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La paura ai tempi del Coronavirus

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Riprendere la teoria della comunicazione del rischio per spiegare il crescere della paura per le malattie. Quelle infettive, però. Come spiegano Fabrizio Bianchi e Liliana Cori in quest'articolo, infatti, "la combinazione tra modalità di trasmissione, meccanismo di generazione di malattia, gestione del rischio e paura intrinseca travalicano l’entità dell’impatto sulla salute"

Insieme all’epidemia si diffonde e cresce la paura. Non è una novità, anzi è una costante che riguarda soprattutto le malattie infettive, mentre è molto attenuata o flebile a riguardo delle malattie non trasmissibili. Il perché è rintracciabile nella teoria della comunicazione del rischio, riscontrabile nella storia della salute pubblica, e confermato anche dalla attuale vicenda del COVID-19.

Nella moltitudine di interventi sui media si ritrovano tutti gli ingredienti tipici delle epidemie: accuse, complotti, strumentalizzazioni, interessi oscuri, pochi che provano a tranquillizzare troppo e molti che pretendono collaborazione e razionalità di fronte a scenari complessi (che nessuno riesce a conoscere in modo esaustivo).

Riemergono paure sperimentate nel passato lontano (peste), più vicino (vaiolo) e mai dimenticate. Emergono uno per uno gli elementi che caratterizzano la percezione del rischio, che deve essere considerata per gestire la comunicazione del rischio in modo consapevole. Essi consentono di capire le differenze tra malattie infettive e malattie non trasmissibili.

È evidente il ruolo di tanti fattori sociali, culturali e di contesto che influiscono sulla percezione dei rischi. Come scrive Andrea Cerase nel suo bel libro “Rischio e comunicazione. Teorie, modelli, problemi” (2017), “I risultati del vasto insieme di ricerche hanno consentito di evidenziare alcune caratteristiche chiave per spiegare la percezione del rischio e influenzare le decisioni: la familiarità, la controllabilità, la volontarietà dell’esposizione, il potenziale catastrofico, l’equità, l’immediatezza del pericolo e il livello di conoscenza”. Secondo questa impostazione, e riprendendo Sandman (1993), la percezione del rischio è il giudizio soggettivo che le persone elaborano riguardo alle caratteristiche, alla gravità e al modo in cui viene gestito il rischio stesso. Uno degli elementi chiave è il senso di oltraggio e indignazione che provoca il rischio, outrage, strettamente collegato alla fiducia nelle persone/enti di controllo e alla familiarità del contesto. Sandman propone il rischio come prodotto tra il pericolo (hazard) e l’outrage.

Il rischio va inteso come valutazione probabilistica (prodotto tra la probabilità che l’evento si verifichi e gravità del potenziale danno). Tale valutazione probabilistica è influenzata dall’outrage, elemento chiave per stimare il rischio, che riguarda sia la natura del rischio che la sua gestione.

Nel recente documento guida sulla comunicazione del rischio ambientale per la salute (EpiAmbNet-CCM, Ministero della Salute) sono illustrati gli elementi che aumentano o attenuano la paura.

  • La volontarietà: se il rischio è volontario sembra più basso, se è imposto da altri o non si ha la possibilità di controllarlo viene percepito come maggiore. E’ chiaro che questa del COVID-19, come tutte le epidemie, non solo è involontaria, ma evidentemente incontrollabile dai singoli, e sembra poco controllabile anche dalle autorità.
  • La conoscenza: un rischio nuovo fa più paura e quello di oggi è stato imposto sulla scena come un virus del tutto sconosciuto e senza rimedio. Un rischio per cause naturali fa meno paura di uno provocato da qualcuno, e le teorie complottiste aumentano la sensazione di disagio. Un rischio reversibile fa meno paura di un rischio irreversibile, e se esiste un rischio ma ci sono vantaggi potrebbe anche essere accettabile. Ma in questo caso si vede come tutti abbiano svantaggi, e la paura della morte, su cui si insiste continuamente, incombe su tutti i contagiati (a prescindere dal tasso di letalità).
  • La fiducia: se si ha fiducia in chi gestisce il rischio, non lo si percepisce così alto. Ma in questo caso tante voci si levano, anche in modo opportunistico, per minare la credibilità delle istituzioni sanitarie. E una volta persa la fiducia è difficilissimo riconquistarla. Le divergenze nel mondo scientifico in una situazione di emergenza possono essere devastanti perché impongono scelte di campo invece di aumentare conoscenze e fiducia.

