Foto di Guilhem Vellut. Licenza: CC BY 2.0.
Anche livelli di inquinamento dell’aria al di sotto dei limiti indicati dall’Unione Europea, dall’agenzia di protezione ambientale statunitense EPA e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità aumenterebbero nel lungo termine il rischio di morire e di sviluppare una serie di malattie respiratorie e cardiovascolari. In particolare, anche basse concentrazioni di biossido di azoto rappresenterebbero una minaccia per la salute umana.
Sono i risultati di uno studio pubblicato questa settimana dal progetto europeo ELAPSE (e parzialmente anticipati all’inizio del mese in un articolo sul British Medical Journal), che si è concentrato sull’associazione tra inquinamento dell’aria e incidenza della mortalità e di una serie di patologie analizzando i dati relativi a 28 milioni di cittadini residenti in sette paesi europei per circa 20 anni, dal 1990 al 2010.
Mentre l’impatto negativo del particolato sottile (PM 2.5) anche a basse concentrazioni era stato già indicato da due studi condotti negli Stati Uniti e in Canada e pubblicati nel 2019, il rischio associato a concentrazioni di biossido di azoto tra 10 e 40 microgrammi al metro cubo (il limite indicato dall’OMS), non era mai stato studiato.
Oltre al PM 2.5, lo studio ha considerato il cosiddetto black carbon, una componente del PM 2.5 emessa dai motori diesel e dalla combustione di biomasse, per esempio legna per il riscaldamento o carbone per la cottura dei cibi, e l’ozono.
«I risultati relativi al biossido di carbonio e al black carbon sono molto importanti per le politiche sanitarie», commenta Francesco Forastiere, epidemiologo dell’Istituto per la Ricerca e l’Innovazione Biomedica presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche e uno degli autori dello studio. «Diversamente dal PM 2.5, questi due inquinanti sono prodotti principalmente dal traffico veicolare e dai motori diesel in particolare, dunque intervenendo sul settore dei trasporti se ne può limitare fortemente la concentrazione, un’azione che i nostri risultati suggeriscono essere urgente».
Le conclusioni di questo studio sono particolarmente significative perché arrivano a meno di una settimana dall’annuncio delle nuove linee guida sulla qualità dell’aria da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in programma per il prossimo 22 settembre. Si tratta del primo aggiornamento dopo 15 anni. Nel 2005, infatti, l’OMS aveva fissato a 10 microgrammi per metro cubo la soglia di sicurezza per il PM 2.5 e a 40 microgrammi per metro cubo quella per il biossido di azoto. L’Unione Europea impone un limite molto più alto per il PM 2.5, cioè 25 microgrammi al metro cubo, mentre l’agenzia di protezione ambientale americana EPA è allineata con l’OMS, con uno standard di 12 microgrammi al metro cubo.
Il nuovo studio ha stimato che anche a concentrazioni di PM 2.5 inferiori a 25 microgrammi al metro cubo, un aumento della concentrazione di 5 microgrammi al metro cubo comporta un aumento del rischio di morte del 13% (con intervallo di confidenza tra 10% e 16%). Considerando concentrazioni inferiori allo standard dell’EPA, cioè 12 microgrammi al metro cubo, l’aumento del rischio di morte crescerebbe del 30% (anche se con incertezza maggiore, tra 14% e 47%).
Lo stesso vale per il biossido di azoto: a concentrazioni inferiori ai 40 microgrammi al metro cubo, un aumento della concentrazione di 10 microgrammi al metro cubo comporta un aumento del rischio di morte del 10% (incertezza tra 8% e 12%). A concentrazioni inferiori a 30 microgrammi al metro cubo, un aumento di 10 microgrammi al metro cubo comporta un aumento del 12% del rischio di morte (incertezza tra 7% e 16%).
Come si vede, oltre a constatare che esiste un’associazione tra aumento della concentrazione degli inquinanti e rischio di morte, i ricercatori hanno anche concluso che questa associazione è più forte a livelli più bassi di concentrazione. Questa conclusione è riassunta nell’andamento delle cosiddette funzioni concentrazione-risposta, che crescono più che linearmente a basse concentrazioni per poi rallentare a concentrazioni più alte. Queste funzioni indicano inoltre che non esiste una soglia di concentrazione al di sotto della quale il rischio di morte non aumenta all’aumentare della concentrazione dell’inquinante.
I cittadini europei coinvolti nello studio sono stati esposti in media a una concentrazione di 15 microgrammi a metro cubo di PM 2.5. e poco meno di 25 microgrammi al metro cubo di biossido di azoto. Nel campione italiano, che comprende circa 1 250 000 residenti nella città di Roma, la concentrazione media è stata tra 16 e 17 microgrammi al metro cubo di PM 2.5 e circa 33 microgrammi al metro cubo di biossido di azoto.
Il campione italiano è tra quelli con livelli di esposizione più alta agli inquinanti. Rispetto al particolato sottile, i cittadini norvegesi sono stati esposti in media a circa 8 microgrammi al metro cubo, quelli danesi e inglesi a circa 12, Paesi Bassi e Svizzera a livelli simili a quelli italiani. Solo per i cittadini belgi l’esposizione media è stata superiore, pari a circa 19 microgrammi al metro cubo. Per quanto riguarda il biossido di azoto, i cittadini romani hanno registrato uno dei massimi livelli di esposizione insieme agli olandesi, gli inglesi e i belgi sono stati esposti in media a concentrazioni tra 25 e 30 microgrammi al metro cubo, gli svizzeri tra 20 e 25, i danesi poco meno di 20 e i norvegesi circa 15.
