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In Italia la ricerca ascolta troppo poco malati e familiari: il caso dell'epilessia

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Se a mia figlia mancasse una mano, avrebbe una speranza. Questo ho pensato dopo aver appreso dei risultati del progetto realizzato da INAIL e IIT che in breve tempo ha prodotto la mano robotica. E ho provato un sentimento spontaneo di gioia per coloro ai quali la notizia sarà giunta come l’assoluzione giunge a chi era stato ingiustamente condannato all’ergastolo. Purtroppo, però, nell’orizzonte temporale di mia figlia non c’è la prospettiva di una cura per la sua malattia. Mia figlia, infatti, oltre a tutte e due le mani, ha anche una grave forma di epilessia per la quale, fino a oggi, non esiste alcuna cura e, tra gli sconci della malattia e gli effetti collaterali dei farmaci antiepilettici (ne assume quattro diversi tipi, tutti i giorni, da oltre 15 anni) può fare un uso limitato delle sue manine affusolate che non hanno ancora acquisito – e forse mai acquisiranno – le competenze necessarie per permetterle di aspirare a vivere la sua vita in pienezza e autonomia.

L’epilessia, una delle malattie neurologiche più diffuse al mondo

L’investimento pubblico e privato nella ricerca di una cura per l’epilessia è gravemente insufficiente anche se l’epilessia è una delle malattie neurologiche più diffuse nel mondo (ne soffrono circa 65 milioni di persone nel mondo e la World Health Assembly a maggio 2015 ha approvato una storica risoluzione rivolta agli stati membri dell’OMS perché adottino specifici piani di intervento; in Italia colpisce l’1% della popolazione, un terzo della quale con forme incurabili come quella di mia figlia). Per questo il dibattito in corso intorno a Human Technopole e ai sistemi di finanziamento pubblico della ricerca scientifica nel nostro Paese, riguarda anche me: perché le strategie di sostegno della ricerca scientifica, che si stanno decidendo oggi, influenzeranno il destino di mia figlia e delle migliaia di altre persone nella sua stessa condizione, in attesa di una cura per la loro malattia. È giusto che si discuta delle modalità e della trasparenza dei processi di allocazione delle risorse pubbliche ma il dibattito che si sta sviluppando tra gli attori della comunità scientifica, sembra escludere ogni considerazione nei riguardi di coloro nel cui interesse è realizzata un’iniziativa come Human Technopole.

Valutare la ricerca anche sulla base dell’impatto sulla vita delle persone

La preoccupazione mia e di coloro che rappresento è che nel pesare e soppesare la qualità del processo, ci si dimentichi che la ricerca non è il fine ma il mezzo per rispondere al bisogno concreto di una cura. Le mie preoccupazioni sarebbero inferiori se ci si confrontasse anche sul merito di un’iniziativa come Human Technopole; se si discutesse su quali strumenti di valutazione utilizzare per far emergere modelli di ricerca più efficaci di quelli attualmente utilizzati come, ad esempio, gli indici bibliometrici che non hanno avuto un impatto concreto sulla vita delle persone malate di epilessia.

La ricerca sull’epilessia

La storia della ricerca sull’epilessia ne è la testimonianza più fedele. Dal 1850, epoca in cui, per controllare le crisi si iniziarono a trattare le persone con epilessia con il bromuro di potassio, almeno una quarantina di composti sono stati immessi sul mercato: 16 nuove molecole solo negli ultimi 16 anni. Contemporaneamente, sono stati pubblicati moltissimi lavori che hanno arricchito di informazioni la descrizione delle diverse forme della malattia, dei meccanismi molecolari alla base di esse e via dicendo, generando “impact factor” per gli autori e per i loro istituti. Tuttavia, a fronte di una migliore tollerabilità e di minori effetti collaterali, i farmaci “nuovi” agiscono in modo aspecifico su recettori, canali ionici e neurotrasmettitori, analogamente ai loro predecessori e, se si guardano i dati aggregati, non vi sono stati sostanziali cambiamenti nella loro efficacia. Ancora oggi circa il 38% degli epilettici (30% secondo altre fonti) è resistente alle terapie. Un lavoro di 40 anni fa mostrava la stessa percentuale di farmacoresistenza. Questo dato probabilmente non si è mai modificato dal 1880, quando un famoso studioso (1) aveva mostrato che il 36% dei suoi pazienti non rispondeva al bromuro di potassio.

Lacune e risorse decrescenti per la ricerca

In questo scenario e pur a fronte di un’imponente produzione di letteratura, l’interesse e l’impegno dell’industria farmaceutica come pure dell’investimento pubblico in ricerca sull’epilessia, in contraddizione con i dati di prevalenza dell’epilessia e con il suo impatto sul sistema socio-sanitario, sono progressivamente diminuiti. In un recente workshop organizzato in Italia dalla Federazione Italiana Epilessie, che ha riunito istituzioni nazionali ed europee, ricercatori accademici, industrie, organizzazioni non profit e persone con epilessia, è emerso che alla ricerca sull’epilessia manca una forte “value proposition”, ossia una buona proposta di valore capace di generare interesse e impegno verso lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici. Vuol dire che mancano modelli preclinici attendibili, mancano bersagli terapeutici certi, mancano biomarcatori e manca un modo di procedere attraverso il raggiungimento di prove di concetto (verifiche?) nell’excursus sperimentale. La conclusione è che la ricerca scientifica sull’epilessia negli ultimi, diciamo 150 anni, non ha sostanzialmente cambiato la vita delle persone con epilessia: circa un terzo di esse era, ed è ancora, incurabile.

Perché consultare i portatori di interesse

È evidente, dunque, la necessità di sviluppare strumenti e approcci innovativi nella gestione della ricerca, come si sta tentando di fare con Human Technopole. Ma di tutto questo non si parla e la comunità dei portatori di interesse è sistematicamente esclusa dal dibattito nelle sedi istituzionali e nei consessi scientifici che, in modo autoreferenziale, decidono sopra le nostre teste quali sono le urgenze e le metodologie per individuarle. E, invece, noi siamo pronti a partecipare attivamente a questo processo nel quale la nostra presenza costituisce la prima forma di innovazione. Perché è innovativo portare nell’impresa scientifica il punto di vista di coloro nel cui interesse essa viene svolta, cioè noi. Perché è nostro compito e diritto partecipare alle scelte strategiche e ai processi di valutazione dei risultati della ricerca; perché sta a noi impedire che le istituzioni e ciascun componente della comunità scientifica, nella fatica del progettare e del ricercare, dimentichino che al di là delle strutture e delle infrastrutture ci sono gli occhi colmi di aspettative di una moltitudine di persone che guardano a quel faticare come a una sorgente di speranza per un presente migliore e in grado di restituire la capacità di progettare il futuro. Futuro che oggi è, invece, fonte inesauribile di angosce.  Chi dobbiamo contattare per iniziare a lavorare insieme?

Rosa A. Cervellione, madre di Vera

Presidente dell’Associazione di promozione sociale FIE-Federazione Italiana Epilessie, Presidente del Comitato Promotore della Fondazione FIE per la Ricerca, Presidente di ELO-Epilessia Lombardia onlus, Presidente Onorario del Gruppo Famiglie Dravet onlus.

(1) Cfr. l’articolo pubblicato nel marzo 2011 su Epilepsia – rivista scientifica internazionale specificamente dedicata all’epilessia (Volume 52, Issue 4, pages 657-678).


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