
La COP della verità scientifica - e politica - si è conclusa con pochi strumenti di mitigazione e adattamento. Tutto questo mentre la criosfera è sempre più vicina al punto di non ritorno: ne parliamo con Florence Colleoni, glaciologa e paleoclimatologa, che ha partecipato alla COP30 a Belem.
La COP30 di Belém, appena conclusa piuttosto ingloriosamente, coincideva con il decennale dell’Accordo di Parigi e rappresentava anche la scadenza per la presentazione dei nuovi impegni nazionali (NDC), pilastro per l’attuazione globale dell’accordo, con l'obiettivo di mantenere il riscaldamento climatico entro +1,5°C. La scelta di tenere la conferenza nel cuore della regione amazzonica ha amplificato il dibattito su giustizia climatica, ruolo dei paesi in via di sviluppo e salvaguardia degli ecosistemi strategici. Ma nemmeno il luogo ha aiutato il raggiungimento dei finanziamenti sperati per l’attuazione del Tropical Forest Forever Facility (TFFF), lo strumento proposto dal Brasile alla COP28 di Dubai per finanziare il mantenimento delle foreste intatte.
Tra le priorità di questa COP, nata come la “COP della verità”, vi erano importanti obiettivi in campo di adattamento e di finanza climatica. Un’agenda ambiziosa che prevedeva l’adozione degli indicatori del Global Goal on Adaptation (GGA) per misurare e sostenere la resilienza climatica, che sono però rimasti dei parametri volontari, e l’avanzamento operativo di nuovi fondi, obiettivi di cui viene ribadita l’urgenza ma senza nulla di fattuale al seguito.
«Anche se noi non abbiamo accesso diretto ai negoziati, la scienza rimane comunque al cuore della COP», spiega Florence Colleoni, glaciologa e paleoclimatologa presso l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), che abbiamo intervistato. La ricercatrice ricorda anche come negli ultimi anni la scienza si sta scontrando con la disinformazione e «per questo c’è la necessità di unirsi a livello globale per monitorare l’integrità scientifica».
L’integrità che sembrava dominare i negoziati quando 86 paesi avevano aderito alla roadmap per l’abbandono equo e ordinato dai combustibili fossili per rilanciare il phase out e rendere operativo il TAFF (Transitioning Away from fossil fuels). Una roadmap che però nel pacchetto politico più importante di questa COP30, il Global Mutirão, è finita nel dimenticatoio. La diplomazia ambientale ha scelto anche di non menzionare il contributo delle fonti fossili, altro assente non giustificato. Nel testo finale si parla solo di transizione giusta, non fornendo però gli strumenti per affrontarla. Per questo la Colombia, la capofila della roadmap sul phase out, ha pronta un’alternativa a cui hanno aderito già 24 nazioni: il 28-29 aprile a Santa Marta ci sarà la Prima Conferenza Internazionale sulla giusta “Transition away” dai combustibili fossili.
In questa COP sembra si sia preferita ancora una volta la procrastinazione alle azioni basate sulla scienza: è stato avviato il Global Implementation Accelerator, per triplicare la finanza per l’adattamento a partire dal 2035, e la “Belém Mission to 1.5”, per colmare il gap tra gli impegni nazionali attuali e l’obiettivo di 1,5 °C che si concluderà con un report alla COP31.
«Ma le COP non sono solo diplomazia», continua Colleoni, dal padiglione della criosfera della COP30.
La criosfera, che comprende ghiacciai, calotte glaciali, neve, ghiaccio marino e permafrost, sta subendo cambiamenti irreversibili, con perdite di massa ghiacciata che accelerano e impatti globali anche a distanza dai poli. «Il limite degli 1,5° è un parametro per mantenere lo stato attuale del cambiamento climatico e degli eventi estremi, di cui già ne studiamo abbastanza le conseguenze, però a livello di criosfera e di zone polari è troppo tardi», avverte la paleoclimatologa.
Dal 1990 la velocità di innalzamento del livello del mare è raddoppiata, soprattutto a causa della perdita di ghiaccio da calotte glaciali e ghiacciai, parallelamente all’espansione termica degli oceani. «La prospettiva paleoclimatica ci dice proprio che l'innalzamento del livello del mare è uno degli indicatori più forti delle conseguenze del riscaldamento globale, cui ci dobbiamo per forza adattare in qualsiasi scenario futuro». Si stima che la perdita di ghiaccio di Groenlandia e Antartide sia quadruplicata negli ultimi decenni, portando questi sistemi sempre più vicini a soglie irreversibili che influenzeranno le coste mondiali per secoli.
Per questo il padiglione propone «eventi divulgativi scientifici ogni giorno e le delegazioni o anche qualsiasi persona che ha accesso alla Blue Zone può venire a parlare con noi per saperne di più e di solito abbiamo tantissime visite di ministri o delegazioni che vogliono essere sicuri di quello che hanno capito», sottolinea la ricercatrice. Inoltre, sempre dal padiglione della criosfera, l’International Cryosphere Climate Initiative ha fatto uscire un comunicato dolente ed equilibrato sui risultati della COP30: «È stato calcolato dalla commissione scientifica che anche se noi riuscissimo a stare nei limiti dell’accordo di Parigi il livello del mare si innalzerebbe di più di mezzo metro rispetto a oggi alla fine del XXI secolo. L’effetto poi non si fermerebbe qua: il ghiacciaio che ha assorbito calore continuerà a rilasciarlo per lungo tempo seguendo l’effetto dell’inerzia termica», ricorda Colleoni.
La chiamata si chiude con note di speranza, ricordando l’importanza della collaborazione e della visibilità. È da luoghi come questi che, durante la COP27, è nata l’iniziativa Ambition on melting ice, «una dichiarazione che ribadisce l'importanza di stare entro l'1.5°, che è stata proposta proprio dal padiglione della criosfera durante la COP27 e che ora è ratificata da 25 paesi. Speriamo di coinvolgere sempre più Paesi COP dopo COP per dare visibilità al danno irreversibile che stiamo causando alla criosfera», conclude la ricercatrice.

