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Gli sprechi nel Servizio Sanitario Nazionale: è possibile fornire raccomandazioni per combatterli?

medico con stetoscopio

La crisi del SSN italiano è aggravata non solo dal sottofinanziamento, ma anche da sprechi strutturali. Tra le principali cause vi sono inefficienze gestionali, acquisti non ottimizzati e inappropriatezza nell'erogazione di servizi sanitari. Per affrontare il problema, è necessario un approccio scientificamente fondato che includa raccomandazioni su politiche sanitarie più mirate, come la razionalizzazione della rete ospedaliera e l'adozione di modelli assistenziali innovativi.

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Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano è in crisi e la salute è diventato uno dei problemi che preoccupa di più gli italiani. La crisi della sanità pubblica ha portato questi giorni a uno sciopero di 24 ore del personale della sanità, promosso da alcune sigle sindacali e che si potrebbe definire “da esaperazione”. Un'esasperazione ampiamente giustificata. Nel quotidiano dibattito politico, tecnico e mediatico sulla crisi del SSN trova giustificatamente un grande spazio il tema del sottofinanziamento, mentre una scarsa attenzione viene riservata alla lotta agli sprechi. Eppure sono disponibili da anni le stime della Fondazione GIMBE, secondo le quali il 20% delle risorse della sanità pubblica italiana è sprecato, una percentuale enorme quando confrontata con quella dell’incremento annuale del Fondo Sanitario Nazionale, non solo quello reale, ma anche quella “sognato”. Per quanto riguarda la definizione di spreco in sanità, in un rapporto dell’OCSE del 2017 dal titolo Dare la caccia agli sprechi in sanità (Tackling wasteful spending on health) se ne dà una pragmatica: c’è uno spreco quando vengono offerti servizi e processi che sono dannosi o non producono benefici e quando vengono sostenuti costi che potrebbero essere evitati ricorrendo ad alternative più economiche che garantiscono risultati analoghi o addirittura superiori.

Il tema degli sprechi nel SSN è stato affrontato in modo strutturato soprattutto nel Rapporto sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale 2016-2025, nel quale la Fondazione GIMBE faceva quella stima del 20% di sprechi nel SSN pubblico e una tassonomia degli sprechi distinti in sei categorie: sovra-utilizzo di servizi e prestazioni sanitarie inefficaci, inappropriate e dal basso valore; sotto-utilizzo di interventi sanitari (preventivi, diagnostici, terapeutici, assistenziali, organizzativi, riabilitativi, palliativi, educazionali) dal valore elevato; inadeguato coordinamento dell’assistenza per inefficienze intra- e inter-aziendali e scarsa integrazione tra diversi setting assistenziali o servizi dello stesso setting; acquisto di beni e servizi a costi non standardizzati, superiori al valore di mercato e con differenze regionali e locali; inefficienze in processi non clinici (gestionali e amministrativi) che assorbono troppe risorse in relazione al valore generato; frodi e abusi con perdita diretta o indiretta da fenomeni corruttivi o da comportamenti opportunistici condizionati da conflitti di interesse.

Il più corposo documento di riferimento in tema di lotta agli sprechi in sanità rapportabile alla realtà del SSN è invece il già citato rapporto dell’OCSE Dare la caccia agli sprechi in sanità. L’OCSE definisce gli attori nella lotta agli sprechi e ne identifica quattro (i pazienti, i manager, i professionisti e il cosiddetto “sistema regolatore”) e identifica anche le ragioni per cui i singoli attori possono contribuire agli sprechi: non ne sanno abbastanza, non riescono a fare meglio, se fanno meglio ci rimettono (e se fanno peggio ci guadagnano, aggiungo io) e infine lo fanno perché a loro conviene. Ho trovato illuminante questa classificazione.

Un quadro concettuale di riferimento per la lotta agli sprechi nel SSN ci sarebbe, ma manca un approccio strutturato che la renda una priorità di sistema e manca anche un clima di attenzione specifica sul tema. Questa situazione di sostanziale disinteresse o presa di distanza nei confronti della lotta agli sprechi in sanità dipende da molti fattori, quali per esempio il timore che dando troppa importanza agli sprechi si tolga l’imbarazzo al governo di trovare le risorse per aumentare doverosamente il FSN, la convinzione che un certo livello di spreco e inefficienza sia in qualche modo quasi fisiologico (visto che persino quella danese ne avrebbe una percentuale simile alla nostra, secondo il già citato documento dell’OCSE) e comunque riducibile significativamente solo in tempi lunghi, e il timore che la lotta agli sprechi venga poi interpretata come una ricerca di ulteriori tagli.

Come si può allora provare a mettere la lotta agli sprechi al centro del dibattito sulla crisi del SSN e farlo in modo scientificamente fondato? Credo che sarebbe molto utile farlo partendo dagli sprechi legati alle scelte di politica sanitaria, portando quindi la loro ricerca al di là dei soli processi clinici e gestionali. Questo passaggio responsabilizzerebbe la politica e fornirebbe nuovi ambiti di manovra nel recupero delle risorse sprecate.

Quando parliamo di scelte di politica sanitaria ci muoviamo in un campo i cui limiti vanno in qualche modo definiti. Ai fini di questo intervento si fanno rientrare in questo ambito per esempio tutte le scelte che un governo regionale fa in termini programmatori sulla distribuzione e organizzazione dei servizi. Io utilizzerò come esempio la programmazione dei servizi ospedalieri.

