientali non hanno funzioni autorizzative, almeno devono essere loro riconosciute la terzietà come organi tecnico - scientifici, l’obbligatorietà dei pareri, risorse adeguate per garantire su tutto il territorio nazionali livelli essenziali di prestazioni tecniche ambientali. Da questo punto di vista, le osservazioni critiche sul sistema agenziale riportate nel documento OCSE sullo sviluppo economico dell’Italia nel 2011 meritano un’adeguata risposta di sistema. Da anni è in discussione in Parlamento  il progetto di legge Bratti-Realacci che affronta proprio le tematiche sopra riportate e prevede la definizione di un sistema agenziale integrato, efficiente ed autonomo, necessario per evitare che si possa sostenere che l’ARPA è uno strumento musicale che suona la musica gradita ai governatori regionali: un’accusa ingenerosa che colpisce soprattutto i cittadini che finiscono col trovarsi nella condizione di pazienti che non si fidano del proprio medico. Forse il caso Taranto potrebbe accelerare l’iter del disegno di legge. Forse.


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