fbpx La scoperta dell’adrone esotico | Scienza in rete

La scoperta dell’adrone esotico

Primary tabs

Read time: 3 mins

I quark sono particelle elementari che si combinano per formare particelle più complesse chiamate adroni. A tenerli insieme è l’interazione nucleare forte, una delle forze fondamentali della natura. Le composizioni di quark e delle loro antiparticelle (gli antiquark) si possono descrivere e prevedere tramite un particolare schema chiamato “modello di quark”: oggi sappiamo che i quark si combinano in gruppi di tre per formare i barioni (tra cui i protoni e i neutroni che costituiscono i nuclei atomici) o in coppie quark-antiquark dando origine ai mesoni, tra i quali i pioni o i kaoni.
Altre possibilità? Nel corso dei decenni è stata ipotizzata l’esistenza di svariati adroni esotici, ovvero non previsti dal modello di quark: tra questi il cosiddetto “pentaquark”, che sarebbe formato appunto da cinque quark.
Queste particelle, però, sono rimaste soltanto delle ipotesi. Sostanzialmente, il modello di quark rimane invariato da decenni.

Le cose, ora, potrebbero cambiare. A partire da alcuni dati prodotti dall’acceleratore di particelle LHC (Large Hadron Collider) del CERN e raccolti dallo strumento LHCb, infatti, un team internazionale di ricercatori ha scoperto  una particella che non rientra nel tradizionale modello di quark.
“Abbiamo confermato l’osservazione non ambigua di uno stato esotico – racconta Tomasz Skwarnicki, uno degli scienziati più coinvolti in questa ricerca, – qualcosa che assomiglia a una particella composta da due quark e due antiquark.” Questa particolare combinazione non è classificabile secondo le attuali conoscenze, secondo cui gli adroni osservati finora sono soltanto barioni e mesoni.
La scoperta è avvenuta analizzando decine di migliaia di decadimenti mesonici, selezionati su svariati miliardi di collisioni prodotte da LHC. “Con un campione così vasto – commenta Sheldon Stone, che guida un gruppo di ricerca del CERN – è necessario usare un metodo di analisi statistica molto potente se si vogliono avere misure dirimenti.”

L’aspetto statistico delle misurazioni, tipico della fisica delle particelle, è particolarmente rilevante per questa scoperta. La rivelazione di questo adrone esotico, infatti, rappresenta l’ultimo atto di una storia che risale al 2008.
In quell’anno i ricercatori coinvolti nell’esperimento Belle, in Giappone, riscontrarono l’evidenza di una particella formata da due quark e due antiquark, che battezzarono Z(4430). La comunità scientifica mise in dubbio la veridicità di quell’osservazione, contestando soprattutto il metodo di analisi statistica del gruppo giapponese.

L’analisi venne condotta nuovamente allo SLAC (Stanford Linear Accelerator Centre), negli Stati Uniti, usando i dati prodotti dall’esperimento BaBar. Gli scienziati americani non riuscirono a provare che la particella esistesse, ma nemmeno che non esistesse. Spiega Skwarnicki: “Il gruppo di BaBar poté semplicemente affermare che, basandosi sui loro dati, non c’era la necessità di ipotizzare l’esistenza di questa particella”.

Come spesso accade nel mondo della ricerca scientifica, il team di Belle rielaborò allora con maggior precisione i propri dati e ottenne una significatività statistica sufficientemente elevata (5,2σ) per l’esistenza della Z(4430), ma la loro analisi venne nuovamente impugnata in quanto troppo complessa e basata sul verificarsi di troppe assunzioni fisiche. Come si sa, tra due litiganti il terzo gode. In questo caso il “terzo” è proprio il gruppo di ricerca dell’esperimento LHCb, che ha riscontrato l’evidenza della particella in questione con una significatività statistica straordinaria (almeno 13,9σ), eliminando così ogni possibile dubbio e ponendo definitivamente fine alla questione. “È fantastico – prosegue Stone – dimostrare finalmente l’esistenza di qualcosa che a lungo si pensava potesse trovarsi lì fuori.”

L’osservazione della particella Z(4430) sarà utile per comprendere meglio la natura più intima della materia, e permetterà di migliorare l’attuale modello dei quark. Secondo Skwarnicki, “questa scoperta potrà fornirci un nuovo punto di vista sulla fisica delle interazioni forti”.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Una correlazione tra l’accumulo di plastica e il rischio cardiovascolare

Uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine evidenzia per la prima volta la presenza di micro- e nanoplastiche nelle placche aterosclerotiche di pazienti sottoposti a intervento chirurgico. Seguendo i pazienti per i 34 mesi successivi, il gruppo di ricerca ha potuto rilevare anche un maggior rischio di malattia cardiovascolare nei pazienti in cui erano state rilevate le microplastiche rispetto a coloro che invece non le avevano accumulate, e l’aumento di alcune molecole associate all’infiammazione

Che la plastica costituisca un enorme problema ambientale è ormai del tutto riconosciuto; così come sono riconosciuti i danni che causa a molte specie, soprattutto marine, che finiscono intrappolate da frammenti di reti, o i cui stomaci sono così pieni di rifiuti da impedire loro di alimentarsi.