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L'Italia ignorante

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Tranne poche isole di altissima cultura, il nostro è un Paese di ignoranti: una scuola disastrata, un’università sciupata, una classe di politici e amministratori mediamente di ignoranza abissale. Un Paese che non legge, e se legge raramente capisce, e se parla sproloquia: il tasso di analfabetismo di ritorno è elevato, anche tra i laureati: non che costoro siano del tutto incapaci di leggere e scrivere, ma non sanno esprimersi, hanno conoscenze ridottissime, un lessico primitivo, una sintassi rudimentale, non riescono a interpretare il significato di proposizioni anche semplici. Questo panorama desolante ci è offerto da “Ignoranti. L’Italia che non sa, l’Italia che non va” (Chiarelettere, Milano, 2013), di Roberto Ippolito, giornalista libero battitore che ha curato a lungo le pagine economiche de La Stampa, ha diretto la comunicazione della Confindustria e le relazioni esterne della Luiss di Roma. Il volume, documentatissimo, desta amarezza e ribellione di fronte a una situazione che, pur tristemente nota nei suoi tratti generali, qui viene analizzata con acribia puntigliosa, ma anche con tratti di fine umorismo.

Non è facile elencare le situazioni e gli esempi forniti dall’autore: cartina di tornasole dell’ignoranza diffusa sono per esempio i concorsi per l’accesso alla magistratura, all’avvocatura, alla polizia, alla scuola (si veda l’esilarante florilegio di strafalcioni alle pagg. 25-28). Non solo i candidati dimostrano spesso un’incultura fenomenale, ma anche le domande cui dovrebbero rispondere sono farcite di errori. I concorsi non sono che un caso particolare di una situazione generale che è stata a lungo (volutamente o per insipienza?) ignorata dalla classe dirigente e che ora viene a galla a causa dell’inevitabile confronto con gli altri Paesi dell’Unione Europea, confronto che vede l’Italia quasi sempre nelle posizioni di coda per quanto riguarda gli investimenti e l’impegno per la scuola, per i musei, per l’editoria, per la ricerca.

E proprio la trascuratezza per la scuola e per l’università è per Ippolito (e come dargli torto?) la causa principale di questa situazione. E non solo di trascuratezza si tratta, ma di accanimento: di fronte alla crisi economica i governi che si sono succeduti (anche quello cosiddetto tecnico di Monti) hanno creduto bene calare la mannaia sulle spese per l’istruzione, l’innovazione e la ricerca, senza rendersi conto che, come ha affermato il presidente Obama, “tagliare il deficit riducendo gli investimenti nell’innovazione e nell’istruzione è come alleggerire un aereo troppo carico scaraventando giù il motore.” E se da una parte lo stato comatoso della nostra cultura è effetto delle periclitanti condizioni della scuola e dell’università, dall’altra esso è causa della nostra scarsa capacità di innovazione, produzione e forza concorrenziale. Infatti per Ippolito alla base delle difficoltà delle nostre imprese sullo scacchiere europeo e su quello globale sta proprio la fragilità della nostra base culturale, soprattutto tecnica e scientifica.
I problemi della scuola sono tanti, e complicati: non per nulla tutte le riforme tentate negli ultimi decenni hanno fornito esiti negativi. Tra questi: la disincentivazione degli insegnanti, i tagli delle spese, che colpiscono anche la sicurezza degli edifici scolastici, la scarsità delle attrezzature e, non ultimo, l’abbandono di tantissimi allievi in età scolare. Questo problema, acuto soprattutto nel Mezzogiorno, assume tinte preoccupanti perché oltre a causare la perdita di forze intellettuali potenziali, esso finisce con l’alimentare le file della malavita organizzata. Anche sotto questo profilo l’Italia brilla in Europa di luce nera, come ancora una volta l’autore documenta con cifre e citazioni al limite della minuziosità (ma la lettura non è mai appesantita da questa diligenza documentaria).
Si sa che gli Italiani leggono poco, ma Ippolito ci illustra quanto poco: in media una famiglia su dieci non possiede nemmeno un libro (anche qui con differenze territoriali impressionanti: in Sicilia due su dieci, in Trentino-Alto Adige una su quaranta, tanto che qualcuno ha affermato che la questione meridionale coincide in larga parte con la questione dell’istruzione nel Sud). E il numero dei lettori (forti o deboli che siano) tende a decrescere, come decresce il numero dei lettori di quotidiani, di frequentatori dei teatri, di visitatori dei musei e via dicendo. Sicché il nostro immenso patrimonio culturale, artistico e storico va alla deriva per l’incuria degli amministratori, il disinteresse dei politici e l’indifferenza crescente del pubblico (vedi il caso Pompei). Ben diversa è la situazione negli altri Paesi UE (vedi il caso Louvre).
Tale è l’impreparazione impartita dalla scuola superiore agli studenti che vogliono poi iscriversi all’università, che diversi atenei hanno dovuto istituire corsi di recupero per le materie di base, tra cui matematica e soprattutto italiano (i cosiddetti corsi di primo soccorso linguistico): in tal modo l’abbassamento di livello della scuola comporta un rallentamento dei ritmi e una caduta di livello dell’università (in una recente graduatoria internazionale i nostri atenei migliori, Pisa e Roma La Sapienza, galleggiano in una zona di grigiore tra il 100-esimo e il 150-esimo posto...). Tuttavia non occorre transitare dall’università per restare ignoranti: il numero dei parlamentari laureati è diminuito negli ultimi anni, ma non ne è diminuita l’impreparazione media, come risulta dai loro discorsi o dalle interviste raccolte. (Ippolito non lo dice, ma anche i giornalisti e in genere i mediatori culturali hanno subìto, anche se forse in misura meno elevata, lo stesso degrado culturale, specie in campo linguistico.)

Non si può certo esaurire la ricchezza documentaria di questo libro con un’elencazione dei suoi contenuti: basti ricordare che le donne, spesso caratterizzate da ambizione, preparazione e interesse superiori a quelle dei maschi, trovano molti ostacoli sul loro cammino professionale, a parità di titoli guadagnano meno dei loro colleghi uomini e tendono ad essere discriminate nei concorsi e nelle assunzioni. Tutto ciò è per Roberto Ippolito il segno di una società arcaica, che invece di evolversi verso le professioni ad alto valore intellettuale e specialistico, resta ancorata a una visione chiusa e tradizionale. Ne è un segno l’indifferenza, o addirittura l’ostilità, nei confronti del computer e soprattutto di internet, considerata uno strumento inutile se non dannoso: e ancora una volta il confronto con gli altri Paesi UE è convincente.
Per chiudere voglio citare uno degli esempi più clamorosi d’incomprensione dell’importanza della ricerca scientifica da parte dei nostri governanti, in particolare del governo dei tecnici guidato da Mario Monti. Nel luglio 2012 viene confermata la scoperta del bosone di Higgs, sulla cui importanza per la comprensione del nostro universo fisico è superfluo soffermarsi. A questa scoperta hanno dato un contributo essenziale i ricercatori italiani che lavorano al Cern di Ginevra, ai quali il 6 luglio il presidente Napolitano invia una vibrante lettera di felicitazioni. Ventiquattr’ore dopo compare sulla Gazzetta Ufficiale la tabella dei tagli alla ricerca decisi dal governo in base alla revisione delle spese. “Insomma, conclude amaramente Ippolito, il premio per il bosone è una penalizzazione di tutto il mondo scientifico italiano” (pag. 113).


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