Queste misure di esposizione sono una delle caratteristiche più distintive del progetto ELAPSE. I ricercatori di ELAPSE hanno infatti elaborato un modello che consente di ricostruire la mappa della concentrazione dei diversi inquinanti con un grado di risoluzione estremamente elevato. A partire da AirBase, il database sulla qualità dall’aria mantenuto dalla European Environmental Agency, il modello di ELAPSE stima la concentrazione dei diversi inquinanti su celle di 100 metri per 100 metri sfruttando le informazioni raccolte da satellite riguardo l’utilizzo del suolo e il traffico stradale. «Questo ci ha permesso di stimare a quale livello di concentrazione sono stati esposti i cittadini europei coinvolti nello studio, poiché a partire dai dati satellitari e da quelli raccolti dalle centraline di monitoraggio a terra abbiamo ottenuto il livello di esposizione all’indirizzo dei partecipanti», spiega Forastiere.
Anche per il black carbon, i ricercatori hanno osservato un’associazione positiva tra esposizione all’inquinante e mortalità (aumentando la concentrazione del black carbon aumenta anche il rischio di morire). Per quanto riguarda l’ozono, invece, l’analisi di ELAPSE indica che aumentando la concentrazione diminuirebbe il rischio di morte, in contrasto con le conclusioni di altri studi. Tuttavia, i ricercatori sottolineano come questo risultato vada preso con le pinze, perché esiste una forte correlazione negativa tra concentrazione nell’aria dell’ozono e degli altri tre inquinanti considerati, in particolare il biossido di azoto.
I ricercatori hanno poi studiato l’associazione tra l’esposizione prolungata agli inquinanti e la mortalità per patologie respiratorie e cardiovascolari, trovando che per concentrazioni di PM 2.5 inferiori a 25 microgrammi al metro cubo, un aumento di 5 microgrammi comporta un aumento del 13% nel rischio di morire per patologie respiratorie e 5% di patologie cardiovascolari. Per il biossido di azoto, sotto i 40 microgrammi al metro cubo il rischio di morte per queste due categorie di malattie cresce del 10% quando la concentrazione aumenta di 10 microgrammi al metro cubo.
Hanno infine considerato l’incidenza di alcune specifiche patologie: sindrome coronarica acuta (infarto del miocardio e angina pectoris), ictus, tumore al polmone, asma e broncopneumopatia cronica ostruttiva. Per tutti gli inquinanti tranne l’ozono, si osserva che l’aumento della concentrazione a cui i partecipanti allo studio sono stati esposti corrisponde a un aumento significativo nell’incidenza di queste cinque malattie.
Un elemento distintivo di ELAPSE è stato quello di analizzare gli impatti sanitari dell’inquinamento su un numero estremamente grande di cittadini europei, grazie alla capacità di sfruttare dati di natura amministrativa senza coinvolgere le persone con un contatto diretto. Il contatto diretto richiede infatti considerevoli sforzi organizzativi che limitano la dimensione del campione.
Una parte del progetto ELAPSE ha seguito questo approccio, arruolando nello studio circa 325 mila adulti residenti in sei paesi europei (Svezia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Germania e Austria). Ciascuno di questi adulti è stato seguito in media per 19,5 anni raccogliendo informazioni socioeconomiche ma anche relative agli stili di vita (indice di massa corporea, abitudini relative al fumo di tabacco). Queste caratteristiche individuali hanno un impatto sulla mortalità, che i ricercatori hanno potuto tenere in conto nella stima dell’impatto dell’inquinamento sulla salute. I risultati di questa analisi sono stati pubblicati sul British Medical Journal il 2 settembre.
Questa settimana, invece, ELAPSE ha pubblicato i risultati ottenuti considerando 28 milioni di persone, di cui 1,2 milioni di italiani, circa 6,5 milioni di belgi, 3,4 milioni di danesi, 10,5 milioni di olandesi 1,5 milioni di inglesi, 2,5 milioni di norvegesi, 4,3 milioni di svizzeri. I dati analizzati sono amministrativi e non comprendono informazioni relative agli stili di vita, ma è possibile dedurre alcune delle variabili socioeconomiche sia dalle informazioni individuali del censimento (istruzione, occupazione) sia della sezione di censimento di residenza. Questo approccio è stato per la prima volta proposto nel 2013 da un gruppo di epidemiologi della Regione Lazio, di cui faceva parte anche Forastiere. «I dati relativi agli stili di vita sono certamente importanti, ma dall’analisi sul campione ristretto e più dettagliato che abbiamo pubblicato sul British Medical Journal, ci siamo accorti che non sono fattori così rilevanti per la stima dell’aumento del rischio di morte dovuto all’inquinamento dell’aria», commenta Forastiere, che aggiunge «questo ci ha permesso di considerare un gruppo di cittadini molto più grande e che comprende anche l’Italia, che nella prima analisi non era presente».
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