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L’epidemiologia in tribunale: scienza, giustizia, politica

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L’epidemiologia si propone di indagare le relazioni tra ambiente e salute e le variazioni delle risposte individuali. Cercando di spiegare quali persone si ammalano (o possono ammalarsi) e per quali cause, l’epidemiologia opera per “promuovere, proteggere e restituire la salute [attraverso] lo studio della distribuzione e dei determinanti dello stato di salute o di eventi in popolazioni definite…”

(A Dictionary of Epidemiology, 4th Ed. , Oxford University Press, New York 2001)

 

Gli studi epidemiologici sono classificabili in termini molto generali in studi osservazionali e studi d’intervento e questi ultimi sono generalmente promossi quando con l’osservazione si rilevano anomalie nell’incidenza delle malattie in un determinato ambito spaziale o di popolazione.  E’ quanto dovrebbe accadere perchè la conoscenza epidemiologica dovrebbe essere usata a supporto delle decisioni politiche, per ridurre al minimo l’esposizione della popolazione al pericolo e prevenire il verificarsi di un danno. Si assiste invece a un intensificarsi dei procedimenti penali, dove sono giudici o magistrati a commissionare studi epidemiologici colmando le lacune della politica e della pubblica amministrazione nell’attività di governo della salute e del territorio. Ma quello della ricerca dei reati è solo una faccia della medaglia, l'altra - ancora più rilevante - è quella della tutela del diritto dei cittadini a una vita sana (Art. 32 della Costituzione) che andrebbe assicurata con attività di prevenzione e di controllo, spesso al di sotto delle necessità.

Il caso dello studio ABC - Ambiente e Biomonitoraggio a Civitavecchia

Francesco Forastiere - Dipartimento di Epidemiologia della regione Lazio – è il responsabile scientifico dello studio ABC, un progetto di “Indagine trasversale sulla salute, sulle abitudini di vita e sui livelli di biomarcatori di esposizione ambientale della popolazione residente nel comprensorio di Civitavecchia” coordinato dal Dipartimento stesso. Lo studio, che si effettua nel biennio 2013/2014, è finanziato dall’Autorità Portuale di Civitavecchia anche grazie all’intervento del procuratore di Civitavecchia, Gianfranco Amendola.

Nel 2008 il Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio aveva valutato l’opportunità di un’indagine di biomonitoraggio nel comprensorio di Civitavecchia perché la situazione di tipo espositivo nell’area era molto complessa in ragione delle molteplici fonti di carattere ambientale e lavorativo presenti e passate. La proposta fu sottoposta agli organismi istituzionali locali. “A partire da un dato storico del comprensorio di Civitavecchia, rappresentato da un più elevato tasso di mortalità per tumori polmonari soprattutto negli uomini ma anche nelle donne - spiega Forastiere - abbiamo sempre riscontrato una certa difficoltà nell’attribuire questi tumori in eccesso a una causa specifica: le esposizione professionali nel porto e a bordo delle navi, le esposizioni ambientali del cementificio, delle centrali termoelettriche, delle navi stesse. Per quanto riguarda le centrali la situazione è ancora più complicata perché nella storia della zona sono state tre e in origine tutte a olii combustibili: quella di Fiumaretta, nel centro di Civitavecchia chiusa nel 1990, poi Torrevaldaliga Sud, di recente convertita a gas (oggi di proprietà di Tirreno Power) e infine Torrevaldaliga Nord di recente convertita a carbone (di proprietà Enel)”.

