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Scienza connessa, tra analfabetismo e nuovi media

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Il 58,4% della popolazione italiana accede a internet. Se si raffronta questo dato con gli altri Paesi europei, la cui media è del 73%, si vede che l’Italia precede Cipro (57,7), Portogallo (55,2), Grecia (53) e Romania (44,1). L’indice di penetrazione più elevato (90% circa) è detenuto dai Paesi scandinavi, i Paesi Bassi e il Lussemburgo, mentre la Germania si attesta all’83% (Fonte: Internetworldstats). A questo dato è interessante aggiungere che, secondo l'Istat, in Italia poco più dell’1% della popolazione si dichiara analfabeta. Parlare di accesso a Internet in termini numerici, in assenza di una valutazione qualitativa che prenda in considerazione il tipo di operazioni svolte, può essere quindi fuorviante. I limiti delle statistiche ufficiali e il preoccupante livello di analfabetismo che affligge la società italiana erano già stati l’oggetto di un intervento di Tullio de Mauro all’“Internet Governance Forum” del CNR, svoltosi a Roma alla fine del 2010. Secondo i dati citati da de Mauro (fonte: Fondazione Mondo Digitale), la percentuale di italiani che accede a Internet si fermerebbe in realtà al 38% e un’indagine di tipo osservativo permette di scoprire che il 5% della popolazione italiana non è in grado di “compitare le lettere in una sequenza scritta o di distinguere il valore di una cifra araba dall’altra”.

Il "digital divide" in cifre

Solo il 29% della popolazione italiana adulta (18-65 anni) possiede un livello buono di competenze alfabetiche, cioè sa capire un testo scritto, scrivere un breve testo e fare qualche calcolo, leggere una tabella, un istogramma ecc. Solo il 20%, tuttavia, sa mettere a frutto queste competenze per la soluzione di problemi non ripetitivi. In sintesi, solo il 20% della popolazione italiana ha e sa usare strumenti minimi sufficienti per orientarsi nella vita di una società contemporanea. Il divario tra coloro che possiedono le condizioni materiali o culturali per sfruttare le nuove tecnologie e coloro che invece non le hanno, o che non hanno l’abilità e la flessibilità ad adattarsi ai rapidi cambiamenti che caratterizzano Internet oggi, si chiama digital divide. Alcuni studi evidenziano che coloro che si trovano nelle ultime posizioni in termini di utilizzo di Internet hanno un livello di istruzione inferiore e un reddito più basso rispetto a coloro che si trovano nelle prime posizioni (D. Laforenza, M. Martinelli, M. Serrecchia).

Alle fonti di diseguaglianza individuali si aggiungono importanti fattori di contesto quali l’ammodernamento delle infrastrutture e politiche attive per l’alfabetizzazione digitale. Un sistema nazionale di formazione degli adulti, secondo De Mauro e come avviene negli altri Paesi, dovrebbe aiutare la popolazione italiana a mantenere le competenze acquisite a scuola a diciotto anni, che in qualche modo non ha conservato o ha perduto. Tra il 2005 e il 2010 si è ridotta la percentuale di persone che sosteneva di non usare internet perché “non utile o non di interesse” mentre è aumentata la quota di famiglie che non usa internet perché non ne ha la capacità. Capacità intese come inadeguatezza a gestire la complessità e varietà del web (L. Sartori).
I nuovi media riproducono, quando non amplificano, le diseguaglianze socio economiche esistenti nel nostro paese. Le scuole, le agenzie formative per eccellenza, non dispongono mediamente di tecnologie di ICT adeguate e impiegano personale docente e ATA dotato di insufficiente cultura informatica, spesso in difficoltà a rapportarsi persino con gli studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado.

Sebbene la televisione abbia ancora un’influenza prevalente nella formazione delle opinioni, l’Annuario Statistico Istat 2010 rileva che nella fascia di età 18-24 la diffusione e l’uso di televisione e internet hanno percentuali simili. La metà degli italiani dichiara di utilizzare internet come terza fonte di informazioni - dopo le TV locali e nazionali - ma, nel complesso, emerge una “preoccupante mancanza di lettura di notizie, sia online sia su carta, da parte di molti giovani.”

un'informazione sempre più partecipativa

In questo scenario poco confortante, l’evoluzione dei media non si arresta e “i nuovi media non lasciano in pace i vecchi, li opprimono, ma li portano a trovare forme e posizioni nuove” (McLuhan in L. Mazzoli). La rete permette di ipotizzare “il sorgere di un numero virtualmente illimitato di soggetti produttori di informazione e opinione, con la conseguente creazione di un’opinione pubblica più riccamente informata, dotata di nuovi strumenti per la propria crescita” e libera dal “controllo dei sistemi editoriali, dalla selezione a priori operata dalle varie testate, dal controllo politico dell’agenda dei media e dall’influenza esercitata, a loro volta, dai media stessi sull’agenda politica”.

