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La ricerca scientifica fa bene ai parchi

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In Italia si contano 871 aree naturali protette, composte da 23 parchi nazionali, parchi regionali, aree marine, riserve naturali statali e regionali. Un totale di 3.163.000 ettari di superficie protetta, ossia più del 10% del territorio italiano; questo risultato si deve principalmente alla “Legge Quadro sulle aree naturali protette”, n. 394 del 6 dicembre 1991, considerata una delle migliori leggi di carattere ambientale del nostro Paese e attualmente sotto i riflettori per un tentativo di riforma da parte della Commissione Ambiente del Senato. Abbiamo il 10% del nostro capitale naturale investito in una delle fonti di rendita più sicure e durature. Eppure non ne abbiamo consapevolezza e sembra trattarsi, piuttosto, di semplice capitale immobilizzato. Lo è davvero?

Biodiversità da proteggere

È opinione diffusa ritenere che i parchi naturali siano nati per “salvare la natura”. Questo è in parte vero, perché le aree protette italiane sono enormi serbatoi di biodiversità, ospitando 5.600 specie vegetali, cioè il 50% di quelle europee, e 57.000 specie animali (I parchi nazionali, una risorsa per il paese. Ecoscienza n.3, 2010). Ma la biodiversità è realmente protetta? La maggior parte dei parchi nasce sulla base di finalità istitutive di carattere generale e impreciso, tanto che oggi nessuna area prevede un “Piano per il parco”, definito in base all’art. 12 della legge quadro 394/1991, che redige obiettivi chiari, concreti e misurabili per la conservazione della biodiversità (L’Italia dei Parchi, Dossier WWF, 2011). Inoltre, i Piani che intendono aggiornarsi in funzione delle più recenti sollecitazioni pervenute dall’Unione Europea in termini di conservazione e tutela della biodiversità, come il Piano del Parco dello Stelvio, giacciono in attesa di approvazione negli uffici del Ministero dell’Ambiente e, pertanto, ogni correzione fatta in materia non risulta effettiva (Paesaggi sensibili 2012, Scheda Parco Nazionale dello Stelvio, Italia Nostra). Riprendendo le parole di Luigi Boitani, ordinario di Biologia della Conservazione all’Università La Sapienza di Roma e uno dei più illustri biologi in Italia in merito alle politiche di tutela del nostro Paese, questo si deve al fatto che “[…] poche aree protette fanno biodiversità. Così come avere un’automobile non dimostra necessariamente che siamo viaggiatori, avere le aree protette non significa che stiamo facendo conservazione”. La stessa Strategia Nazionale per la Biodiversità (SNB), adottata il 7 ottobre 2010 nella conferenza Stato-Regioni in attuazione dell’art. 6 della Convenzione Internazionale sulla Diversità Biologica del 1994, rileva la stessa debolezza e ritiene che “la carenza nell’approccio strategico di gestione delle aree protette” sia la prima criticità esistente in materia di tutela della biodiversità. La seconda criticità, invece, è “[…] l’assenza della percezione delle opportunità e delle potenzialità di sviluppo economico e sociale offerte dalle aree protette”.

I parchi e la ricchezza del Paese

Ciò che emerge dal convegno “La Ricchezza dei Parchi – Beni Comuni e Green Economy” svoltosi il 5 ottobre a Pescasseroli (Aquila) è infatti che i parchi nazionali sono realtà dinamiche in grado di produrre oggi il 3,2% della ricchezza del Paese, permettendo all’agricoltura e al turismo di generare rispettivamente il 6,5% e il 5,9% del valore aggiunto nazionale. Nelle aree protette, inoltre, si produce, grazie alla dislocazione di 16 mila impianti fotovoltaici, il 4% dell’energia dell’intero paese, 735 Gwh per una potenza pro-capite di 25 Kwh. Tutto questo per una spesa pubblica dello 0,01%: un caffè all’anno per ogni cittadino italiano.

“Il nostro sistema nazionale delle aree protette dimostra quindi di essere non solo un inestimabile patrimonio naturale e territoriale, ma anche un fattore importante di promozione dello sviluppo locale” – afferma  Domenico Mauriello, responsabile del Centro Studio Unioncamere; dati alla mano il valore aggiunto di imprese private che si genera nei 527 comuni dei 23 parchi nazionali italiani ammonta a 34,6 miliardi di euro.

Nei soli parchi nazionali il settore primario è responsabile della produzione di 150 prodotti DOP, IGP, DOC, DOCG e 180 prodotti alimentari censiti da Slow Food (Parchi e Aree Protette. “Laboratori” per lo Sviluppo. Ecoscienza n.3, 2010), che devono alla biodiversità di interesse agricolo presente nei parchi la loro varietà unica. Come viene sottolineato nelle linee guida del Piano Nazionale della Biodiversità in ambito Agricolo (PNBA), presentate il 30 settembre 2012 dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, è alla biodiversità che si deve il patrimonio di tipicità e di prodotti tradizionali certificati (I prodotti agroalimentari di qualità, Istat, settembre 2012), fortemente presenti nell’ambito dell’export e capaci di creare un canale commerciale di qualità altamente competitivo nel mercato internazionale (Il posizionamento dei prodotti a D.O. nella GDO, Dati Ismea, 9 maggio 2012). I parchi, quindi, in virtù della biodiversità che sarebbero predisposti a tutelare, sono potenziali acceleratori di crescita economica, oltre a essere custodi della salute dell’uomo.

Biodiversità microbica

Non solo. Sempre alla biodiversità microbica dobbiamo riconoscere un ruolo fondamentale per la nostra salute. Secondo lo studio pubblicato su PNAS nel marzo scorso dal gruppo condotto dall'ecologo Ilkka Hanski dell’Università di Helsinki (Enviormental biodiversity, human microbiota and allergy are interrelated, Ilkka Hanski et al. 2012) il contatto ridotto delle popolazioni umane con l’ambiente naturale e con la sua biodiversità potrebbe modificare la composizione del microbioma della pelle – l’insieme di varietà microbiche che popolano la superficie della nostra pelle – e, a cascata, la sua specifica capacità di modulare le nostre risposte immunitarie. La ricerca ha potuto stabilire una correlazione tra la predisposizione degli individui a sviluppare una risposta allergica e il grado di biodiversità dell’ambiente in cui vivono, proprio perché quando quest’ultima diminuisce, sembra alterare la composizione relativa del microbioma umano e quindi la risposta immunitaria che esso controlla.

Talvolta, poi, le forme di vita che prosperano nei parchi naturali possono regalarci anche delle sorprese. È il caso di Thermus aquaticus, un batterio termofilo rinvenuto per la prima volta nelle pozze d’acqua calde del parco naturale di Yellowstone (USA). Il batterio è diventato importantissimo per la biologia molecolare in quanto sorgente di un enzima termostabile fondamentale per il processo di amplificazione del DNA tramite reazione a catena della polimerasi (PCR). Oggi il mercato della PCR è valutato intorno ai 200 milioni di dollari annui.

La ricerca scientifica nei parchi

La valorizzazione della biodiversità passa anche attraverso la ricerca scientifica. Come spiega Ilkka Halski, “gli effetti degli impatti provocati dalle attività antropiche sono ancora poco chiari. Senza ricerca scientifica, le conseguenze delle nostre azioni sulla natura resteranno in buona parte sconosciute”. In Italia la ricerca anche in campo ecologico e naturalistico non gode certo di grande attenzione, soprattutto da parte di Stato e regioni. Anche se non mancano gli esempi positivi. In Trentino, ad esempio, la “promozione dello studio scientifico” è uno dei principali fini istituzionali inquadrati nella Legge di Ordinamento dei Parchi Naturali del Trentino (Legge Provinciale 18/88, art. 1), legge decisamente innovativa anche per il particolare sguardo che rivolge all’uso sociale dei beni ambientali. L’art. 24 di tale legge dispone che l’attività dell’ente di gestione del parco sia regolata dall’approvazione di un “Programma annuale di gestione”, ed è per questo che, ad esempio, nel 1990 il Parco naturale dell’Adamello-Brenta adottò il suo primo programma annuale, strutturato in tre chiari passaggi: interventi di conservazione, educazione naturalistica e ricerca scientifica. La ricerca trovò degna attenzione all’interno del programma e in particolare venne esplicitamente connessa a una corretta gestione delle risorse territoriali (La ricerca scientifica nei parchi: l’atlante degli anfibi e dei rettili del Parco naturale dell’Adamello-Brenta, Parchi, N. 2, 1991). Allora venne proposta un’indagine sulla distribuzione e sull’ecologia delle specie di anfibi e rettili del Parco, con il presupposto che la conoscenza e la registrazione della consistenza della erpetofauna rappresentasse un elemento di prioritaria importanza per la valutazione dello “stato di salute” del territorio e indicatore di eventuali alterazioni ambientali. L’acquisizione dei dati non ebbe solo validità scientifica, ma servì per indirizzare anche una serie di interventi più generali sul territorio, in modo che venisse minimizzato l’impatto su queste importanti popolazioni di vertebrati.