Per analizzare queste scelte si potrebbe adattare l’approccio di Choosing Wisely, di solito concentrato sugli aspetti tecnico-professionali. Giusto un anno fa è stato pubblicato qui su Scienza in rete un articolo in cui questo approccio veniva così descritto: «Ideato da Slow Medicine nel 2012 in analogia alla campagna Choosing Wisely negli USA, di cui oggi rappresenta la sezione italiana, il progetto ha invitato le società scientifiche italiane a definire raccomandazioni su esami, trattamenti e procedure che non sono necessari e possono procurare danni ai pazienti. Da allora in collaborazione con decine di società scientifiche sono state stilate oltre 300 raccomandazioni rivolte ai professionisti della sanità, in una selezione di casi completate da schede per i cittadini, volte a segnalare, nei diversi ambiti specialistici, le cinque pratiche maggiormente a rischio di essere svolte anche quando non sono appropriate, ovvero non sono utili e possono essere dannose».

Si tratta ora di vedere se è possibile produrre schede di questo tipo con raccomandazioni sulle pratiche di politica sanitaria più a rischio di essere svolte senza utilità e aumentando i rischi. Anticipiamo subito un problema, comunque affrontabile, di disponibilità di fonti bibliografiche a supporto delle raccomandazioni. Le tradizionali fonti scientifiche riguardanti molte delle scelte di politica sanitaria sono carenti in termini di linee guida e di raccomandazioni, ma ciò non toglie che sia possibile costruire comunque un razionale tecnico.

Facciamo una prova sul tema di politica sanitaria che, come ho già anticipato, utilizzerò come esempio la programmazione regionale dei servizi ospedalieri su cui imposto la scheda con la seguente raccomandazione: «Non programmare le strutture ospedaliere per acuti in modo troppo disperso: utilizzare come riferimento i bacini di utenza delle varie discipline e il rapporto volume/esiti». Il razionale di questa scheda potrebbe essere il seguente: il mutato quadro epidemiologico con la prevalenza crescente nel nostro Paese dei bisogni di salute collegati al fenomeno della cronicità e della multicronicità spinge all’adozione di una offerta di servizi ispirata al cosiddetto Chronic care model, caratterizzato dalla prossimità, dalla proattività e dall'interprofessionalità. In fondo è questo modello ad avere ispirato l’impostazione del Piano Nazionale di Ricovero e Resilienza e quindi l’investimento su strutture come le Case della salute e gli Ospedali di comunità e figure come quella dell’infermiere di famiglia e di comunità. Contemporaneamente cresce la consapevolezza che la attività ospedaliera per acuti, a partire da quella che si occupa di casi complessi e della emergenza-urgenza, vada concentrata in strutture che garantiscono un'adeguata multidisciplinarietà e adeguati volumi. Per far crescere gli investimenti sulla risposta alla cronicità occorre disinvestire dalle reti ospedaliere disperse. Questo doppio obiettivo si può raggiungere applicando e adeguando il Decreto Ministeriale 70 del 2015 sugli standard relativi alla assistenza ospedaliera.

Adesso abbozzo le possibili pratiche a maggior rischio di inappropriatezza programmatoria in ambito ospedaliero:

  • non disperdere le casistiche chirurgiche in un numero troppo elevato di strutture ospedaliere. La loro distribuzione deve tenere conto del rapporto volume/esiti
  • non fare programmi di edilizia sanitaria che non tengano conto degli standard del Decreto Ministeriale 70 del 2015. Una volta avviati, questi programmi condizionano la rete ospedaliera per decenni
  • non mantenere negli ospedali aree critiche sottodimensionate in termini di posti letto. Quando sottodimensionate, le aree critiche hanno un elevato consumo di risorse umane non giustificato dai volumi di attività
  • non mantenere in funzione piccoli ospedali per acuti che non siano giustificati da una vera eccessiva distanza dall’Ospedale con Pronto Soccorso più vicino. I piccoli ospedali sono per loro natura a rischio di insicurezza per la difficoltà di garantire loro sufficienti risorse e adeguata casistica
  • non mantenere in funzione i Pronto Soccorso con uno scarso numero di accessi, a meno che non siano effettivamente giustificati da motivi di accessibilità degli altri. I Pronto Soccorso hanno notevoli difficoltà di reclutamento del personale specialista e sono una risorsa di sistema delicatissima.

Le raccomandazioni “scientificamente fondate” in tema di lotta agli sprechi potrebbero riguardare molte altre questioni di carattere programmatorio e organizzativo aprendo un fronte nuovo all’utilizzo dei metodi dell’Health Technology Assessment tradizionalmente confinato (vedi la pagina dedicata dell'Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) a singoli interventi/procedure/tecnologie. Anche qui procedo con un paio di esempi. Il primo è la programmazione e organizzazione delle reti cliniche sia tempo-dipendenti (ictus, trauma grave, infarto) che di patologia come quella oncologica. Tutti temi su cui ci sono documenti di indirizzo centrali, che aspettano di essere “tradotti” in una logica di tipo choosing wisely. Il secondo è il tema del cosiddetto task shifting (passaggio di competenze) tra medici e infermieri, un altro tema caldo, caldissimo, che ha a che vedere con l’appropriatezza d’uso delle figure professionali più importanti, da ridiscutere e ridefinire. Un tema che si confronta con questioni cruciali come il loro fabbisogno e la loro carenza.

Questo mio spunto di riflessione nasce dalla convinzione che vada trovato un terreno comune di impegno tra ricercatori e tecnici da una parte e decisori e gestori dall’altra finalizzato a recuperare risorse là dove sono male utilizzate, per poter uscire dall’inconcludente dibattito sul finanziamento, che aumenta in assoluto ma diminuisce come percentuale sul PIL e per aprire il SSN a innovazioni ormai urgenti, combattendo gli sprechi e utilizzandoli come opportunità.

 

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