fbpx L’altra faccia della guerra: impatti e ripercussioni sulla biodiversità | Scienza in rete

L’altra faccia della guerra: impatti e ripercussioni sulla biodiversità

Primary tabs

Tempo di lettura: 7 mins

I conflitti armati mettono a rischio, in modo diretto e indiretto, anche la biodiversità. Valutarne gli impatti è complesso, e di conseguenze lo è anche sviluppare e attuare strategie per la salvaguardia della biodiversità - strategie però necessarie, se si considera che tra il 1950 e il 2000, circa l’80% dei conflitti armati ha avuto luogo in Paesi contenenti aree hotspot di biodiversità.

Fotografia dello zoo di Mariupol per gentile concessione di Gabriele Micalizzi

In momenti come questi risulta difficile togliere l’attenzione ai civili ucraini e alle incredibili sofferenze che l’invasione russa ha causato e continua a causare. Allo stesso tempo, però, l’essere umano non è l’unica vittima di questa guerra devastante. Come riportato nella lettera aperta dell’Environmental Peacebuilding Association - firmata da quasi mille scienziati e non, provenienti da 156 organizzazioni differenti e università di fama internazionale come il Massachusetts Institute of Technology, la Johns Hopkins University o il King’s College di Londra - l’invasione russa e la guerra in corso portano con loro una lunga serie di rischi ambientali, che si estendono ben oltre il potenziale di un disastro nucleare. Tra questi rischi, i possibili impatti sulla biodiversità rappresentano una grave minaccia da non sottovalutare.

Essendo il secondo paese più vasto in Europa, ironicamente preceduto dalla Russia, l’Ucraina ospita svariati ecosistemi acquatici e terrestri. Con 6 808 aree protette e circa il 35% della biodiversità continentale, non possono mancare anche specie a rischio d’estinzione, che nel 2001 ammontavano a un totale di 923, secondo quanto riportato nella valutazione della biodiversità in Ucraina. Tutti questi diversi ecosistemi, così come le 70 000 specie di flora e fauna che li compongono, si ritrovano ora però particolarmente a rischio. Non sono pochi, infatti, gli effetti che un conflitto, anche di breve durata, può avere sulla biodiversità.

Primo fra tutti la distruzione diretta di habitat e vegetazione. Gli intensi bombardamenti che hanno segnato il paese nell’ultimo mese hanno infatti causato incendi di dimensioni talmente grandi da essere rilevabili dallo spazio e che, di conseguenza, hanno parzialmente, se non completamente, distrutto vegetazione e habitat unici per alcune delle 45 000 specie animali presenti. Tutto ciò, peraltro, proprio durante la stagione di nidificazione e accoppiamento.

Già nel 2014 le operazioni militari nell’Ucraina orientale avevano causato un aumento significativo di incendi, che hanno raso al suolo foreste, praterie e campi agricoli. Tra il 2014 e il 2018, dati di telerilevamento hanno registrato più di 14 000 incendi in alcune aree orientali del paese, come il Donetsk e il Luhansk, per un’area totale di 1,9 milioni di ettari di terreno. Alla base di quest’aumento nel numero e nell’intensità di incendi si trova la mancanza di controllo e gestione da parte del governo. Infatti, se nel 2018 l’area media di incendi in zone controllate dal governo ammontava a circa 150 ettari, soli 50 ettari in più rispetto al 2013, i territori non controllati dal governo sono arrivati ad avere un’area media di incendi di circa 350 ettari, ovvero circa 240 ettari in più rispetto al 2013. Ulteriore aggravante, poi, sono stati gli aumenti drastici di temperature in conseguenza al cambiamento climatico. Proprio nel 2017, infatti, sono state registrate temperature particolarmente elevate che hanno portato a picchi record nell’incidenza di incendi.

Questi incendi, inoltre, non causano semplicemente la distruzione di importanti ecosistemi, ma rilasciano anche elevate quantità di fumo e di diversi composti chimici tossici, come idrocarburi policiclici aromatici (IPA) o monossido di carbonio, che possono portare a marcate conseguenze sulla salute umana e animale. In particolare, conseguenze dirette possono interessare la salute - così come le rotte - degli uccelli migratori, il cui ritorno nel paese avviene in genere proprio in questo periodo. Danni alla salute di flora e fauna sono anche la conseguenza del lento rilascio di sostanze chimiche da parte di ordigni esplosi e inesplosi sepolti nel terreno, che rappresentano infatti un grosso pericolo contaminante che può perdurare addirittura anni e che può intaccare anche la salute umana, come accennato nel recente articolo di Scienza in rete sugli UXO (unexploded ordnance).

Se già prima dell’invasione russa dello scorso febbraio le regioni orientali dell’Ucraina rappresentavano una delle zone più contaminate da mine nel mondo, questo periodo di guerra non può che aver peggiorato la situazione e i rischi correlati. Rischi che non si limitano all’inquinamento chimico, ma che rappresentano anche una minaccia diretta sulla vita di diverse specie animali, se si considera che questi ordigni possono risultare in esplosioni al passaggio di animali e, quindi, causare la morte di diversi di essi. La guerra in Afghanistan, per esempio, ha portato alla morte di più di 75 000 animali a causa dell’esplosione di mine, che hanno spinto particolari specie già a rischio, come il leopardo, ancora più vicine all’estinzione.

