fbpx Predatori e prede: quando la valutazione aiuta il “lato selvaggio” della scienza | Scienza in rete

Predatori e prede: quando la valutazione aiuta il “lato selvaggio” della scienza

Primary tabs

Tempo di lettura: 4 mins

"Lince" di von Ludwig Beckmann. Crediti: Wikimedia Commons. Licenza: pubblico dominio

La primavera è alle porte quando Cobange, un biologo dell’Istituto Medico di Asmara, riceve un’email che contiene un’ottima notizia: un suo articolo sulle proprietà antitumorali di una sostanza chimica è stato accettato per essere pubblicato sul Journal of Natural Pharmaceuticals.
Sfortunatamente lo studio era chiaramente artefatto e Cobange non è mai esistito. Era il frutto della fantasia del giornalista scientifico John Bohannon che, qualche giorno prima, aveva inviato lo stesso testo a un centinaio di riviste, fra cui anche il Journal of Natural Pharmaceuticals.

Il suo esperimento è stato descritto in un articolo della rivista Science, questa volta firmato da Bohannon con il suo vero nome. Uno dei suoi obiettivi era testare l’affidabilità di una lista di riviste “potenzialmente, possibilmente o probabilmente” predatorie. Riviste cioè che millantano standard scientifici, ma che a pagamento pubblicano qualsiasi cosa. Secondo i risultati dell’esperimento, l’84% delle riviste contattate decise di pubblicare l’articolo artefatto senza richiedere alcuna modifica. Dunque la lista curata dal bibliotecario universitario Jeffrey Beall, nonostante le controversie che hanno portato alla sua chiusura, si è dimostrata piuttosto informativa.

Le riviste predatrici e i ricercatori prede

Ma perché occuparsi di riviste che, fino a qualche tempo fa, nessuno conosceva e che, probabilmente, hanno un ruolo assolutamente marginale nella diffusione della conoscenza all’interno della comunità scientifica? In primo luogo, articoli come quello di Cobange possono essere ripresi dalla stampa generalista e contribuire alla diffusione di fake news. In alcuni casi con conseguenze risibili, in altri più gravi.

Un secondo motivo per mettere sotto i riflettori le riviste predatorie risiede nel fatto che non sono scelte solo da ricercatori immaginari o truffaldini. Un nostro studio (disponibile anche in versione working paper) mostra che, su circa 46mila ricercatori e professori che nel 2012 hanno partecipato alla prima edizione dell’Abilitazione scientifica nazionale, il 5% vi ha pubblicato almeno un lavoro, per un totale di circa 6mila articoli. Nei dieci anni precedenti, la quota di articoli pubblicati su queste riviste è cresciuta significativamente. Ed è più alta nei settori scientifici dove solo recentemente è diventato importante pubblicare su riviste internazionali come l’economia aziendale, ma anche alcuni settori di medicina e di ingegneria applicata. Secondo le nostre analisi, i ricercatori che hanno maggiore probabilità di pubblicare su queste riviste sono maschi, lavorano in dipartimenti che hanno ottenuto un punteggio più basso nella Valutazione della Qualità della Ricerca e, soprattutto, sono più giovani inesperti. Per quanto si tratti di semplici correlazioni, l’inesperienza suggerisce che alcuni ricercatori possano essere prede inconsapevoli dell’editoria predatoria, mettendo a rischio sia loro reputazione sia quella delle loro ricerche.

La terza ragione per cui occuparsi del “lato selvaggio” della comunicazione scientifica, a nostro avviso la più importante, emerge dai risultati di un’indagine contenuta nel nostro studio: alcuni colleghi hanno inviato i loro articoli alle riviste predatorie nella speranza che potessero contare nelle valutazioni della ricerca. Uno di loro, per esempio, ci ha scritto:

Partecipai a una conferenza di quell’organizzazione e mi fu offerto di pubblicare velocemente il paper in una rivista (…). Avevo bisogno della pubblicazione per l’abilitazione e accettai di pubblicare nella rivista che mi proponevano. Mi sono pentito di quella scelta

In alcuni casi, quindi, sono gli incentivi perversi della valutazione a spingere le prede fra le braccia dei predatori.

L'importanza della valutazione

Ma come è possibile che le valutazioni accademiche assegnino valore positivo ad articoli che appaiono su riviste che “probabilmente” non hanno alcun valore? Esistono almeno due spiegazioni. La prima risiede nell’uso automatico di liste di riviste molto ampie considerate legittime. Per esempio, un quarto delle riviste predatorie individuate nel nostro studio è indicizzato in Scopus, una delle principali banche dati di riviste accademiche, spesso utilizzata come segno di qualità in alcune valutazioni scientifiche. Secondo la nostra indagine, invece, in almeno un terzo dei casi anche queste riviste (presenti sia in Scopus sia nella Lista di Beall) hanno utilizzato pratiche scorrette.

La seconda spiegazione è invece legata alle caratteristiche delle commissioni di valutazione. Sfruttando la variabilità della qualità accademica dei commissari generata dal sorteggio dell’Abilitazione, come se si trattasse di un esperimento naturale, abbiamo riscontrato che gli autori di pubblicazioni predatorie hanno maggiori probabilità di promozione quando la qualità della commissione è relativamente bassa.

In conclusione, le riviste predatorie sembrano la classica punta dell’iceberg di un problema più ampio che riguarda la valutazione della scienza: la presenza di importanti asimmetrie informative fra valutatori e valutati. L’utilizzo di segnali poco informativi sulla qualità delle pubblicazioni, come per esempio l’indicizzazione su Scopus o la mera presenza di un comitato editoriale internazionale, può condurre a risultati molto inefficienti. Per sconfiggere il lato selvaggio delle pubblicazioni scientifiche occorre invece coinvolgere nelle valutazioni professori e ricercatori in grado riconoscere la qualità della ricerca e limitare l’uso automatico di liste di riviste onnicomprensive. Alcuni cambiamenti ai quali sta lavorando il MIUR sembrano purtroppo andare nella direzione opposta e rendere il problema più grave.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: