Due articoli, pubblicati l'uno su Science e l'altro su Biosafety and Health, richiamano l'attenzione sulla pericolosità "chiara e attuale" del passaggio di virus dagli animali selvatici all'essere umano. I problemi legati al commercio legati alla fauna selvatica e alla globalizzazione sono noti; servono, ora, un repertorio globale per la catalogazione dei virus, una miglior sorveglianza dell'emergere delle infezioni, la centralizzazione dei dati ottenuti, la preparazione di operatori per il controllo dei mercati e degli animali in genere - e, non da ultimo, lavorare alla sorgente, ossia sui mercati stessi.
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I coronavirus di origine animale hanno causato, negli ultimi anni, tre malattie epidemiche umane importanti: la SARS, la MERS e l’attuale Covid-19. E non sono solo i coronavirus a essere zoonotici: lo è l’89% dei 180 virus a RNA finora riconosciuti come patogeni per l’uomo, il 70% dei quali proviene da animali selvatici. Watsa Mrinalini, naturalista in forza allo zoo di san Diego, California, in collaborazione con membri del Wildlife Disease Surveillance Focus Group, ha scritto per Science un articolo, il cui titolo “Rigorous wildlife disease surveillance” suona come un appello a scienziati e governi: l’autrice cita uno studio sui pipistrelli di una singola caverna, attuato in Cina tra il 2011 e il 2015 e, a tratti, co-finanziato dagli Stati Uniti, che ha fatto scoprire 11 nuovi coronavirus e la presenza di anticorpi (segnale di avvenuto spillover) in abitanti delle zone rurali limitrofe. I dati sono stati regolarmente pubblicati, ma non hanno avuto la risposta che meritavano in termini di precauzioni o di misure politiche.
Rincara la dose Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliance, un’organizzazione non governativa con sede a New York, fondata nel 1971 da Gerald Durrel per dare una visione unitaria della salute umana e animale e che si avvale della collaborazione di veterinari, epidemiologi, ecologisti, antropologi ed economisti: in un articolo sulla rivista Biosafety and Health, Daszak rende noto di aver accumulato, negli ultimi 10 anni, in associazione con scienziati cinesi, campioni biologici da 10.000 pipistrelli e da circa 2.000 altri tipi di mammiferi del sud della Cina, nei quali sono stati scoperti 52 nuovi SARS-CoV, 122 altri β-CoV, più di 350 nuovi α-CoVs (inclusi quelli della nuova sindrome diarroica da coronavirus suino SADS-CoV) e un nuovo lignaggio virale di β-CoV. Anche questi gruppi di studiosi hanno trovato sieroconversioni in abitanti della Cina meridionale rurale e la situazione sembra estensibile a tutto il sud est asiatico.
Ce n’è a sufficienza per decretare che il passaggio di virus dagli animali selvatici all’essere umano è un “pericolo chiaro e attuale”. Daszak, che pure spende parole di apprezzamento per la velocità e la competenza scientifica con cui la Cina, a partire dai primi casi sospetti di polmonite del dicembre 2019, ha comunicato al mondo la sequenza del nuovo coronavirus e ha condiviso i dati clinici ed epidemiologici di Covid-19, nota che il virus è stato ancora più rapido nel diffondersi in tutto il mondo. La SARS del 2002-2003 aveva impiegato due mesi a dilagare da Hong Kong ma la Cina, nel frattempo, ha fatto passi da gigante a livello economico, che hanno consentito sia a miriadi di suoi cittadini di recarsi in ogni parte del globo per lavoro, studio o turismo (sono stati calcolati 80 milioni di viaggi in aereo solo nelle vacanze del capodanno cinese) sia di attirare operatori da tutto l’occidente industrializzato.
In una tale situazione di estrema e irreversibile globalizzazione, occorre, quindi, che ogni paese orientale si doti di una task force di scienziati che scoprano i patogeni nei mammiferi selvatici e ne costruiscano, insieme alla comunità scientifica internazionale, un repertorio globale; catalogare i virus serve anche a usarli per testare farmaci e vaccini, sull’esempio di quanto già avviene con il database pubblico e globale GISAID (Global Initiative on Sharing All Influenza Data) EpiFlu, che condivide le sequenze del virus influenzale e attualmente si sta occupando anche del sequenziamento di SARS-CoV-2.
Anche Mrinalini lamenta un’ancora troppo scarsa sorveglianza dell’emergere di infezioni negli animali selvatici che hanno qualche genere di prossimità all’uomo, per l’esercizio della caccia a scopo alimentare o di diporto oppure perché oggetto di allevamento (più o meno legale) e di commercio.
È noto che le condizioni in cui sono tenuti gli animali (sia di allevamento sia catturati nel loro ambiente), chiusi in gabbie affollate e con insufficiente o non igienico smaltimento delle loro deiezioni, favoriscono il diffondersi delle infezioni, ma, nonostante l’esistenza di una convenzione internazionale sul commercio degli animali in via d’estinzione (Convention on the International Trade in Endangered Species, CITES), solo pochi paesi attuano controlli veterinari sulle specie esportate o importate. Inoltre, i laboratori per studiare i patogeni animali nell’ambito dei progetti PREDICT e Global Virome, istituiti per sorvegliare le epidemie, attualmente sono solo 125 in tutto il mondo, per di più attrezzati per studiare un piccolo numero di specie e distribuiti con frequenza inversamente proporzionale al bisogno e al rischio: 78 sono in Europa e in Nord America, 14 in Cina, 8 in Giappone, 3 in Africa, 4 in Australia e 8 in Sud America.
Anche in considerazione dell’intermittenza del flusso di fondi alle agenzie centrali internazionali, legata al variare dei venti politici, Mrinalini, come Daszak, ritiene che, fatta salva la necessità di una centralizzazione continua e completa dei dati ottenuti, che permetta di confrontare le prevalenze dei patogeni per specie e per regione geografica, di allertare in tempo circa eventuali mutazioni dei patogeni negli animali ospiti abituali e negli ospiti intermedi e di individuare le differenze nelle sequenze genomiche di uno stesso virus in contesti differenti, si dovrebbe puntare sul decentramento e sulla responsabilizzazione dei singoli paesi, che andrebbero messi in grado di sequenziare genomi virali in laboratori attrezzati ad hoc, di effettuare arricchimenti con la metodica PCR (Polymerase Chain Reaction), di addestrare personale qualificato anche in aree remote, come si è già dimostrato possibile quando si è voluto dare risposta alle epidemie di Ebola e Zika.
Allo stesso tempo, vanno preparati operatori sanitari, biologi e naturalisti che controllino i mercati di animali selvatici e di animali in genere. È, infatti, cruciale la questione della sorgente virale: se, come sembra, è il commercio di animali selvatici a dare il via all’epidemia, il compito di arginarlo contrastando tradizioni taumaturgiche e alimentari millenarie di un popolo che abita un paese vasto quanto un continente sembra piuttosto arduo da portare a termine nel giro di una generazione. Tuttavia, qualche spiraglio su un possibile cambiamento di costume arriva dalle risposte a questionari sottoposti agli studenti già in epoca pre-Covid.
Bibliografia
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