fbpx “Trafficanti di natura”, una fotografia sul commercio illegale di selvatici | Scienza in rete

Trafficanti di natura: il commercio illegale di piante e animali selvatici

Il saggio Trafficanti di natura del giornalista scientifico Rudi Bressa, pubblicato quest'anno da Codice Edizioni, offre una panoramica su alcuni degli esempi più significativi (e non molto conosciuti) di una minaccia sommersa quanto rilevante: il traffico illegale di specie animali e vegetali. E di come sta danneggiando la biodiversità da cui dipende la nostra stessa specie.

Crediti immagine: Edewaa Foster/Unsplash

Tempo di lettura: 7 mins

Finiscono nelle case come oggetti d’arredamento o animali da compagnia, in pentola come piatto forte per menù di lusso, in pillole e preparati di varia natura come ingredienti della medicina tradizionale. Sono rettili, mammiferi, pesci, animali di ogni genere – e in effetti neanche solo animali, ma anche piante. Che in comune hanno proprio questo: un elevato apprezzamento da parte del mercato, che guida un traffico tanto illegale quanto pericoloso perché, oltre a mettere a rischio la conservazione di molte specie, danneggia gli ecosistemi da cui noi stessi dipendiamo – senza contare i rischi collaterali come quello di zoonosi.

Al commercio illegale di specie selvatiche è dedicato Trafficanti di natura, il saggio del giornalista ambientale e scientifico Rudi Bressa, pubblicato quest’anno da Codice Edizioni. Una panoramica lucida e documentata su un mercato in parte conosciuto, ma con ancora molti lati oscuri. Se da un lato, infatti, il traffico di animali o derivati iconici come l’avorio, le scaglie di pangolino o il corno di rinoceronte si sono guadagnati spesso il loro posto sui media e sono oggetto di numerose indagini e studi, dall’altra per specie meno conosciute il problema è rimasto troppo spesso trascurato.

Fenomeno vasto, eppure sottostimato

Guardando ai numeri, dobbiamo partire da una considerazione: tutto ciò che sappiamo del traffico illegale di selvatici ci proviene solo da informazioni indirette. Questo per la natura stessa del commercio che, essendo illegale, avviene di nascosto, al di fuori dei canali e dei monitoraggi ufficiali: le informazioni che possiamo racimolare sono quelle provenienti dai sequestri, che danno un’idea della dimensione del fenomeno, ma ne rappresentano una sottostima, la parte per così dire fallita del mercato nero.

Il che è davvero allarmante, perché non si tratta di cifre di lieve entità: le oltre cento tonnellate di zanne di elefante bruciate nel 2016 nel parco nazionale di Nairobi; le sette tonnellate di scaglie di pangolino (corrispondenti a circa 17.500 individui) sequestrate a maggio dalla dogana nigeriana; i 4.400 rettili vivi (tra cui coccodrilli, alligatori, tartarughe, serpenti, lucertole, gechi) sequestrati nel 2019 dall’Interpol con l’operazione denominata "Blizzard"; i 12,3 milioni di cavallucci marini essiccati sequestrati dalla marina peruviana nel 2019. Sono solo alcuni dei molti, troppi esempi che possiamo trovare nelle pagine del libro, e che spiegano anche perché le stime sul commercio di specie selvatiche possano avere uno scarto ampio tra una fonte e l’altra. In breve, come scrive Bressa: «È un po’ come le sostanze stupefacenti: le quantità sequestrate sono spesso solo la punta dell’iceberg e danno solo una stima di quali siano le reali quantità che circolano a livello globale».

Dagli asini al teak: le specie di cui non si parla

D’altronde, si diceva, per alcune specie scarseggiano anche le informazioni. All’attenzione altissima rivolta ad alcuni animali (e ai derivati che se ne ricavano), Trafficanti di natura ha il pregio di affiancare specie di cui ben di rado di sente parlare e per le quali scarseggiano anche gli studi. L’esempio più eclatante è quello dell’asino: scrive Bressa che, al netto di una mancanza di dati uniformi, gli asini sono sempre meno nel vecchio continente, soppiantati nel corso del XX secolo dalle macchine agricole e oggi allevati per pochi scopi specifici (dagli interventi assistiti con gli animali alla produzione di latte d’asina); il progenitore selvatico sopravvive negli appena 600 individui sparsi in alcune regioni africane, messo in difficoltà dalla perdita di habitat, dalla caccia e dalla competizione per le risorse con il bestiame domestico.

Eppure proprio l’asino, o meglio la sua pelle, ha oggi una domanda altissima sul mercato: è infatti usata per la preparazione dell’ejiao, una gelatina che fa parte della medicina tradizionale cinese ed è prescritta per i più svariati problemi di salute, da quelli della pelle alla prevenzione degli aborti. Si tratta di un problema nato solo negli ultimi anni, ma che ha portato a un boom di domanda con conseguente crescita degli allevamenti, concentrati nei Paesi africani, cui si affianca un traffico illegale fatto di furti dei capi alla popolazione locale, per la quale l'asino è spesso ancora fondamentale per il sostentamento; oppure si pratica il commercio legale, ma usato per nascondere il commercio di specie protette. E che sta facendo calare drasticamente la popolazione di asini in alcuni Paesi.