Da una ricerca americana emerge che ”il 37% degli utenti di news su internet ha dichiarato di aver contribuito a scrivere o diffondere delle news online ed il 72% dichiara di seguire le notizie al fine di condividerle e conversare con amici e colleghi. Sembra abbastanza chiara una tendenza a fruire dell’informazione in un’ottica fortemente sociale e partecipativa, nella quale il singolo utente seleziona i propri contenuti in modo sempre più specifico e finalizza la scelta alla diffusione verso una cerchia di persone che ritiene ragionevolmente interessata alle medesime informazioni” (L. Mazzoli). Il fenomeno ben radicato dell’omofilia - “la tendenza alla creazione di gruppi omogenei di persone che letteralmente si rispecchiano le une nelle altre, l'esatto opposto dell'affinità, una dinamica nella quale la differenza è postulata, anzi valorizzata perché posta come base per ogni possibile relazione“ - non impedisce che le diverse posizioni espresse su un argomento s’incontrino. L’uso degli hashtag (parole chiave) su Twitter favorisce il raggruppamento di posizioni diverse - generate da diverse cerchie “omofile” - rispetto a un singolo argomento.

La produzione di informazione diretta, dalla fonte a un’ampia fetta di fruitori - il fenomeno della “disintermediazione” dell’informazione – coinvolge diversi attori sociali, “che non si limitano a consumare informazioni, dati, opinioni, ma li producono e li condividono [e] questo vale anche per l’informazione scientifica” (D. Pitrelli). Pitrelli distingue diverse tipologie di disintermediazione scientifica. La “disintermediazione istituzionale” è quella attuata, ad esempio, dalle università americane e britanniche con la realizzazione del sito Futurity.org e si pone come “alternativa al lavoro giornalistico pur sfruttandone forme e linguaggi”. Diverso è il caso degli scienziati-blogger, che “non si pongono necessariamente in opposizione ai giornalisti scientifici, né vogliono necessariamente sostituirsi ad essi [ma] entrano nel campo dell’informazione come possibili fonti specialistiche e come generatori di contesti culturali  e conoscitivi di cui un giornalismo scientifico riformato non può che giovarsi”. Amazings.es, infine, è un progetto ideato da circa 80 blogger e ricercatori spagnoli. Uno dei suoi obiettivi è “essere un punto di riferimento attendibile per i giornalisti scientifici”.

Scienza e internet, nuove strategie di comunicazione

Analizzare il rapporto reciproco tra scienza e internet è interessante, secondo Davide Bennato, perché “la scienza è un progetto collettivo organizzato in comunità (le comunità scientifiche) […] Infatti il lavoro del ricercatore scientifico prevede come fase importante della sua attività l’uso di strumenti di comunicazione – conferenze, convegni, paper, presentazioni e così via.” Alcuni modelli contemporanei della comunicazione della scienza spiegano come “l’aspetto della comunicazione fra ricercatori e la divulgazione al grande pubblico non sono da intendersi come mondi a parte, bensì come un continuum in cui – ad esempio – il modo di comunicare del paper si distingue dal modo di comunicare del programma televisivo per stili adottati e contesti comunicativi di riferimento”. Negli ultimi anni tuttavia, “esistono tentativi per mettere a punto delle strategie di classificazione della comunicazione scientifica che abbiano come modello di riferimento le relazioni pubbliche”. In questo modello “elementare” sono previste sei componenti fondamentali della comunicazione scientifica: “la comunicazione intraepistemica che avviene tra il ricercatore e i propri pari; la comunicazione trans-epistemica che si dipana tra ricercatori di ambiti diversi; la comunicazione “di rete” che si svolge con soggetti dell’indotto della ricerca (manager, fornitori, consulenti); la comunicazione sociale, che è il momento del dialogo con la società civile (gruppi sociali, associazioni, imprese); la comunicazione politica i cui soggetti coinvolti sono politici, legislatori e decisori (partiti, pubbliche amministrazioni, think tank); la comunicazione generale che invece è quella che si rivolge al pubblico nel suo complesso”. Dal punto di osservazione di Bennato “quello che è interessante è il nuovo ruolo del ricercatore che è diventato sempre più soggetto sociale – spesso nascosto agli occhi del pubblico – e sempre meno chiuso fra laboratori e ricerche internazionali. Sempre più spesso, nei dibattiti scientifici che hanno conseguenze politiche, le controversie scientifiche fra esperti che sostengono posizioni diverse, definiscono il campo d’azione delle scelte collettive del decisore politico”.

Diamo il benvenuto a quei ricercatori che nelle diverse forme e grazie anche ai social media hanno deciso di confrontarsi nell’arena pubblica. Alla luce dei dati sull’analfabetismo che affligge il nostro paese, non possiamo tuttavia non chiederci quale sarà il ruolo dei cittadini. Quanti di loro, e quando, avranno gli strumenti per essere “soggetti sociali”, in grado di partecipare attivamente a “definire il campo di azione delle scelte collettive del decisore politico”? La democrazia può attendere.

Referenze: 

I contributi degli autori citati sono tratti da “Scienza connessa - Rete, media e social network” a cura di Sveva Avveduto, Gangemi editore, 2012


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