Lo studio ABC coinvolge 1200 persone residenti nell’area che comprende i comuni di Civitavecchia, S. Marinella, Allumiere, Tarquinia e Tolfa. E’ accompagnato da una valutazione delle ricadute al suolo delle emissioni in atmosfera (degli impianti industriali e portuali presenti nell’area) attraverso l’elaborazione di modelli di dispersione. Secondo Forastiere lo studio, affidato alle istituzioni regionali e locali in collaborazione con ARPA Lazio, “è il risultato di un rapporto tra istituzioni diverse, che invece di agire all’interno di compartimenti stagni hanno instaurato un dialogo fertile che ha sbloccato una situazione che si era in qualche modo irrigidita”. Anche la Procura di Civitavecchia dunque partecipa alla governance di un territorio caratterizzato da una situazione complessa, dove sono in corso anche altre attività di monitoraggio epidemiologico. “Abbiamo iniziato in precedenza uno studio di coorte di tutta la popolazione di Civitavecchia e dintorni, lo stesso ambito geografico di ABC - spiega Forastiere – dove abbiamo reclutato la popolazione su base anagrafica e con la storia di residenza di ciascuno monitoriamo per ogni soggetto gli eventi sanitari, i ricoveri ospedalieri e/o la mortalità per causa. E’ uno studio parallelo che ci permetterà di distinguere meglio se ci sono, e dove si concentrano, gli aggregati di malattia ”.

La ricerca della responsabilità e delle eventuali cause antropiche delle malattie si rende necessaria anche a causa dell’inadeguatezza degli attuali limiti normativi di concentrazione degli inquinanti per la tutela della salute. “Far osservare le leggi è molto importante – precisa Forastiere - perché protegge i cittadini dagli effetti nocivi, ma non completamente. Il problema riguarda alcune situazioni ambientali in cui esiste un livello di inquinamento di base relativamente basso ma un’industria particolarmente inquinante che, pur non determinando il superamento dei limiti di legge, potrebbe causare un danno sanitario”. Non a caso la normativa AIA - Autorizzazione Integrata Ambientale per l’autorizzazione delle industrie inquinanti - prevede di prendere in considerazione le specificità del sito nell’elaborazione delle prescrizioni ambientali, che comprendono i limiti di emissione. Tanto più che la tossicità ad esempio delle Polveri è costantemente rimessa in discussione. Mentre la IARC inserisce lo smog tra i cancerogeni di prima classe, uno statement conclusivo del progetto dell’OMS REVIHAAP - “Review of evidence on health aspects of air pollution” - suggerisce una revisione entro il 2015 delle Linee Guida della qualità dell’aria per i PM (Polveri). Spiega Forastiere che “contrariamente a quanto pensavamo fino a poco tempo fa, anche le particelle grossolane hanno un effetto sanitario e quando si parla di PM si parla anche della possibile tossicità delle frazioni coarse, cioè tra PM2,5 e PM10”.

Gli studi epidemiologici devono essere disposti e validati nelle sedi istituzionali o nei tribunali?

Realizzare studi epidemiologici in un contesto istituzionale ha l’indubbio vantaggio di garantire tempi più rapidi per il loro assoggettamento a peer review (il confronto con cui la comunità scientifica valida o confuta la metodologia e i risultati della ricerca), un passaggio non previsto nell’ambito di un procedimento giudiziario. “Anche in un tribunale – secondo Forastiere – dovrebbe essere possibile una discussione di natura scientifica, quasi una peer review, che è più affidabile di documenti di parte. Sebbene il giudice, che non è un esperto, sia sempre più spesso supportato da consulenti superpartes - conclude Forastiere - nella comunità degli epidemiologi il dibattito è aperto sulla possibilità, per la comunità scientifica, di elaborare procedure per individuare soggetti idonei (per competenza, imparzialità ed assenza di conflitto di interesse in relazione a una res giudicandi) cui affidare il giudizio scientifico che potrà essere decisivo in sede giudiziaria”. Al proposito, in un articolo pubblicato nel 2005 da E&P e ripreso da Benedetto Terracini nel 2011, Luca Masera chiedeva se “la pluralità di voci nel mondo scientifico rende irrealizzabile questo obiettivo e non rimane che affidarsi alla capacità di giudizio e alla autoritas del giudice?”

