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Nancy Hopkins: storia della battaglia per la parità di genere al MIT

Si celebra tra poco la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza: cogliamo l'occasione per ripercorrere la storia di Nancy Hopkins, biologa del MIT che con le colleghe ha portato avanti una lunga e impegnativa battaglia per la parità di genere in uno degli istituti più prestigiosi del mondo.

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Pochi giorni prima della giornata dedicata alla ragazze e donne nella scienza, fissata dalle Nazioni Unite l’11 febbraio, l'Accademia Nazionale delle Scienze americana ha annunciato che conferirà la Public Welfare Medal a Nancy Hopkins. Parliamo di una figura carismatica, una famosa biologa molecolare che, nel corso di quarant’anni di carriera al Massachusetts Institute of Technology, ha coraggiosamente sostenuto iniziative per creare e garantire pari opportunità alle donne nella scienza. La storia della sua carriera è così emblematica da meritare di essere raccontata in un libro, intitolato The Exceptions: Nancy Hopkins, MIT and the Fight for Women in Science, scritto dalla giornalista Kate Zernike.

La carriera di Nancy Hopkins inizia nel 1973, quando arriva al Cancer Center del MIT: è la seconda donna tra i professori del dipartimento di biologia, ma la cosa non la preoccupa. Benché sia una biologa molecolare nota e apprezzata, Hopkins inizia a capire che per fare carriera nell’università il merito non è tutto. Nelle sue note racconta di come sia stata sorpassata da colleghi maschi con meno titoli di lei, come non le sia stato confermato l’insegnamento di un corso di biologia che aveva contribuito a progettare, di come abbia ricevuto insistenti attenzioni non richieste. Ma lei non molla. Dopo vent'anni di onorato servizio al MIT, decide che vuole studiare la genetica dello zebrafish e ha bisogno di un laboratorio un po’ più grande. Chiede giusto una ventina di metri quadri in più per le taniche dei pesci, ma le sue richieste vengono respinte. Ricevuto l’ennesimo rifiuto, una sera del 1993 Nancy, esasperata, prende un metro a nastro (che in effetti è in pollici e non in centimetri) e inizia a misurare le dimensioni dei laboratori e degli uffici della palazzina dove lavora. I risultati sono chiarissimi: i ricercatori maschi hanno decisamente più spazio delle ricercatrici. Nancy è una scienziata e fa un po’ di statistica. I colleghi giovani, che sono all’inizio della carriera, hanno circa 185 m2, i full professor ne hanno tra 270 e 560, lei si doveva accontentare di 140. Si confronta con le altre 15 professoresse della School of Science del MIT e, pur senza conoscersi a fondo, scoprono di avere molte esperienze in comune.

Nel libro viene raccontato il percorso di ciascuna e si capisce come ognuna di loro avesse sofferto una sistematica discriminazione. Nessuna si era mai ribellata apertamente, anche perché nessuna si identificava nel movimento femminista. Tutte erano scienziate che volevano poter fare la loro ricerca ed essere riconosciute per i loro meriti. Chiedono un colloquio con Robert Birgeneau, il preside di scienze, che le ascolta. Le professoresse si presentano con i dati che hanno raccolto a proposito di spazi e risorse, ma anche sull’ammontare dei loro stipendi (informazione riservata nel sistema americano, dove i salari vengono negoziati individualmente). Quasi nessuna ha figli, non perché non potessero averne ma perché hanno rinunciato a priori, dal momento che la gestione dei figli avrebbe rovinato la loro carriera. Ma i problemi sono tantissimi: c’è chi, come single, non riesce ad accendere un mutuo e non può sfruttare le possibilità offerte dal MIT, che presta soldi ai suoi docenti. Tutte lamentano di non essere riuscite a inserirsi e si sentono infelici e fuori posto.

Birgeneau è colto di sorpresa, ma si convince che la discriminazione esiste davvero. Potendo vedere l’ammontare degli stipendi di tutti i professori, capisce le proporzioni del problema, a cominciare dalla disparità salariale. Parla con il presidente del MIT Chuck Vest, un personaggio con un certo senso dell’umorismo perché usava dire che dal MIT aveva ricevuto due lettere: la prima nella quale veniva respinta la sua domanda di entrare come professore associato, e la seconda dove gli chiedevano di assumere l’incarico di presidente. Nonostante Vest non prendesse mai decisioni senza avere sentito il consiglio, questa volta consulta la moglie e la figlia, che gli dicono che è tutto tristemente vero. Allora incoraggia le professoresse a proseguire il lavoro che sfocerà in un rapporto pubblicato nel 1999 con la prefazione dello stesso Vest. Emergono così decenni di marginalizzazione delle donne, che avevano stipendi inferiori uniti a meno disponibilità di fondi e di spazio. Per il MIT è un momento di dolorosa presa di coscienza: parliamo di un’istituzione rispettatissima che ha accolto le prime donne nel 1873, grossomodo un secolo prima dell’università di Harvard, che è letteralmente dall’altra parte della strada.

Il rapporto fa scalpore; suo malgrado Hopkins diventa famosa e rilascia moltissime interviste, una delle quali proprio a Kate Zernike, che allora lavorava al Boston Globe e ora ha deciso di raccontare i retroscena della storica battaglia che ha portato alla creazione di asili nido all’interno del campus, di programmi per incentivare l’assunzione di donne, un migliore accesso ai fondi e una più attenta distribuzione degli spazi. A proposito di spazi, il metro a nastro usato per la storica misurazione, è ora in mostra al museo del MIT

Vale la pena di ripercorrere la storia delle battaglie di Nancy Hopkins e delle sue colleghe, perché la guerra dell’uguaglianza di genere non è ancora vinta e i pregiudizi sono durissimi a morire. Come dimostra un episodio avvenuto nel 2005, quando Nancy è invitata a una conferenza al National Bureau of Economic Research per parlare della diversità di genere nelle scienze e in ingegneria. Dopo il pranzo è previsto un discorso di Larry Summers, presidente di Harvard. Il nostro vuole provocare e dice che le donne sono in numero minore perché si impegnano meno nel lavoro di ricerca dal momento che devono badare alla famiglia ma, soprattutto, hanno meno predisposizione agli studi scientifici. Hopkins si infuria, si alza e se ne va in modo plateale. Il caso vuole che poche ore dopo riceva una chiamata da una giornalista che, informata della cosa, la pubblica, facendola rimbalzare su tutti i giornali. Summers disse che Hopkins era nemica della libertà di parola, ma l’anno dopo si dovette dimettere.

Purtroppo il mondo è pieno di personaggi che pensano che la scienza non sia adatta alle donne. Niente di più sbagliato. Piuttosto è vero il contrario: le Nazioni Unite sostengono che, per attuare gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, c’è bisogno del contributo di tutti, uomini e donne. Per questo è stata istituita la Giornata delle ragazze e delle donne nella scienza l’11 febbraio. Denunciando le difficoltà incontrate dalle scienziate (e dalle minoranze), Nancy Hopkins ha contribuito a combattere i pregiudizi meritando amplissimamente la Public Welfare Medal, il premio più prestigioso dell'Accademia delle Scienze americana, istituito nel 1914 per onorare un uso straordinario della scienza per il bene pubblico.

 


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