Se, d’altronde, rimangono spesso ignorate dai media alcune specie animali (magari, come nel caso dell’asino, perché il commercio avviene in aree lontane dall’Italia: come scrive Bressa, «chi di voi ha mai sentito parlare dell’ejiao?»), questo è ancora più vero per le specie vegetali. Che non sono invece ignorate a livello commerciale: Trafficanti di natura ne cita molte, dedicando un intero capitolo al teak, considerato “il re dei legni”, ma che è anche (come titola il capitolo stesso) “legno insanguinato”. Coltivato nelle zone tropicali e subtropicali di tutti i continenti, il più ricercato è però quello proveniente dal Myanmar, che ne rappresenta il principale produttore al mondo. A scapito, però, della foresta primaria: si stima che in vent’anni, tra il 1990 e il 2020, sia andato perduto il 27% delle foreste del Paese e un terzo della deforestazione sia attribuibile proprio alla produzione di legname. Inoltre, spiega Bressa, «il costosissimo legno, insieme a molte altre materie prime di cui il Paese è ricco, è considerato il carburante per una delle dittature militari più sanguinarie che l’ex Birmania abbia mai conosciuto» (il riferimento è, ovviamente, al colpo di stato militare del 2021).

Perché il traffico di specie selvatiche?

Questo per fare qualche esempio sulle specie. Che dire degli usi? Perché queste piante e questi animali sono così intensamente oggetto del traffico, a volte anche legale, a volte del tutto illegale? Le ragioni sono svariate, perché si va dall’arredamento o, come nel caso del teak, all’industria navale, all’alimentazione, al desiderio di uno status symbol rappresentato da un animale da compagnia o da un pranzo esotico. È innegabile che torni più volte, di pagina in pagina, un ruolo forte anche della medicina tradizionale (non solo cinese) che, con i suoi ingredienti, sta mettendo in seria difficoltà diverse specie. Di fronte a questi impieghi variegati ma, verrebbe da dire, un po’ futili o quantomeno leggeri (per molti preparati della medicina tradizionale non è stato verificato alcun effetto), sorge spontanea la domanda: chi compra questi animali o derivati? Perché sono così importanti?

Trafficanti di natura prova a offrire una risposta, riportando gli studi – che non sono pochi – che cercano di tracciare gli identikit degli acquirenti. Nel caso del pangolino, per esempio, il consumo della sua carne in Africa sembra niente più di un’abitudine consolidata insieme ad altri alimenti parte del bushmeat, come lo scimpanzé o il leopardo; in Asia è uno status symbol per pasti di lusso. Secondo un sondaggio dell’ong TRAFFIC, che monitora il commercio di fauna selvatica, gli uomini cha acquistano i prodotti derivati dalla tigre sono di solito

Sulla cinquantina, socievoli, estroversi e in cerca del rispetto dei loro coetanei; usano la colla di ossa di tigre come medicina o afrodisiaco, mentre regalano altri prodotti derivati dalla tigre (dal vino agli artigli) per assicurarsi il rispetto della famiglia o dei propri superiori.

Si potrebbe pensare allora che il fenomeno non sia altro che un effetto di culture lontane dalla nostra. Ma non è affatto così, e rimarcare il ruolo dell’Europa e dell’Italia è senz’altro uno dei grandi pregi del saggio: il traffico illegale ci coinvolge, eccome. Non solo come hub o riferimenti per l’export in alcuni casi (per l’anguilla, che non può essere riprodotta in cattività e dev’essere allevata partendo dallo stadio larvale, i Paesi più coinvolti dal mercato nero sono Spagna, Francia e Portogallo) ma anche come diretti consumatori. Per esempio, Bressa dedica un intero capitolo al mercato delle molte specie di uccelli catturate illegalmente in Italia per l’alimentazione o per essere usate come richiamo dai cacciatori, o perfino come pet.

C’è una domanda che risuona forte e chiara in tutte le pagine di Trafficanti di natura. È una domanda cui il libro non pretende (e lo esplicita) di fornire risposta, ma che ne rappresenta la conclusione principale: come possiamo fermare questo mercato, prima che porti definitivamente all’estinzione le specie coinvolte o finisca di massacrare ecosistemi già duramente provati da tante attività antropiche? Basteranno le azioni di sensibilizzazione, servono pene più severe (e più applicate)? Vietare il commercio di alcune specie farà più danni che l’aumento di controlli, o potrebbe essere una valida soluzione? Rispondere è più urgente e importante che mai, per trovare il modo di fermare un mercato che, tra domanda e offerta, si comporta «come se la natura fosse un parco a tema da sfruttare per gioco, se si hanno abbastanza soldi e potere».

 


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