Mentre prosegue il dibattito sulla questione, occorre constatare che purtroppo le indagini epidemiologiche finalizzate a verificare eventuali situazione di pericolo sono svolte quasi esclusivamente quando commissionate dalle procure all’interno dei procedimenti giudiziari. Dopo il caso di Taranto, quello più recente è il caso della procura di Savona e delle perizie commissionate per valutare l’impatto della centrale a carbone di Vado Ligure, proprietà di Tirreno Power. Secondo Masera “questa è una distorsione del sistema, infatti dovrebbe essere l’autorità amministrativa a svolgere l’azione di monitoraggio e controllo, ben prima dell’intervento della magistratura. Occorre tuttavia precisare che la magistratura quando interviene - in funzione dell’obiettivo specifico della prova di reato - ha poteri d’indagine che non ha l’autorità amministrativa o sanitaria, e questo permette di fare indagini che altrimenti non si potrebbero fare o si potrebbero fare con procedure più complicate”.
Bisogna anche dire che se vi fosse la disponibilità di studi adeguati e aggiornati di parte pubblica, anche l’autorità giudiziaria sarebbe facilitata e potrebbe procedere più speditamente. “Una ricercatrice consulente nel processo di Taranto - aggiunge Masera - mi raccontava che è fantastico avere un magistrato alle spalle perché si possono chiedere le cartelle all’Inps, i dati di morte all’amministrazione comunale, quelli dei ricoveri all’ASL, e loro te li devono fornire anche in tempi molto rapidi altrimenti arrivano i carabinieri. Perché il problema è anche quello dell’accesso ai dati che molto spesso non è così semplice per un singolo ricercatore, perché magari le amministrazioni locali non hanno interesse allo svolgimento di ricerche che possano allarmare la popolazione. Quindi oltre al fatto di svolgere un ruolo di supplenza, va detto che la Procura ha strumenti che facilitano quest’azione rendendola più rapida e efficace. Lo studio di altissima qualità realizzato a Taranto in una situazione normale avrebbe richiesto molto più tempo e disposto di minori risorse rispetto a quelle che si rendono disponibili con l’intervento dell’autorità giudiziaria”.

Professore aggregato di Istituzioni di diritto penale all’Università degli Studi di Brescia, Luca Masera ha le idee piuttosto chiare a proposito del ruolo della giustizia nella governance del territorio. A suo avviso “il caso citato di Civitavecchia, per com’è descritto e ancorché positivo rispetto allo scopo, rappresenta una situazione ancora più anomala: il Procuratore che svolge azione di sollecitatore segnala una carenza dell’autorità politica che diventa sempre più evidente ma che non deve diventare prassi”. Evidentemente c’è un problema. “Se la volontà della politica fosse chiara – aggiunge Masera - si potrebbero identificare dei soggetti amministrativi cui attribuire gli stessi poteri d’indagine che hanno le procure. Se ad esempio ISPRA o le ARPA fossero i committenti delle indagini e si stabilisse che tutti i soggetti coinvolti sono tenuti a fornire celermente i dati richiesti, questi interventi anomali della magistratura potrebbero essere evitati”.

L’evoluzione dell’accertamento giudiziario: danno, pericolo o nocività?