Da non sottovalutare, poi, sono anche i rischi per la biodiversità marina. Le molte operazioni navali intraprese dagli eserciti possono infatti essere causa di non poche sofferenze per gli animali acquatici. Malattie da decompressione e traumi acustici sono solo alcuni esempi di queste sofferenze, riportati in uno studio della Carleton University di Ottawa. Lo stesso studio riporta come, inoltre, emorragie all’orecchio e spiaggiamento di delfini e balene possano essere conseguenza diretta della sovrapposizione tra la loro frequenza acustica e quella utilizzata dai dispositivi sonar navali. Infine, la ricerca evidenzia come, in seguito a esplosioni sottomarine, un ulteriore impatto sia rappresentato da danni da sovrapressione e frammentazione.

Altra categoria particolarmente colpita da guerre e conflitti è rappresentata dagli animali tenuti in cattività. Solo lo zoo della capitale ucraina ospita quasi 4 000 animali, impossibili da evacuare e, allo stesso tempo, difficili da controllare in momenti complicati come questo, in cui la linea tra la vita e la morte risulta troppo sottile per tutti gli esseri viventi. Anche la città di Mariupol, ormai rasa al suolo dai bombardamenti, rappresenta un chiaro esempio delle ripercussioni sugli animali. Gli intensi conflitti avvenuti nelle zone circostanti lo zoo hanno infatti portato alla morte di diversi animali della struttura, minacciando allo stesso tempo quelli rimasti in vita per via della mancanza di approvvigionamenti di cibo.

La protezione della biodiversità in tempi di guerra

L’ampia gamma e le varie differenze che si possono riscontrare nelle conseguenze dirette sulla biodiversità di conflitti armati rendono difficile poter valutare precisamente tutti questi impatti su flora e fauna. A rendere ancora più complessa la situazione è anche la diversa natura di questi impatti. La guerra civile in Zimbabwe rappresenta un chiaro esempio di questa diversa natura. Essendo stata combattuta in alcuni dei principali habitat della fauna selvatica del paese, tale conflitto ha certamente rappresentato una grande fonte di stress per gli animali presenti nella zona. A ogni modo, la stessa guerra è stata anche benefica in senso lato, dato che durante il decennio di conflitti le popolazioni di elefanti hanno raggiunto uno dei tassi di densità più alti mai registrati a causa della marcata riduzione di attività di caccia.

La complessità che ne deriva rende dunque difficile non solo avere un quadro chiaro e completo dei vari impatti, ma anche sviluppare e attuare appropriate legislazioni volte a conservare e salvaguardare la biodiversità in tempi di guerra. Tali legislazioni, però, risultano essere indispensabili se si considera che, tra il 1950 e il 2000, circa l’80% dei conflitti armati ha avuto luogo in paesi contenenti aree hotspot di biodiversità, come Afghanistan, Vietnam, Congo o Kenya. È dunque fondamentale sviluppare linee guida che permettano di salvaguardare la biodiversità, evitando di interrompere l’attuazione di piani di conservazione ambientali che, in tempi di guerra, vengono spesso dimenticati e lasciati in secondo piano.

Proprio per enfatizzare la forte necessità di salvaguardare la natura e la biodiversità, nel 2001 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 6 novembre la giornata internazionale per prevenire lo sfruttamento dell'ambiente durante guerre e conflitti armati. Esattamente otto anni dopo, proprio nella giornata dedicata allo sfruttamento dell’ambiente in tempi di guerra, il dipartimento ambientale delle Nazioni Unite e l’Istituto di diritto ambientale hanno pubblicato un rapporto di particolare rilevanza, identificando le varie lacune e debolezze nelle leggi internazionali che proteggono l'ambiente durante le guerre e i conflitti armati e richiedendo una valutazione accurata delle legislazioni e dei diritti internazionali presenti al tempo.

Nel 2013, questa richiesta è stata presa in carico dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, che ha infatti incluso la protezione dell'ambiente in relazione ai conflitti armati nel suo programma di lavoro con il progetto Protection of the environment in relation to armed conflicts (PERAC), che dovrebbe concludersi il prossimo autunno. Questo progetto ha portato, nel 2019, all’adozione di 28 bozze di principi giuridici volti a rafforzare la protezione dell'ambiente prima, durante e dopo i conflitti armati, rappresentando uno dei traguardi più importanti nell’ambito della protezione legale dell'ambiente dagli anni '70.

Tra le 28 bozze di principi giuridici si possono trovare la designazione di aree ambientali e culturali significative come zone protette e la prevenzione e mitigazione del degrado ambientale nelle aree in cui si trovano le persone sfollate. Queste bozze costituiscono un primo passo importante nella legislazione internazionale, che dovrà però essere seguito da tanti altri passi prima che il benessere, i bisogni e gli interessi degli animali siano adeguatamente riconosciuti e protetti nei conflitti.

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Biodiversità urbana: com'è cambiata e come proteggerla

Anche le metropoli possono essere ambienti ricchi di specie: secondo un recente studio sono ben 51 le specie di mammiferi che vivono a Roma, alcune di esse sono specie rare e protette. Nel corso degli ultimi due secoli, però, molte specie sono scomparse, in particolare quelle legate alle zone umide, stagni, laghetti e paludi, habitat importantissimi per la biodiversità e altamente minacciati.

Nella foto: Parco degli Acquedotti, Roma. Crediti: Maurizio.sap5/Wikimedia Commons. Licenza: CC 4.0 DEED

Circa la metà della popolazione mondiale, vale a dire ben 4 miliardi di persone, oggi vive nelle città, un fenomeno che è andato via via intensificandosi nell’epoca moderna: nell’Unione Europea, per esempio, dal 1961 al 2018 c’è stato un costante abbandono delle zone rurali e una crescita dei cittadini, che oggi sono circa i