Da tempi antichissimi l'uomo descrive e interpreta il mondo servendosi della lingua, e tale è la suggestione di questo strumento che le sono stati conferiti attributi divini: nella tradizione giudaico-cristiana è con la parola che Dio crea il mondo. Si è finito col credere che la parola fosse più importante di ciò che dovrebbe descrivere: il segno ha preso il posto della cosa. Anzi, gli universi simbolici e rappresentativi creati dall'uomo tramite il linguaggio costituiscono un diaframma rispetto all'ambiente, dal quale ci siamo irrimediabilmente allontanati.
Nel corso dell'evoluzione, la comparsa del linguaggio verbale, profondamente innestato nella biologia umana e sua conseguenza inevitabile, ha portato a un ricablaggio totale dei circuiti neurali: un animale capace di linguaggio verbale non solo si esprime in modo diverso, ma percepisce, conosce, ragiona, ricorda e interagisce con il mondo in modo diverso. Inoltre la nuova macchina cognitiva si è trasformata in un congegno che obbliga alla rappresentazione categoriale e astratta, costringe allo sviluppo della tecnologia e genera valori, opinioni, credenze, religioni. Come si sa, questo potente strumento espressivo e comunicativo ha dato luogo all'accumulazione della cultura e allo strapotere adattativo dell'uomo, che in un tempo relativamente breve è diventato la specie migrante e dominante per eccellenza. La corsa febbrile che ci ha portato ad occupare ogni angolo del pianeta ha annullato la nostra capacità di speciazione biologica ma, per converso, ha favorito enormemente la pseudospeciazione culturale.
In tutto ciò è insito il rischio che sotto la spinta del simbolismo linguistico e del conseguente impulso tecnologico, l'uomo trasformi l'ambiente in modo da conseguire vantaggi immediati e momentanei, che alla lunga potrebbero rivelarsi vicoli ciechi disastrosi. E ciò, secondo molti osservatori, è quanto sta avvenendo: la spinta iperadattativa dovuta al linguaggio, alla cultura, al simbolismo e all'astrazione altera spazi e tempi del sistema complessivo, lo squilibra e ne compromette l'omeostasi.
Come si è detto, nella tradizione giudaico-cristiana la stupefacente capacità rappresentativa della parola ha fatto attribuire la creazione del mondo a un atto linguistico. Anche la radice greca della cultura occidentale ha attribuito un valore grandissimo al logos e ha nutrito l’ambizione di tradurre in parole (in simboli) tutta la sapienza, tutta la struttura, tutta la dinamica contenute nel mondo. Anche la nostra scienza, sulla scorta dei Greci, cerca di tradurre in descrizioni esplicite - linguistiche, simboliche, matematiche - ciò che è implicito nella realtà.
Ma il tentativo che la scienza compie di fornire un'immagine linguistica totale del mondo incappa nell'ostacolo tipico di ogni processo di traduzione, cioè l'incompletezza, tanto più insuperabile in quanto conosciamo poco o punto una delle lingue in gioco: la lingua del mondo. Nonostante la fiducia metafisica nutrita da Galileo che la natura sia un libro “scritto” in termini comprensibili e decodificabili dalla scienza, cioè in caratteri matematici (ma quali caratteri: i triangoli, i frattali o qualche mostruoso algoritmo?), la lingua del mondo resta ignota. Anche se vi sono forti ragioni di credere, con Eugene Wigner, che la matematica possegga una straordinaria per quanto “irragionevole efficacia nelle scienze naturali”, non possiamo tuttavia sottrarci all'impressione che la descrizione scientifica della realtà sia solo una nostra interpretazione.
La traduzione letteraria, che è certamente più facile perché vuole trasporre un testo da una lingua naturale a un'altra, rende manifesto che la fedeltà è impossibile. Ogni traduzione alla fin fine si rivela un'interpretazione, con tutte le limitazioni intrinseche dell'interpretazione, prima fra tutte quella di non essere mai “vera”, unica e definitiva. L'interpretazione è sempre rivedibile, perfettibile, modificabile, storica: e sono proprio questi, almeno in linea di principio, i caratteri della descrizione scientifica.
Parallelamente, a partire dall’epoca greca, l’Occidente ha considerato la mente (l’anima, lo spirito) superiore al corpo, fino ad esprimersi nella “stravagante” affermazione di Cartesio cogito ergo sum. Stante il legame inestricabile tra pensiero e parola, questo rapporto di subordinazione rispecchia la supposta subordinazione della realtà rispetto alla parola.
Certo non sono mancate le eccezioni, come emerge da questa citazione: “Due sono i libri che Dio ci ha consegnato: il libro della totalità delle creature, ovvero il libro della natura, e il libro della Sacra Scrittura.” Viene subito alla mente Galileo, ma la citazione è invece dal Liber creaturarum del catalano Ramon Sibiuda, rettore dell’Università di Tolosa nei primi decenni del Quattrocento, il quale predica l’indiscutibile superiorità del libro della natura rispetto a quello della Scrittura, cioè della realtà rispetto alla parola. Il libro della natura, afferma Sibiuda con un’arditezza che puzza di eresia, non è falsificabile, mentre la Scrittura, data all’uomo in un secondo tempo, può essere interpretata male. Dunque il reale è superiore alla sua descrizione. Ma Sibiuda è appunto un’eccezione: la nostra civiltà si è sviluppata nel culto della parola scritta e dei suoi supporti, in particolare del libro, sostenuta in questo dalla duplice tradizione del Verbo e del Logos.
La cultura verbale nutre sospetto e diffidenza nei confronti delle altre forme di comunicazione. A proposito delle immagini scrisse Goethe: “A che serve dominare la sensualità, coltivare l'intelletto, assicurare alla ragione la sua supremazia? La forza dell'immagine è in agguato [...] e riemerge con l'innata crudezza dei selvaggi che amano le smorfie”. Queste parole esprimono tutto il biasimo per le forme espressive che non siano quelle linguistiche.
Tanto importante è la parola che per insegnare la lettura e la scrittura, che sono le tecniche fondamentali per la trasmissione della cultura, cioè del mondo tout court, è stata istituita la scuola. (5 - continua)