Con l’avvio dei processi tesi a dimostrare il danno arrecato ai lavoratori per l’esposizione a sostanze tossiche, a partire dagli anni ’90 nasce l’esigenza di stabilire un nesso di causalità tra l’esposizione individuale e la “malattia professionale” che in alcuni casi ha portato alla morte del lavoratore (Porto Marghera). Un caso del tutto particolare è rappresentato da quanto accaduto a seguito della contaminazione ambientale di Augusta e Priolo dove Eni - inserendosi nell’azione della Procura della Repubblica di Siracusa tesa a stabilire il nesso di causalità tra mercurio disperso nell’ambiente e malformazioni congenite - erogò 17 milioni di euro come “somme di ristoro” a 157 famiglie dell’area, le cui donne avevano avuto un aborto non volontario o partorito figli con gravi malformazioni congenite. Fabrizio Bianchi - epidemiologo del CNR che era allora nel collegio dei periti della Procura - ricorda tre elementi caratterizzanti quel caso: “ - i soggetti risarciti erano gli stessi osservati nello studio epidemiologico precedente (2001) che fu oggetto di pubblicazione scientifica; - nel 2003 erano stati arrestati 18 responsabili di una delle aziende del gruppo Eni per smaltimento illegale di rifiuti tossici (mercurio); - tentare di dimostrare il nesso tra il solo mercurio e le malformazioni, in presenza di molti altri inquinanti ambientali, indeboliva il procedimento. Sebbene gli antefatti e le conclusioni del procedimento penale, chiuso con un incredibile “il fatto non sussiste”, sollecitino una riflessione approfondita sulla vicenda – continua Bianchi - sta di fatto che la necessità di tutela dell’immagine o la prevenzione di future perdite economiche fece varcare i limiti dell’incertezza e l’azienda stessa si assunse la responsabilità di agire in una situazione di incertezza. Con una misura di grande impatto pubblico, che mina o addirittura nega la possibilità di future azioni di rivalsa, sottrasse il caso specifico dei danni fetali e neonatali al tribunale. Ciò che sembra grave - conclude l’epidemiologo - è che viene compromessa la possibilità di affrontare il problema in quanto danno subito dalla collettività, infatti in gioco non sono solamente i diritti di coloro che vivono oggi in prossimità del polo chimico ma delle future generazioni”.

Ma è il processo Eternit a segnare una cesura importante rispetto a ciò che accadeva prima, con l’introduzione di un nuovo paradigma. Luca Masera spiega che “il Procuratore Guariniello nel processo Eternit non ha voluto dimostrare il nesso di causalità individuale ma ha contestato i reati di pericolo contro l’incolumità pubblica. In particolare il disastro, che è un reato in cui non bisogna accertare il nesso di causalità ma è sufficiente accertare il pericolo per la popolazione. Quando si tratta di fare un processo per un omicidio o una lesione colposa, quindi di un singolo individuo – continua Masera - l’epidemiologia serve a individuare l’idoneità lesiva della sostanza ma non è sufficiente ad accertare le cause sul singolo. Con la sentenza dell’Eternit si è potuti arrivare a una condanna senza accertare il nesso di causalità. L’altra grande novità è che mentre prima venivano sempre contestati omicidi o lesioni colpose, in questo caso è stato contestato un reato doloso. Si tratta proprio di un cambio di qualificazione che presenta molte difficoltà non avendo ancora superato il giudizio di cassazione. In molti altri processi invece è ancora necessario e difficile dimostrare il nesso di causalità”.
Nel caso citato di Savona (Tirreno Power) sebbene il procuratore Granero abbia dichiarato che c’è stato un danno per la salute dei cittadini, la formulazione delle ipotesi di reato pare essere complessa. In generale e nel caso specifico del carbone, nonostante le abbondanti evidenze scientifiche circa la dannosità di certe produzioni si cercano le morti per provare la correlazione causale e le malattie multifattoriali e le molteplici esposizioni rendono difficile la dimostrazione del reato di danno. “Se il processo è volto a dimostrare la sussistenza di un pericolo causato da una produzione – spiega Masera - non sarebbe neppure necessario appurare l’esistenza di specifiche vittime. Sia Eternit che Ilva sono procedimenti incardinati sull’ipotesi di pericolo (legato al disastro ambientale) ma le procure si sono attivate solo dopo che l’indagine epidemiologica ha dimostrato e verificato i morti. C’è questa contraddizione. Il disastro doloso è un reato gravissimo - che a Torino ha portato a una pena di diciotto anni, abnorme rispetto alle precedenti pene inflitte - e anche se in sé il reato di pericolo è molto grave, per giustificare pene così severe c’è bisogno di avere delle vittime. Anche se poi questi morti nel processo non ci sono, come nella sentenza di Torino dove c’è una condanna non per le morti - perché non sono stati accertati i nessi causali - ma per il pericolo”.