Alla luce di quanto detto si comprende perché l’attenzione per l’evoluzione di questa epidemia non sia comparabile con quella dedicata alle malattie non trasmissibili, in particolare a quelle provocate dall’inquinamento ambientale.

Il primo elemento di distinzione è che la paura per malattie con meccanismo deterministico, cioè con trasmissione diretta (il contatto determina l’infezione) è ben diversa dalla paura per malattie con meccanismo probabilistico, in cui a una esposizione (a inquinamento) corrisponde un aumento della probabilità di ammalarsi. In termini più formali, le malattie infettive hanno un’unica causa necessaria mentre le malattie non trasmissibili hanno molteplici cause (rete di causazione) che non sono di solito né necessarie né sufficienti.

COVID-19 non si sottrae a tutto questo. La paura è insita nelle sue caratteristiche e non è completamente gestibile, tanto meno con richiami generici a dominare la paura, come non è evitabile un sovrappiù di preoccupazione pubblica per la gestione di un problema così complesso.

In nome del dovere di informare e del diritto di conoscenza, ambedue sacrosanti, tutti gli organi di informazione e i social-media offrono in diretta l’aggiornamento del numero dei contagiati e di ogni nuovo decesso, corredati col numero di cittadini sottoposti a misure di contenimento. Ogni decesso assume un peso enorme e aumenta paura e smarrimento.

In realtà, l’OMS rilascia rapporti giornalieri con il necessario livello di dettaglio per valutare non solo l’entità complessiva del fenomeno ma anche la sua progressione.

Nei rapporti si trova la popolazione residente, il numero di casi contagiati confermati (secondo la definizione OMS) per giorno e cumulati, il numero di morti per giorno e cumulati letalità cumulato, e altre informazioni, inclusi i casi sospetti e la curva dell’andamento epidemico. Il tasso di letalità calcolabile, usando come denominatore non i casi malati ma tutti i casi contagiati (che, fortunatamente, solo in parte sono o diventeranno malati), da una informazione interessante sulla diversa fase temporale delle epidemie in Cina e negli altri Paesi. Al 23 febbraio, il tasso di letalità in Cina è attestato attorno al 3,2% mentre negli altri Paesi è di circa l’1%. In Italia, in considerazione del fatto che l’epidemia è in fase crescente, il tasso di letalità varia tra il 2% e il 3%, ma l’attenzione è tutta spostata sulla progressione dei contagiati e dei morti: numeri assoluti molto piccoli che producono una paura molto grande.

Ci si avvita così in una danza macabra dell’informazione che non ha riscontro in nessun altro campo della sanità.

Non per le influenze “normali”, che producono ordini di grandezza in più di contagiati (l’ISS stima che ogni anno le sindromi simil-influenzali coinvolgono circa il 9% dell’intera popolazione italiana) e oltre 6.000 decessi per cause dirette e indirette. Si tratta di un tasso di letalità di circa 1 su 1.000 che, pur essendo molto più basso rispetto a quello del COVID-19, in considerazione dell’elevatissimo numero di contagiati, produce un numero non trascurabile di decessi.

Nessun confronto viene fatto poi con i decessi dovuti all’inquinamento dell’aria, oltre 100 al giorno in Italia (con stime più prudenziali) o il doppio secondo le stime dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, ma ai quali è data meno attenzione perché ritenuti, a torto, aleatori.

Dunque, respirare o ingerire un virus pericoloso, come SARS-CoV-2, evocano un timore diverso e solitamente maggiore rispetto a respirare o ingestire una particella ultrafine carica di sostanze cancerogene.

Un altro elemento che differenzia le malattie infettive da quelle non trasmissibili è la possibilità di contenere il problema: da una parte l’isolamento, la chiusura di aree e funzioni per evitare che le persone si trasmettano il virus, dall’altra le azioni per abbassare l’esposizione a inquinanti ormai ubiquitari, con discussioni infuocate sull’efficacia delle misure (es. dibattito sullo stop alle auto euro x).

La combinazione tra modalità di trasmissione, meccanismo di generazione di malattia, gestione del rischio e paura intrinseca travalicano l’entità dell’impatto sulla salute.

Si tratta di una paura ben diversa da quanto preconizzato da Hans Jonas, secondo il quale la responsabilità verso il futuro implica una “euristica della paura”, una paura che sarebbe da recuperare dal nostro bagaglio biologico per imparare ad usarla come uno strumento che ci induce alla prudenza.

 


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