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Università, una modesta proposta

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Col legno storto dell'umanità – diceva Kant non si è mai fatto niente di diritto. E' una buona ragione per non proporsi di fare cose perfette e accontentarsi invece di rappezzare quello che c'è, raddrizzando a piccoli passi le storture più evidenti. Esistono tuttavia legni così storti che non ha molto senso proporsi di farne grandi cose ed è meglio ricominciare daccapo con qualche pezzo di legno nuovo.

Qualche settimana fa, un articolo dell'Economist conteneva un giudizio impietoso sulla nostra università: senza tanti complimenti, diceva che le università italiane sono di terzo o quart'ordine. Forse le cose non stanno proprio così e ci torneremo su. Ma sappiamo tutti che c’è moltissimo da cambiare nel nostro sistema accademico e non c’è nessun dubbio che dobbiamo cercare di farlo, proseguendo con le valutazioni della qualità dei docenti e dei dipartimenti (migliorandole, se possibile), rivedendo gli statuti, riformando le regole per selezionare i docenti e ripensando il sistema di finanziamento. Tuttavia, dobbiamo anche chiederci se sia realistico aspettarsi che un sistema complesso formato da una settantina di atenei pubblici, che obbediscono alle stesse regole e sono afflitti da storture e cattive abitudini inveterate, con vincoli di bilancio molto stretti, si possa riformare tutto quanto in tempi ragionevolmente brevi. Poiché la risposta è probabilmente negativa, vale la pena di ripensare il metodo che è stato seguito fin qui. Forse la grande nave delle università italiane è fatta di legni molto storti. Forse invece di, o insieme a, una riforma globale, dovremmo anche cercare di costruire almeno una scialuppa con legno nuovo. Cercherò qui di seguito di esporre un’idea molto semplice e mai considerata, almeno in Italia, per innescare un processo di rinnovamento del sistema universitario, affidandolo non tanto ai decreti, quanto all’emulazione.

puntare a poche, nuove, università

Il punto di partenza del mio ragionamento sta in un’osservazione di fatto. Alcuni paesi emergenti – ad esempio Singapore, Cina, Corea, Taiwan – sono riusciti in pochi anni a inserire nei primi cento posti delle graduatorie internazionali alcune loro università. Non hanno cercato di riformare tutto il complesso del proprio sistema educativo: si sono concentrati su poche università, le hanno finanziate generosamente e hanno imitato i migliori esempi esistenti nel panorama internazionale sulla scelta dei docenti, i metodi di reclutamento degli studenti, le regole statutarie. Si osservi che anche questi paesi avevano da lungo tempo scuole, università, ministeri dell’istruzione, che immagino stiano anche cercando di aggiornare. Ma non c’è bisogno che funzioni bene tutto il complesso di un sistema educativo perché ne funzioni bene una parte.

Veder comparire una propria università ai primi posti delle classifiche non è solo motivo di orgoglio nazionale. Vuol dire fissare uno standard: saper indicare alle altre università, ai docenti e soprattutto agli studenti una direzione in cui muoversi, un obiettivo da raggiungere. Fissato questo, si può anche contare sull’iniziativa e la buona volontà dei docenti e degli studenti per riformare il resto del sistema – perché di tutti, non solo dei legislatori e dei funzionari ministeriali, c’è bisogno.

Anche noi possiamo imparare molto dall’esperienza di quei paesi emergenti. Anche noi possiamo istituire qualche nuova università da far competere con le migliori al mondo, partendo da zero. Abbiamo scienziati di valore cui affidare la responsabilità di dirigerle. Abbiamo studenti intelligenti. Non dobbiamo nemmeno fare sforzi di immaginazione per inventarci nuovi statuti: possiamo copiare quello di Harvard o quello di Cambridge U.K.. Ma, soprattutto, non dobbiamo preoccuparci di avere un numero sufficiente di professori italiani per riempire i ruoli docenti, perché non esiste una sola ragione al mondo perché in Italia insegnino solo gli italiani. Fin dal medioevo, nessuna buona università si è mai preoccupata della nazionalità dei propri docenti e dovremmo smetterla con i ridicoli programmi di rientro dei cervelli. Sappiamo che la capacità di attrarre ricercatori da tutto il mondo ha enormemente avvantaggiato gli Stati Uniti. Anche noi dobbiamo semplicemente chiamare i migliori disponibili, senza badare ad altro che alla qualità.

E le risorse?

Abbiamo le risorse economiche per qualche università nuova, forse anche una sola? Anche in questi tempi difficili, penso di sì. Non c’è nemmeno bisogno che lo stato copra l’80 per cento dei costi, come per tutte le altre. Gli studenti abbienti possono pagare rette paragonabili a quelli delle costose università americane e sovvenzionare così le borse di studio per quelli non abbienti. Non c’è niente di iniquo in questo (n.d.r qui alcuni approfondimenti sul tema tasse universitarie). Fra un momento torneremo sulla questione dell’equità.

Che cosa possiamo aspettarci da una buona università fatta con legno nuovo? La recente riforma Gelmini è stata criticata da alcuni liberali (soprattutto professori che hanno esperienza diretta dei sistemi educativi anglosassoni) perché tenta di dirigere un sistema molto complesso con una quantità di regole fissate uniformemente dal centro, invece di lasciare all’autonomia dei singoli atenei la scelta degli strumenti più adatti ad autoriformarsi. Indubbiamente, la riforma Gelmini non è una riforma liberale. Ma siamo sicuri che lasciare maggiore libertà agli atenei produrrebbe di per sé buoni risultati? La libertà serve a qualcosa se è possibile fare confronti tra le diverse cose che gli utenti possono liberamente scegliere. Sapere che un professore è il migliore nel suo campo non serve a niente se non è possibile chiamarlo dove può essere più utile, se gli studenti non possono scegliere di seguire lui invece di altri, se non fa nessuna differenza per i colleghi. Ma c’è ancora ben poca libertà di scelta e di movimento nella nostra università. Inoltre, un sistema credibile di valutazione nazionale della qualità dei docenti e dei dipartimenti è indubbiamente uno strumento utile (pur senza essere condizione necessaria né sufficiente perché l’autonomia e il confronto tra università producano i risultati desiderati). Ma anche se l’Anvur producesse valutazioni universalmente condivise e anche se gli atenei e gli studenti avessero tutta la libertà e l’autonomia che vogliono, mancherebbe pur sempre qualcosa per indurre i docenti, i ricercatori e gli studenti a dare il meglio di sé. E il sistema universitario che vogliamo e di cui andare orgogliosi è precisamente quello in cui tutti diano il meglio di sé. Che cosa manca?

Alla ricerca di un'eccellenza

Manca un esempio da tenere davanti agli occhi. Manca un’università che sia universalmente riconosciuta come buona, che sia tra le prime nelle classifiche internazionali e con la quale le altre possano confrontarsi direttamente, senza affidarsi ai complessi meccanismi burocratici di valutazione. Un metodo di confronto diretto – non l’unico – è quello di contare gli studenti che iniziano gli studi in un’altra università e ottengono l’ammissione per proseguirli in quella. Anche per i docenti, essere chiamati a insegnare in quella università anche solo un corso breve sarebbe un titolo di merito, paragonabile a un lavoro scientifico ben valutato.

Ritorniamo per un momento alla pesante valutazione che l’Economist ha dato del nostro sistema accademico. Alcuni autori di Roars hanno mostrato, dati alla mano, che non è affatto vero che le nostre performances accademiche medie siano disastrose. E’ vero, dicono, che nessuna università italiana entra tra le prime cento delle classifiche internazionali, ma secondo la classifica di Shanghai il 37% delle università italiane entra tra le prime 500, contro il 41% della Germania, il 32% di UK, il 25% della Francia e il 16% della Spagna. Inoltre l’Italia è l’ottavo produttore mondiale di articoli scientifici, dopo USA, Cina, UK, Germania, Giappone, Francia e Canada, ed è ottava come numero di citazioni. In molti campi, i ricercatori italiani hanno un’ottima reputazione.

Assumiamo che le cose stiano così. Può senz’altro essere motivo di consolazione. Ma è motivo di orgoglio? Nessun centometrista corre per piazzarsi a metà della classifica e nemmeno un po’ al di sopra della media: si corre per arrivare primi o almeno vicino ai primi. L’animo umano è fatto così, non solo per quanto riguarda lo sport. Non ci orientiamo sulle medie statistiche: valutiamo solo la distanza che ci separa dai primi, in qualunque classifica. Che il sistema accademico italiano sia nella media, o anche al di sopra della media, ha scarso peso per quel che riguarda le motivazioni individuali e la soddisfazione di studenti, docenti e ricercatori, che valutano l’istituzione in cui lavorano soprattutto rispetto agli obiettivi che si propongono e alla distanza che li separa dai propri punti di riferimento.

Immagino che qualcuno vorrà obiettare che l’istituzione di un’università “speciale” è in qualche modo iniqua, poiché viola il principio di uguaglianza implicitamente seguito da un paese che ha adottato un sistema educativo pubblico. Non sono infatti le esigenze dell’uguaglianza a imporre che tutti gli atenei pubblici italiani obbediscano alle stesse regole fissate dal ministero, che offrano titoli equivalenti e siano valutati con gli stessi criteri? A me non sembra che sia così. Mi sembra che si confonda l’uguaglianza con l’uniformità. L’uniformità è soddisfatta anche da un sistema uniformemente mediocre, ma non necessariamente lo è l’uguaglianza. In particolare, un sistema uniforme come quello italiano (che forse proprio perché uniforme si colloca complessivamente al di sopra di UK, Francia e Spagna nella graduatoria delle prime 500 università, ma non compare mai nelle prime cento) non offre a tutti gli studenti uguali opportunità di affermarsi nelle professioni e avvantaggia coloro che partono da posizioni socialmente migliori. Non favorisce cioè la mobilità sociale. Questa è una grave violazione del principio di uguaglianza delle opportunità.

Un’università “speciale” non va per nulla contro il principio di uguaglianza, inteso come uguaglianza di opportunità – ovviamente a condizione che tutti abbiano uguali possibilità di accedervi a parità di merito, come prescrive la nostra costituzione. Non c’è bisogno di complessi ragionamenti sul concetto di uguaglianza e sulle sottili differenze tra l’uguaglianza delle opportunità e altri tipi di uguaglianza per vedere questo punto. Basterà una considerazione storica. Al Partito Comunista Italiano indubbiamente l’uguaglianza stava a cuore. Più d’uno tra i dirigenti prima del PCI e poi del PD ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa – un’istituzione meritocratica istituita da Napoleone, a numero chiuso, di indiscusso prestigio accademico, che fino a pochi anni fa era l’unica del suo genere in Italia. Mai nessuno di quei dirigenti ha proposto di abolire la Normale. Mai nessuno ha sostenuto che vada contro i principi dell’uguaglianza. 


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