In sostanza dunque la perizia epidemiologica disposta nel procedimento giudiziario è utilizzata come supporto, per giustificare e rafforzare il reato di pericolo. Come conferma lo stesso Masera “noi dovremmo poter fare un processo per disastro anche senza l’indagine epidemiologica, senza aver dimostrato che ha causato un danno, ma “soltanto” per il pericolo cui ha esposto la popolazione. Finora questo non è mai avvenuto e si è sempre aspettato il dato epidemiologico. Bisogna invece avere chiaro qual è il contenuto euristico dell’epidemiologia. L’epidemiologia non fornisce solo la prova di un pericolo, ma prova il danno. Allora il diritto penale dovrebbe trovare il modo di tradurre in termini giuridici anche questo dato epidemiologico, quello delle vittime e delle morti, e non il mero pericolo”.

Giustizia, politica, scienza: interdisciplinarietà o anomalie e distorsioni?

Le evidenze scientifiche della nocività di certe produzioni, sono scarsamente e tardivamente considerate e gli studi epidemiologici, in particolare quelli osservazionali, realizzati con inspiegabile ritardo. I prodotti della ricerca scientifica, confinati al mondo accademico o al più trattati come dato statistico, stentano a diventare supporto alle decisioni. Il frequente vuoto di governance dei territori da parte della Politica e la difficoltà nel definire precisamente un reato – danno o pericolo - induce l’Amministrazione della Giustizia a entrare anche pervasivamente in ambiti non contigui. Spesso Giudici e Procuratori assumono ruoli che dovrebbero essere di volta in volta dei politici e degli scienziati, senza essere in grado a volte di sciogliere il nodo del riconoscimento dello status di vittima a chi ha subito un danno. Come abbiamo visto, tuttavia, anche il mondo della ricerca stenta a dotarsi di organismi superpartes che possano garantire la validità scientifica delle proprie tesi anche in un contesto giudiziario.

Secondo Masera “se dobbiamo usare il processo penale come strumento di governance dobbiamo sapere che il processo penale ha delle regole che non sono finalizzate alla governance di una società complessa ma ai propri obiettivi, e quindi anche i tempi non sono compatibili con una gestione efficace. Se dobbiamo parlare di una validazione definitiva degli studi nell’ambito del processo dobbiamo aspettare anni perché si superino tutti i gradi di giudizio. Non è tanto la dimostrazione della nocività che importa, perché è già nota, e la pericolosità dovrebbe essere accertata dall’autorità amministrativa. L’intervento del processo penale, anche con uno studio epidemiologico, potrebbe aver senso qualora si dovessero accertare le responsabilità dei soggetti individuati. In quest’ottica allora è necessario individuare i danni che sono stati provocati e “contare i morti e i malati”. Ma è paradossale che per dimostrare la nocività si debbano “contare i morti” in sede giudiziaria.

Letture e approfondimenti:

Progetto ABC (Ambiente e Biomonitoraggio nell’area di Civitavecchia)
- Ambiente e salute: una relazione a rischio, F. Battaglia, F. Bianchi, L. Cori, Il Pensiero Scientifico Editore, 2009
- Bianchi F, La Syndial offre “somme di ristoro” alle donne di Augusta-Priolo che hanno abortito o partorito figli con gravi malformazioni, editoriale, Epidemiologia e Prevenzione 2006; 30:76-77
- "Epidemiologia in tribunale" – Bari - Seminario del 31 ottobre 2012 – Video degli interventi
- Giudice e perito nel processo penale: spunti per un dibattito, Epidemiologia e Prevenzione, 2005, 29:5-6  

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