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Mi prescrive una app?

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Stethoscope and mobile. Credit: StockSnap / Pixabay. Licenza: CC0 1.0.

Negli ultimi mesi l’FDA, l’ente statunitense che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici, ha dato la sua approvazione a due app: BlueStar, per la gestione del diabete, e Reset, per il trattamento delle dipendenze da sostanze d’abuso. Quest’ultima, in particolare, ha caratteristiche che la portano a dover essere prescritta, proprio come si fa con un farmaco. Significa che, sebbene chiunque la possa scaricare dallo Store, solo chi ha un codice a barre fornito dal medico può usufruirne. Non solo: è la prima a proporre non tanto una gestione della malattia (come fa ad esempio BlueStar) quanto un trattamento che ha l’obiettivo di modificare il comportamento dei pazienti. E lo fa in digitale, trasferendo su uno smartphone ciò che di norma prevede un rapporto faccia a faccia con il medico. È, in un certo senso, essa stessa una parte del trattamento.

La novità non è di poco conto. Cosa comporteranno "le app in farmacia" per l'efficacia, la sicurezza e - dicamo così - l'umanizzazione delle cure? Lo abbiamo chiesto a Francesco Gabbrielli, responsabile del Centro Nazionale Telemedicina e Nuove Tecniche Assistenziali dell’Istituto Superiore di Sanità.

Trattamento, non terapia

Trattamento digitale è una definizione data a fini esemplificativi e non va scambiata per la definizione scientifica di una nuova terapia: si usa per indicare un sistema del controllo del paziente e della sua malattia attraverso mezzi digitali, e costituisce esso stesso una parte del trattamento medico” spiega Gabbrielli. Un’integrazione, quindi, e non una sostituzione della terapia classica. “Il digitale offre, in più, un controllo molto puntuale, di giorno in giorno, in ora in ora, dell’andamento di alcuni parametri vitali e fisici dell’individuo anche rispetto alla terapia farmacologica che assume nello stesso periodo”, spiega ancora Gabbrielli. “Restituisce insomma al malato una serie di informazioni che migliorano l’aderenza terapeutica al trattamento che il medico gli ha dato. Non solo: se previsto dal sistema, può trasferire i dati direttamente al centro di controllo sanitario che ha in carico il paziente, che può essere presso un ospedale o una struttura sanitaria di qualunque tipo, dove c’è qualcuno che monitora queste informazioni e, con allarmi predeterminati caso per caso, può far scattare un intervento specifico. Può essere una telefonata dello stesso medico o un servizio d’urgenza, come avviene per i pacemaker di ultima generazione che trasmettono direttamente una serie di informazioni sul lavoro del cuore e le sue eventuali difficoltà”.

Valutare un software

Ed è qui che bisogna fare attenzione. Se un medico sceglie (mando un’ambulanza o no?) in base a ciò che gli dice una app, se dal funzionamento di questa dipendono delle decisioni mediche di tipo diagnostico e terapeutico, se un errore della app può avere un impatto significativo sulla condizione clinica e sulla vita dell'individuo, allora bisogna essere sicuri che funzioni bene. “Non possiamo sbagliare né in eccesso né in difetto”, commenta Gabbrielli, che sta progettando di costruire un sistema di valutazione per tutte le app in ambito sanitario, in collaborazione con il Centro Nazionale Tecnologie Innovative in Sanità Pubblica  (sempre dell’Istituto Superiore di Sanità). Non è un lavoro semplice. “Bisogna capire se la logica con cui è stato costruito l’algoritmo è la più opportuna per ottenere il risultato desiderato”, spiega Gabbrielli, “e bisogna avere dei criteri di riferimento che dicano cosa è buono e cosa no; questi criteri non sono ancora ben definiti, ed è ciò a cui stiamo lavorando”. Anche la possibilità di eseguire trial clinici sulle app presenta non poche difficoltà. Un motivo su tutti: i tempi dei trial sembrano essere incompatibili con quelli rapidi dell'aggiornamento tecnologico delle app. “Attualmente non esiste una modalità per eseguire in tempi rapidi, diciamo di 6 mesi o un anno, trial clinici rigorosi come gli altri. Questo è un grosso problema in termini di ricerca”, prosegue Gabbrielli, “perché richiede nuove soluzioni e magari una nuova matematica. Esistono altre forme di sperimentazione ma i loro risultati lasciano dei dubbi, perché manca uno strumento di ricerca idoneo che permetta di condurre veri trial clinici evidence-based sulle innovazioni tecnologiche. D’altra parte, il concetto di trattamento digitale attraverso le app è davvero molto recente”.

Resta il fatto che le app che possono influenzare le decisioni degli operatori sanitari, in Europa, devono essere trattate come dispositivi medici, per cui prima di essere immesse in commercio devono aver ottenuto le certificazioni di qualità previste dalla legge comunitaria che garantiscono la conformità ai requisiti di sicurezza.

Vantaggi e svantaggi

Una delle prime domande a sorgere di fronte alla diffusione di app mediche è: come si modificherà il rapporto tra medico e paziente? Come viene influenzata la componente umana di un momento delicato come il rapportarsi a una malattia? “Non ci sono dati oggettivi sufficienti a rispondere a queste domande”, risponde Gabbrielli. “È però stato dimostrato sperimentalmente che i pazienti sono soddisfatti, perché percepiscono una maggior vicinanza all’operatore sanitario, uno scambio maggiore. Questa maggior vicinanza si applica non solo alla singola persona ma a tutto il sistema che prende in carico il paziente”. Inoltre, il paziente non deve necessariamente recarsi in ospedale e i dati raccolti potrebbero essere utilizzati per studi clinici.

Al momento, tuttavia, le conferme scientifiche sulla loro validità sono ancora poche e c’è ancora lavoro da fare per valutarne efficacia e sicurezza, non ultima quella per proteggere i dati dei pazienti.


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