Le aree protette non sono realtà a se stanti, ma sono inevitabilmente connesse agli spazi che abitiamo. E sono perfetti e unici laboratori in cui poter studiare quella complicata serie di processi che permettono la costituzione di un habitat. Alline Storni, ecologa ed ex-responsabile per la gestione ambientale nella Reserva de desenvolvimento sustentável Mamirauá in Brasile, sostiene che il finanziamento della ricerca scientifica nei parchi è prioritario: “Solo conoscendo la biodiversità possiamo conservarla e sviluppare nuove strategie per salvaguardarla. In tutto il mondo, i parchi nazionali rappresentano i più importanti serbatoi di biodiversità e hanno il compito di preservare paesaggi, formazioni geologiche, flora, fauna o ambienti marini. I risultati ottenuti dalla ricerca sono utili per proteggere il futuro di tutte le specie, compresa quella umana”. A patto che gli indirizzi di ricerca vengano armonizzati per le finalità di conservazione. Come ben illustra Lucia Naviglio nell’articolo “La ricerca scientifica applicata alle aree protette” chi studia cervi e caprioli vorrebbe che nelle zone montane aumentassero le radure e gli spazi erbosi adatti all’alimentazione degli ungulati a discapito ovviamente degli alberi, che sono invece il centro di interesse dei forestali, i quali vorrebbero vedere i boschi riprendere spazio. Chi è interessato agli ungulati sarà inoltre interessato alla loro proliferazione e vedrà dunque di cattivo grado la reintroduzione di lupi o linci, predatori che possono nuocere alla permanenza di cervi e caprioli.

La coordinazione delle ricerche è quindi fondamentale per preservare l’area; ma come si può raggiungere un coordinamento sensato? Di nuovo con la ricerca scientifica: è solo studiando le diverse interazioni tra gli attori che è possibile definire attività efficaci per la gestione delle aree protette. È stato grazie ad un attento studio che si è arrivarti a capire che la diminuzione dei piccoli di camoscio nell’appennino centrale abruzzese è determinata dalla presenza dell’uomo che disincentiva il camoscio (a sua volta troppo occupato a sfuggire l’insistente presenza dell'uomo) all’alimentazione, rendendone difficile la gestazione; come la modificazione continua del panorama costiero toglie alle tartarughe comuni quei fondamentali punti di riferimenti necessari al ritrovamento di una spiaggia e alla deposizione delle uova.

E' un segnale interessante che il Ministero abbia emanato, il 28 dicembre del 2012, una direttiva per l’impiego prioritario delle risorse finanziarie a indirizzo delle attività dirette alla conservazione della biodiversità. "La direttiva” – si legge nel testo – “è uno strumento d’indirizzo per la pianificazione degli obiettivi di miglioramento delle performance degli enti parco, a partire dalle finalità istituite delle aree protette promosse dalla legge quadro 394/1991”. Le risorse per i parchi - e per la ricerca in queste aree - restano davvero poche. Ma a questo punto è importante che almeno quelle briciole vengano date a un settore strategico per la conservazione della natura nel nostro Paese.

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